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Il primo carnefice | Dio non è il vero cattivo


Il film italiano Il primo re è estremamente complesso. Molti sono gli approcci e i punti di vista a partire dai quali lo si può commentare. Ma un tema sicuramente non secondario è quello del sacrificio: questo film sembra un vero e proprio compendio di tutte le possibili accezioni che il termine (se non tra i più polisemantici, di sicuro tra quelli che lo sono in maniera più problematica) può assumere, di tutte le possibili esperienze concrete a cui il concetto si lega.

A partire da questo punto di vista, possiamo riconoscere nel film due percorsi paralleli, i quali a loro volta presentano tre tappe in una sorta di climax decisamente ascendente.

Il primo percorso lo potremmo intitolare: Il divino vuole sacrifici. La prima scena lo mostra sul piano simbolico: le acque annegano tutto il gregge a due fratelli, Romolo e Remo, i quali diventano schiavi. Dio dà, Dio toglie.

Poi si passa al piano rituale: gli uomini devono combattere tra loro, chi perde è il sacrificato. Il dramma cresce: la vittima non è più l’animale. La divinità deve essere onorata con sangue umano.

Il film si conclude con il piano esistenziale: di nuovo il divino esige la lotta e la morte del perdente, ma in questo caso ciò non si compie più nel contesto di un combattimento rituale. La violenza irrompe nell’esistenza in quanto tale: non c’è più alcuna forma che la contiene, che la argina, tutta l’esistenza ne è travolta.

Il secondo percorso lo potremmo intitolare: L’uomo deve compiere sacrifici. All’inizio osserviamo due fratelli che si sacrificano l’uno per l’altro. Questo “per l’altro” è fondamentale. L’uomo deve sacrificarsi perché l’altro è in difficoltà. I due fratelli sono molto uniti.

Il riferimento a una difficoltà e all’essere uniti ritornano nella tappa successiva, ma curiosamente nel momento in cui bisogna spiegare perché si deve compiere un sacrificio, la dinamica è quasi capovolta: il gruppo deve restare unito nella difficoltà e questo comporta il sacrificarne uno. Adesso non c’è più alcun “per l’altro”, c’è ancora la volontà di restare uniti e la difficoltà come ostacolo, ma adesso l’altro è la vittima sacrificabile.

La terza tappa è l’apice del dramma, quando il sacrificio dell’altro avviene in nome di quel “per l’altro”. Per salvare Romolo, Remo rende chiunque sacrificabile e sacrifica chiunque. Perciò deve essere sacrificato.



Distinguere i due percorsi è fondamentale. Il film, solo dal punto di vista scelto ovviamente, ricorda le tragedie euripidee: l’uomo è in balia della cieca, ma sacra, furia divina (su tutte valgano come esempi emblematici Le baccanti e Ifigenia in Aulide). Dio è il cattivo, proprio come nelle tragedie euripidee gli dèi sono i cattivi e gli uomini le loro vittime. O così sembra.

L’accostamento con il drammaturgo greco è tanto più opportuno quanto più si manifesta che proprio come Euripide, Matteo Rovere finisce per mostrare di più di quello che apparentemente nel suo film afferma (sia intenzionale o meno è irrilevante: non è nella testa dell’autore che ci si vuole addentrare, ma in ciò che l’opera comunica). Proprio perché sonda tanto a fondo il problema della violenza, anche se racconta che è divina, in realtà, voluto o no, offre tutti gli indizi per cogliere che essa di divino non ha niente. Il divino è proprio il mascheramento necessario per non dover ammettere che l’unica vera causa è l’umano.

Ma come? L’umano non è contro la violenza? Certo che lo è: l’umano sostiene quel “per l’altro” di cui abbiamo detto. Eppure abbiamo anche detto che è proprio quel “per l’altro”, che all’inizio è la forza che si oppone alla “volontà divina”, motore apparente del dramma sacrificale del film, a diventare alla fine il suo più grande alleato: il vero motore dell’apice del dramma.

Se si mettono in relazione i due percorsi esposti, apparentemente è la presenza del primo che giustifica quella del secondo, ma se si guarda con attenzione si scopre che è vero esattamente il contrario. Un dettaglio apparentemente innocuo: Dio non compare mai in questo film. Sembra una banalità sottolinearlo, invece è decisivo: come può essere il vero cattivo senza mai comparire? Siamo stati imprecisi: non è vero che Dio non compare, è piuttosto vero che Dio compare solo come parola pronunciata dagli uomini. Quindi il film non mostra Dio assetato di sangue, mostra che gli uomini quando c’è da spargere sangue pronunciano il nome di Dio (invano?): una differenza tutt’altro che superflua. In compenso mostra in maniera inequivocabile che gli uomini trovano costantemente ottimi motivi per spargere sangue.



Qualcuno a questo punto obietterà che è la profezia a scatenare la follia di Remo, l’apice del dramma. È la profezia che rivelandosi inizia quel concatenamento causale di eventi che provoca proprio il suo compiersi, ovvero l’ultimo sacrificio, quello di Remo stesso. E chi ha causato la rivelazione se non Dio?

Obiezione accolta. Il fatto che il film tenda ad avvallare che la sacerdotessa è stata realmente ispirata (benché comunque non lo dichiari in maniera inequivocabile), rende quello il momento più mitico di un film che nel complesso cerca il più possibile di essere “storico” o quanto meno realistico. La domanda sorge quindi spontanea: perché questo voltafaccia, unico in tutto il film?

Di nuovo il paragone con Euripide è di straordinario aiuto. La risposta è semplice: perché la storia di Romolo e Remo è effettivamente un mito. Il drammaturgo e Rovere sono impantanati nel mondo in cui si addentrano e nelle sue regole. Come insegna Girard, un mito è tale perché è già deciso sin dal principio chi deve essere sacrificato. Remo dev’essere sacrificato. Non è Dio che lo chiede, è il mito: di nuovo l’uomo che pronuncia il nome di Dio.

Nel 2019 la colpa di aver superato il (sacro) confine, come nell’originale, non è una scusante sufficiente per il pubblico (perché è inutile nasconderlo: non a Dio deve essere gradito il sacrificio, ma al pubblico, l’umano): Remo deve essere il primo carnefice perché Romolo nel sacrificarlo non appaia tale.

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