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Dal sacro al santo | Appunti di lettura per Padre Sergij di Lev Tolstoj

Aggiornamento: 17 mar 2020


«A Pietroburgo, verso il quaranta, successe un fatto straordinario che doveva destare una sorpresa generale» (1): Stepàn Kasatski, bellissimo principe e brillante comandante di squadrone, fedele dello tsar Nikolàj Pàvlovič e promesso ad una delle più belle damigelle dell’imperatrice, recide violentemente ogni legame con il mondo per fuggirne e farsi monaco. «L’avvenimento parve straordinario e incomprensibile, specie per quelle persone che ne ignoravano i motivi intimi; ma per il principe Stepàn Kasatski tutto ciò accadeva in modo talmente naturale da non potere immaginarsi di agire altrimenti». Che cosa muove dunque il nostro? Tolstoj non ne fa mistero (del resto conosce intimamente quella che anzitutto è la propria bestia nera), e, inserendosi discretamente nella narrazione, lascia apparire una preziosa traccia: «fin dalla sua infanzia una grande energia s’era andata in lui formando, che poi in varie maniere esteriori si esplicava, ma che in realtà era sempre la stessa (…) a impegnarlo per conseguire il successo pieno e la perfezione, di che poi tutti lo ammiravano e lodavano».

Stepàn Kasatski, ancor prima di prendere la tonaca e divenire Padre Sergij, ha consacrato se stesso alla divinità anfibolica dell’orgoglio: con un’identica asettica (e già ascetica) cura modula se stesso e ogni propria azione per «ottenere il plauso di tutti ed essere additato come esempio», per esporsi allo sguardo d’altri verso il quale è trascinato. Lo studio, le donne, gli incarichi militari si susseguono in modo vorticoso quanto indifferente: meri strumenti per catalizzare sempre nuovo desiderio di altri su di sé, si rivelano vacui e insignificanti dall’altezza di volta in volta raggiunta. Se «il desiderio passa sempre per l’altro, l’azione veramente efficace deve vertere sempre sull’io, essere totalmente interiore» (2): e così Stepàn, mistico del sottosuolo, forza se stesso, si torce e distorce, per procedere nel frenetico itinerarium in Deum. Il movimento deve essere perfetto per colpire nel segno; perché le invidie degli altri si infiammino, la propria freddezza deve essere millimetricamente calcolata.



Una sola increspatura adombra questo gelido nitore: «si accorse ben presto che la cerchia di persone che andava frequentando non era per niente il gran mondo, e che esistevano cerchie di persone ben più aristocratiche, dalle quali sì era ricevuto, ma per sentirsi poi presso di loro come un estraneo; con lui si mostravano affabili e cortesi, tuttavia il loro modo di trattare dimostrava che c’era distanza, che egli non apparteneva al loro rango. Allora desiderò appartenervi». Il rifiuto dell’alta aristocrazia frustra il suo ego; la sfuggente divinità sembra avanzare una nuova promessa, ingenerando in lui ulteriore ambiziosa dedizione. L’unico modo per accedere al supremo rango, improvviso sancta sanctorum, è il legarsi a una nobildonna — e il Kasatski sceglie, in modo indicibilmente lucido e insieme inconsapevole, la contessa Korotkova: la favorita dell’imperatore. E del resto, il suo sguardo avrebbe potuto posarsi altrove? Stepàn «voleva un gran bene, ma proprio un gran bene, all’imperatore. Ogni volta che ispezionava quel corpo (…) provava un’estasi d’amore, quella stessa che ebbe a provare in seguito quando provò amore per una donna: solo che quell’estasi dell’innamorato che egli sentiva per Nikolàj Pàvlovič era più forte (!). Avrebbe voluto dimostragli tutta la sua devozione, e a lui sacrificar tutto se stesso». La lucente munificenza dell’imperatore è tanto generosa e traboccante da illuminare, di rimando, anche la contessa. E Kasatski, uomo orgoglioso che primeggia senza limiti, il «padrone inesorabilmente attratto, di desiderio in desiderio, dallo spettacolo supremo dell’onnipotenza» (2) non può che individuare il proprio mediatore nel Padre della Russia intera, il Padrone per antonomasia — lo tsar.

Così, questo ambizioso eterno marito, giocando con il fuoco, si vota alla propria capitolazione; qualche giorno prima delle nozze, sulla soglia dell’ambita iniziazione a nuova vita, la confessione della giovane fidanzata rivela a lui quel che già sapevano tutti: la precedenza del desiderio dell’imperatore sul proprio. Il suo matrimonio si scopre una degna riparazione offerta all’onore della giovane, l’agognata nomea si tramuta in generale scherno: lo scandalo è divorante, tremendo e insopportabile. L’unica via percorribile per sfuggire al ridicolo e risollevarsi sugli altri, ora che il suo desiderio è stato smascherato e deriso, è un’ulteriore e definitiva torsione, l’elevazione massima: l’ascesi in senso proprio.



Stepàn così rinuncia al mondo e rinuncia al proprio nome (lo conosciamo ora come Padre Sergij) rinuncia al proprio desiderio in nome di niente: il ritiro monastico, e poi eremitico, non si distingue ancora dalla vita precedente, ma ne è piuttosto l’esasperazione. «Diceva che il Signore lo chiamava al di sopra di ogni cosa», vocazione che nasconde, piuttosto, una rancorosa provocazione: in questo modo infatti poteva «dimostrare quanto riteneva vile quel che per gli altri aveva tanto pregio; si metteva ora in tale condizione da guardare dall’alto coloro che un tempo invidiava». Sergji si è vergognato della propria vita, e ora cerca religiosamente ciò che la nega — avendo bramato il tutto, viene inesorabilmente respinto verso il nulla: il suo ascetismo sotterraneo si pone dunque come disciplina severa ed annichilente.

Emblematico e rivelatore è l’incontro con una donna (anch’essa coscienza annoiata, quanto affamata di riconoscimento: «io sono bella, e loro lo sanno. Ma questo monaco, possibile che non lo capisca?») che per scommessa tenta di sedurlo. Il monaco sente la propria imperturbabilità perdersi, teme di venir risospinto verso il basso dal suo più basso desiderio, e per rifuggire nell’altezza non può che eliminare una zavorra: si taglia di netto un dito, amputazione fisica che diventa ipertrofica crescita dell’ego. La falange mozzata assume lo splendore della reliquia, vestigio di una perfetta pienezza d’essere, e la donna, colpita da tale inscalfibile superiorità, si fa monaca.

Attorno a questa capovolta immagine di santo si moltiplicano conversioni e proseliti: a Padre Sergij, circondato da affascinati — o posseduti? pare chiedersi Tosltoj— discepoli, sembrano perfino venire attribuiti poteri taumaturgici e demonici carismi. Il continuo esercizio di superamento di altri e di sé è però una cattiva infinizione: Sergij si sente soffocato da questo spiritualismo idolatrico e morboso, da questo movimento circolare compiuto non in nome di Dio ma di una divinità inaccessibile, vuota, inanimata, il cui rigido comandamento non è l’umiltà ma l’umiliazione. «L’infaticabile inseguimento del Non-essere conduce l’eroe nei deserti più aridi» (4): Padre Sergij ha raggiunto l’apice della verticale, una perfezione uguale a se stessa e su se stessa richiusa o rinchiusa. Si sente solo, stanco, prova pietà per sé, ma non sa come sfuggirsi; il divino ancora si sottrae e tace.



«Se cacciano Dio dalla terra, noi lo ritroveremo sottoterra!» gridava Dmitrij Karamazov andando incontro ai lavori forzati, abbracciando il proprio destino di morte e resurrezione. E sottoterra, o meglio nell’abiezione, Padre Sergij ritrova Dio, l’altro e insieme se stesso, compiendo un movimento solo impercettibilmente diverso: una nuova mutilazione, questa volta del proprio ego. Stepàn / Sergij infatti si ritrova di nuovo tentato da una donna, una ragazza nevrastenica che «poteva costituire una nuova occasione per confermare il suo potere di guarire e la sua gloria»: restituire per l’ennesima volta l’identica, ormai caricaturale, visione di sé in cui rimanere intrappolato. Ma il monaco, inizialmente saldo nella certezza di poter domare sé per vincere l’altro, vacilla davanti al «timore infantile che le si leggeva nel volto», e infine vi cede. Lo svuotamento si rivela però vivificante e non mortifero, l’abbassamento permette finalmente un’apertura, è liberazione. Preso dalla disperazione per la propria grettezza, l’uomo si allontana dal monastero e raggiunge una vecchia amica d’infanzia, Praskov'ja Michàjlovna, donna semplice e mite alla quale si rivolge con angoscia per ricevere aiuto, una direzione («bisogna vivere. E io che credevo di saper tutto, di poter insegnare agli altri come si deve vivere, io non lo so; domando che tu me lo insegni»). Per la prima volta la posizione assunta nei confronti dell’alterità è differente: Kasatski domanda, si mantiene a latere, si fa da parte per accogliere un insegnamento — si fa passivo, per venire perdonato. La confessione rivolta alla donna è quasi febbrile, ed è seguita da un’interrogazione altrettanto tormentata: Praskov'ja, incalzata, racconta del suo modesto mestiere da insegnate di musica («e i tuoi alunni fanno progressi?», domanda che l’amica fatica a comprendere e prendere sul serio), dei piccoli quanto concreti gesti rivolti alla famiglia e alle persone vicine, e, non ultimo, della totale assenza nella sua vita del sacro («- Avete cura dei doveri religiosi? -Così malamente, e tanto li trascuro!»). Attraverso questo incontro gli è suggerita una conversione dello sguardo: convinto di poter accedere alla divinità nell’esemplarità, Kasatski ritrovava solo la propria immagine, moltiplicata entro un pericoloso gioco di specchi — nel quale anche il volto dell’altro uomo andava irrimediabilmente perduto. Ora, una possibilità salvifica gli si dischiude davanti agli occhi. Da Praskovja Michajlovna, Kassatski apprende la differenza tra il chiarore abbacinante del Bene, riflesso idolatrico, e la mitezza della bontà dimentica di sé (lei è «quello che dovevo essere e non sono stato. Io vivevo per gli uomini con il pretesto di vivere per Dio; lei viveva per Dio, credendo di vivere per gli uomini… Dio non esiste per colui che è vissuto, come me, della gloria umana. Ora andrò a cercarlo»).

«Se il chicco di grano caduto nella terra non muore, resterà solo; ma se muore, allora produrrà grande frutto» (Gv 12, 24): paradossalmente è nella caduta che Stepàn / Sergij apprende la santità. E qui Tolstoj situa l’ultima, incisiva, inversione: ammaestrato dalla donna, ora il monaco può sì divenire un uomo di Dio, e lo fa rinunciando ancora una volta al proprio nome, per non assumerne più nessun altro. «Io sono colui che sono» (Es, 3, 14), così rispondeva Dio a Mosé: ed è questa latenza che ora l’uomo sceglie di imitare — nel nome del Padre —, ritraendosi entro quella stessa fuga e abbandono che Tolstoj riuscirà a compiere solo in punto di morte (gesto necessario e già urgente, ma che l’autore, per ora, non può che relegare in una dimensione indefinita o impossibile: il non-luogo Siberia, l’atemporale presente). «Per otto mesi Kasatski andò così errando, il nono mese lo arrestarono in una città di provincia (…). Alla domanda dove aveva messo le carte e chi fosse, dichiarò di non avere nessun documento e di essere un servo di Dio (in russo un rab božij, cioè un cristiano). Allora lo aggregarono al numero dei vagabondi, gli fecero il processo e lo mandarono in Siberia. In Siberia trovò da allogarsi nel podere di un ricco contadino, e ancora là vive. Lavora nell’orto del padrone, istruisce i bambini, assiste gli ammalati».


* * *


(1) Si fa riferimento alla versione del racconto Padre Sergij, contenuta in L. N. Tolstoj, Romanzi brevi e racconti, a cura di G. Donnini, Gherardo Casini, Roma 1976.

(2) R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 2009, p. 136.

(3) Ibidem, p. 146.

(4) Ibidem, p. 245.

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