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Antigone e Týr | Eroi o condannati? Il problema delle mezze verità

Aggiornamento: 8 giu 2021



È possibile che nell’antica società greca, non meno misogina della maggior parte delle altre di quell’epoca, Antigone potesse rappresentare l’eroina che si erge contro il tiranno Creonte? È possibile immaginarsi Sofocle estimatore del femminile, che rappresenta Edipo come un parricida incestuoso, Creonte come un empio (così li addita il vate Tiresia, contro il quale nessuno nelle tragedie ha nulla da obiettare), mentre proporrebbe come unico personaggio positivo Antigone, una donna? Difficile crederlo.

Eppure per quanto non manchino elementi che la caratterizzano in maniera negativa, è innegabile la mancanza della stessa chiara e inequivocabile condanna che subiscono gli altri personaggi tebani prima elencati. Nessuno ha visto in lei un personaggio demonizzato: forse che Sofocle non ne sarebbe stato capace se lo avesse voluto? Ovviamente sì.

La sorella di Polinice si dimostra effettivamente colei che sfida coraggiosamente il sacrilego bando del re per offrire i giusti onori al fratello morto, ma questa è solo mezza verità. Antigone si presenta indubbiamente come colei che è condannata fin dall’inizio alla morte per la sua arroganza irrispettosa del re, ma anche questa è solo mezza verità.

Le opposte letture di questa tragedia, che hanno ritenuto di dover prendere posizione, enfatizzando solo un aspetto piuttosto che l’altro della protagonista perché contraddittori, non possono che risultare solo parzialmente corrette e solo parzialmente sbagliate. A dispetto della presunta impossibilità di tenere insieme le mezze verità su Antigone, l’unico modo per non censurare nulla di lei è ammettere che è al tempo stesso un’eroina e una condannata.

Ma come conciliare in maniera coerente le immagini opposte di questo personaggio? Potrebbero offrire indizi casi simili di altri miti.



Vale la pena sviluppare un confronto per esempio con il dio norreno Týr, che secondo l’Edda di Snorri è l’unico ad avere il coraggio di prendersi cura del lupo Fenrir, a cui nessuno degli dèi osa avvicinarsi. Questi però si sentono minacciati dalla belva che sta crescendo enormemente e decidono di incatenarla. Dopo due tentativi falliti finalmente trovano la corda giusta, ma ora Fenrir è disposto ad accettare per la terza volta la prova di forza per vedere se riesce a liberarsi, solo se qualcuno mette la mano nelle sue fauci. Di nuovo l’unico a farsi avanti è Týr.

Cosa diremo di questo dio? È certamente un eroe perché salva coraggiosamente i suoi compagni, ma questa è solo mezza verità. È certamente un condannato perché fin dall’inizio conosce l’inganno (Dumézil in Gli dèi dei Germani parla di «procedura fraudolenta di garanzia») e sa che gli costerà la mano e resterà monco, ma anche questa è solo mezza verità.

Il dato è davvero sorprendente: finché osserviamo un personaggio come Edipo che prima è un eroe, quando sconfigge la sfinge, e solo in un momento successivo diventa un condannato, possiamo accettare il cambio di giudizio perché riferito a due gesti di due momenti separati, per Antigone e Týr invece c’è un solo momento, un solo gesto. Loro non sono prima eroi e poi condannati, nemmeno prima condannati e poi eroi, loro sono eroi e condannati allo stesso tempo. Peggio: loro sono eroi proprio in quanto accettano la condanna e sono condannati proprio perché si mettono a fare gli eroi (interessante anche l’analogo contesto: entrambi si prendono cura di colui al quale gli altri non si vogliono avvicinare, un nemico del passato o del futuro). I due giudizi non solo non sono separabili sul piano temporale, ma addirittura legati da una connessione logica.


Tutto ciò sembra privo di senso, invece non lo è. L’interrogativo su questi personaggi ci rimanda a quello dell’antropologo René Girard a proposito dei dati sociologici che Hubert e Mauss forniscono sul sacrificio rituale: esso è al tempo stesso una “cosa molto santa” e una sorta di delitto. La specificità di Antigone e Týr è che il loro è un autosacrificio, ma per il resto essi rappresentano e incarnano nella forma narrativa dei miti questa concezione della prassi sociale. Si condannano, compiono un delitto contro se stessi, ma questo delitto è “cosa molto santa” perché salva, o comunque difende, tutela, ciò che conta davvero, e per questo sono eroi.

Limitarsi a uno solo dei loro due aspetti è arbitrario, significa riconoscere solo mezza verità. L’ipotesi del meccanismo del capro espiatorio di Girard invece riesce ad essere esplicativa in maniera esaustiva proprio per lo stesso motivo per cui sembra contraddittoria: nella sua pretesa che sia la vittima di un linciaggio colui che viene venerato come divinità o come eroe, assume e non censura il doppio volto del sacro, mortifero e salvifico al tempo stesso; anzi: è più giusto dire salvifico in quanto mortifero e mortifero in quanto salvifico. Il capro espiatorio è il condannato che deve morire e al tempo stesso il tutelare dell’armonia.

Antigone e Týr non sono casi eccezionali nel senso che sono eccezioni, personaggi unici o rari nel mondo dei miti, ma sono eccezionali perché in loro si manifesta con eccezionale chiarezza il doppio volto di tutti i personaggi mitici, come questo doppio volto non sia una coincidenza, ma un elemento essenziale. Se a volte sembra che sia sottolineato solo uno anche dagli stessi narratori, è perché con il tempo anche loro non vogliono più ambiguità e decidono di raccontare solo mezza verità. A quel punto diventa la sola verità del mito.

In Antigone sembra più sottolineato il fatto che lei è condannata e passa in secondo piano che tutela l’armonia tra vivi e morti, nell’Edda si sottolinea più la vittoria degli dèi sull’infero mostro Fenrir e passa quasi in secondo piano il fatto che Týr è condannato a restare monco. In altri miti ci sono eroi che sono solo eroi e mostri che sono solo mostri, ma non dobbiamo mai dimenticare che non esiste eroe senza mostro né mostro senza eroe: il doppio volto del sacro non sparisce mai, solo noi possiamo decidere di vedere mezza verità.

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