di Simone Berno
L' articolo di Daniele Manusia spinge il vostro Bartleby minore a tornare a girovagare attorno all'argomento che popola l'immaginario di quasi ogni italiano, direttamente o di rimando, volente o nolente: il calcio, il fùtebol, come diceva uno dei più bei personaggi di Sordi. Già la volta precedente è stato un altrettanto eccellente articolo dagli echi girardiani a indurre il vostro a confrontarsi con la cronaca sportivo-sociale; questa volta, di nuovo, leggendo l'articolo su l'Ultimo Uomo non abbiamo potuto non sentire aria di famiglia.
Già il titolo sottolinea la dinamica polarizzante-sacrificale quando ci dice che «qualcosa si è rotto tra noi e i calciatori», ma la chiusura finale – che pone il condiviso e non piccolo problema di quale visione del mondo e della società, delle relazioni tra i suoi membri, siano sottese alle pratiche economico-professionali-sociali e di quanto questo legame tra pratiche e visioni sia volutamente taciuto, nascosto – rincara il lamento per la riemersione della logica sacrificale, sebbene non riusciamo totalmente a comprendere se vi sia o meno una leggera strizzatina d'occhio nei suoi confronti.
Sì, perché la chiusura di un articolo è di solito il messaggio che si vuole resti nella mente del lettore, e questo articolo ci lascia con il sentore di una polarizzazione non tanto criticata, quanto spettacolarizzata, fatta oggetto di una presentazione che rinforzi i sentimenti a partire da i quali «sembra divertirci lo spettacolo di tre giovani talenti che cadono in disgrazia».
Mi sono allora interrogato su questo risentimento e ho raccolto alcuni pensieri, che condivido con voi.
Quel risentimento sembra dovuto a più fattori: innanzitutto, non escludiamo, come riporta anche l'articolo, il fatto che queste figure vivano una vita totalmente altra rispetto a quella delle persone comuni: che vivano in ambienti protetti, quasi entro enclavi nelle stesse città divenute sempre più insicure per le persone normali; che vivano di una ricchezza totalmente sproporzionata rispetto alla qualità della vita e alla disponibilità economica di una persona media. Oltre a questo, pensiamo ovviamente che un punto che le renda particolarmente oggetto di risentimento sia il fatto che comunque vengano generalmente presentate come i modelli da imitare. Dei calciatori viene più che suggerita una imitazione a tutto tondo: dallo stile estetico alle dinamiche relazionali con i propri partner; ma tale imitazione non viene indotta in maniera diretta quanto piuttosto attraverso la presentazione ossessiva di loro immagini, immagini di ogni aspetto della loro vita.
Non è quindi soltanto l'estetica, il taglio di capelli, gli indumenti, le automobili, ma la gestione della loro vita attraverso il medium delle immagini autoprodotte, e che riguardano soprattutto cosa fanno nel tempo libero, i posti che frequentano, la gestione delle loro relazioni sentimentali, tutti ambiti oggetto della loro industria professionale tanto quanto lo è la loro prestazione sportiva. E sappiamo bene quanto su questo gioco dell'esposizione della vita delle celebrità si basi il meccanismo di rilancio mimetico del desiderio al servizio della divinità del consumo, quel rilancio che vive della proliferazione delle immagini, unico ambito di realizzazione di sé per l'individuo consumatore nell'iperrealtà, e principale veicolo di promozione e autopromozione economica tanto per i grandi brand quanto per noi miliardi di persone del sottosuolo.
Conosciamo bene, ad esempio il doppio gioco di promozione reciproca tra celebrità e luoghi di servizi (e non nascondiamo che ci dilettiamo qui ad aprire una parentesi che ci è cara su uno dei perversi dispositivi di assoggettamento, e su cui non escludiamo di tornare in un secondo momento). Parliamo infatti persino di luoghi nati attorno a professionalità e cultura del paesaggio, totalmente antitetici al mondo internazionalista e ultrafinanziario come quello che ad esempio circola attorno agli eventi sportivi, che si sono riciclati nel fare da scenario alle foto di ricche celebrità, e ottengono da queste la promozione non tanto e non solamente grazie alla frequentazione da parte loro, ma soprattutto alla produzione di immagini che queste vi abbinano. Luoghi che si vorrebbero e vengono pubblicizzati come contatto con la natura non contaminata dalla modernità; esperienze vendute come autentica vita agreste pubblicizzate attraverso effimere storie da social di persone che sono l'esatto opposto della vita che quei luoghi vorrebbero rappresentare: perché di rappresentazione si tratta, e lo possiamo ben vedere in uno tra i molti aneddoti che perfettamente riassume le assurde contraddizioni di queste finzioni: in questi luoghi di autentica vita agreste, in particolare nei fine settimana, possiamo trovare parcheggiata magna copia di automobili ipermoderne, accorse ad acquistare a caro prezzo, ad esempio, un soggiorno durante il quale si vive l'elettrizzante esperienza, tra le altre, di mungere una mucca: lavoro che i proprietari avrebbero comunque dovuto fare o far fare per il benessere del loro animale, ma perché lavorare se, nel contado iperreale, viene in visita colui che paga per farlo al posto tuo ritrovando gli antichi legami con la terra e le sue creature? Altro che jacquerie, al postmoderno villico pure il Megadirettore Galattico je spiccia casa.
Chiudendo la nostra compiaciuta parentesi, possiamo dire che il risentimento che genera questa espulsione e l'indifferenza sottolineata da Manusia, è dovuto non soltanto alla loro ricchezza ma, soprattutto, al fatto che questa loro grande ricchezza è accompagnata a un'ingiunzione costante e totalitaria verso la loro imitazione, perché presentati tra i protagonisti indiscussi dell'impero delle immagini. Tale imperativa ingiunzione è, al contempo, ciò che genera invidia e risentimento ed insieme volontà di vendetta: ogni minima opportunità di pescare in fallo una di queste divinità iperreali, a prescindere dalla fede calcistica, diviene motivo più che giusto per gettarli nel fango della realtà.
E tuttavia, troviamo che parte del risentimento del fan provenga anche dalla consapevolezza che quella distanza, quella sproporzione tra la loro vita e la nostra, tra le loro condizioni di agio e protezione, così diverse dalle nostre, dipendono anche – e soprattutto – dal nostro stesso farne modelli, dal nostro esserne fan, dal nostro tifo, dal nostro sceglierli come modelli del nostro desiderio, tanto in una forma diretta quanto secondo una dialettica opposizione. Siamo cioè noi quindi gli artefici di quella differenza, che ci ritorna indietro in maniera così umiliante.
L'ordine di realtà che governa attualmente il dispositivo mimetico è quello del consumo, del profitto: esso genera attraverso il mimetismo questa rincorsa infinita di imitazione per/in immagini; di più, ha trovato modo di far profitto dalla sola imitazione delle stesse immagini, dalla pura produzione di queste, a tutti gli effetti uno degli ultimi ambiti ancora rimasti nella disponibilità del singolo, grazie a strumenti di tecnologia individuale impensabili 20 anni fa, sia in termini di hardware che in termini di software.
Per capirci: i giocatori rimarranno sempre 11 per squadra, quindi hai voglia ad imitare il calciatore! Ma tutti possono imitare le immagini di cui si fa produttore e promotore, rincorrendosi nell'infinita produzione di copie: è su questa produzione di immagini che si genera il profitto. Ma, ovviamente, anche quella tensione sociale che esplode in episodi come questo, perché, nel produrre immagini che si vogliono romanticamente autentiche nel loro artato confezionamento, si vuole essere come il modello, ma, essendo strutturalmente impossibile e sapendo che è la stessa rincorsa imitativa a generare quella distanza sempre più incolmabile, scatto imitato dopo scatto imitato, si genera quel risentimento tale che, il primo anche solo sospettato di essere colpevole di qualcosa, diventa la vittima espiatoria.
Si potrebbe allora dire che tutto questo rivela la natura di doppio legame (double bind), cui è sottoposto l'individuo comune: da un lato deve provare entusiasmo nell'osannare l'idolo da bravo fan(atico), adempiere con diligenza al suo ruolo di discepolo; dall'altro deve sentirsi sempre mancante rispetto alla pienezza offerta dall'immagine idolatrica: garantendo loro, ormai consustanziali all'immagine, lo statuto di modello da imitare: tanto vicino da poterlo rincorrere con un altro scatto ma mai abbastanza da poterlo sostituire come modello per il prossimo selfie.
È la tensione dovuta a questo doppio legame che esplode ogniqualvolta venga offerta l'occasione per delegittimare e declassare il calciatore dal proprio statuto di modello. Si deve imitare con l'entusiasmo del fan, perché, se non è questa la volta buona, di sicuro sarà la prossima imitazione a conferirci l'agognata pienezza: nell'attesa, resta che dobbiamo sentire di non essere altrettanto imitabili. Risulta fondamentale comprendere che questo malessere è necessario, perché, senza, il circolo economico-sociale della rincorsa si fermerebbe, e con esso tutta la giostra non solo dei saltimbanchi, ma del big money, come si suol dire. Quindi, per cortesia, non venitemi a parlare della piaga sociale della depressione, dei disturbi della vita psichica ed emozionale, della ludopatia come tipica piaga postmoderna e catastrofe sociale: certo che sono tutto questo, ma lo sono nella misura in cui, in quanto tali, sono il nutrimento del mondo moderno, la benzina del radioso avvenire, il carburante di una macchina il cui motore resta il proliferante, rizomatico, capillare desiderio mimetico. Un problema che è tale solo dal punto di vista delle singole persone che cadono nel loro vortice, ma non dal punto di vista di ciò che ha fatto di esso la propria prosperità. Con buona pace di chi è preposto a far da guardia e a dirottare tali problematiche sulla psiche del singolo, anziché coinvolgere le dinamiche relazionali della società in cui il singolo è preso.
Allora, in ultima analisi, quando l'articolo si chiede soltanto cosa si sia rotto tra noi e i giocatori, rischia di presentare una polarizzazione funzionale: com'è infatti che l'industria mediatica dello spettacolo si affretta a eleggere questi calciatori come capri espiatori? La tensione latente dovuta al doppio legame illustrato poco sopra deve ciclicamente scaricarsi, allentarsi, per poi ripresentare in forma nuovamente giustificata la polarizzazione tra un Noi e un Loro (dove i Loro che prima erano modelli, a tempo debito divengono i Loro sacrificabili impunemente).
Ma il punto è capire che siamo entrambi vittime della stessa macchina iperreale del desiderio. Certo: c'è chi è vittima a sei euro l'ora e c'è chi è vittima a 4 milioni di euro l'anno. Ma il problema è la condizione del primo, non del secondo; finché ci scanniamo a vicenda senza capirlo, preferendo tagliare quei due miseri euro in più all'ora a coloro che ne prendono uno in più di noi, è sicuro che il Megadirettore Galattico potrà dormire sonni tranquilli sulla sua poltrona in pelle umana.
La recente lettura di Mandeville per gli incontri in Corte dei Miracoli, è stata davvero stimolante. Il primo passo che la memoria mi ha suggerito in occasione di queste riflessioni sul caso delle scommesse nel mondo del calcio sono quelle magnifiche righe in cui l'eco del nostro René sembra anticiparlo di qualche secolo: «L'ostracismo dei greci era il sacrificio di uomini di valore all'invidia epidemica, e spesso veniva impiegato come rimedio infallibile per curare i mali del malumore e del rancore popolare. Una vittima di stato […] si tratta di un omaggio reso alla malizia del popolo […] nulla più stanca della ripetizione di lodi cui non si può in alcun modo partecipare.»; ma è pensando anche al più profondo insegnamento contenuto già semplicemente nel titolo La favola delle api – ovvero vizi privati, pubblici benefici che abbiamo pensato di riflettere partendo dalla questione scommesse: è il dispositivo stesso del mimetismo che suggerisce, appunto, l'imitazione anche dei vizi; anzi: soprattutto dei vizi, e in questa vicenda ne abbiamo diversi, perché non è solamente l'imitazione del vizio delle scommesse, ma è anche il vizio dell'imitazione delle immagini.
La pubblicità del gioco e delle scommesse è sicuramente onnipervasiva, campeggia ovunque; come dice lo stesso autore dell'articolo, e come ancor meglio puntualizza un altro ottimo articolo uscito sempre su Ultimo Uomo (più puntuale rispetto all'universo mimetico che ruota attorno al mondo dello sport), le scommesse sono parte dello stesso show calcistico: abbiamo pubblicità indirette delle scommesse durante la trasmissione degli eventi sportivi (quelle dirette sono proibite, come sottolinea l'articolo, ma se pubblicizzi siti di statistiche che magari hanno la desinenza in -bet, credo sia legittimo il celeberrimo leggerissimo sospetto di fantozziana memoria). Ne abbiamo altre indirette nelle trasmissioni che ruotano attorno alle partite, quando ad esempio vengono lette le quote di scommessa. È facile quindi vedere in questa dinamica come un vizio privato diventi un pubblico beneficio, nel senso che genera maggior flusso finanziario, ormai unico valore equivalente del benessere nel mondo. È anche questo che ci fa vedere come lo stesso calciatore sia vittima e non si trovi da un altro ipotetico lato rispetto a questo fantomatico patto sociale. È semplicemente più in vista, e questa sua esposizione non ha in lui il primo beneficiario.
Ma è ancora più pervasiva, onnipresente e capillare l'ingiunzione più generale all'imitazione del desiderio altrui attraverso l'ossessiva presentazione delle immagini dell'altrui vita, in primis delle celebrità: ingiunzione cui tutti siamo soggetti, Loro non meno di Noi.
Quindi grazie, ma niente foto, «non compro niente», né ho in tasca frammenti di terracotta, «I would prefer not to».
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