di Simone Berno
È premura nostra e del nostro autore segnalare che la prima versione dell'articolo, di cui questa pubblicata non aggiunge nulla salvo piccole cesellature stilistiche, è giunta in redazione il 18/11 e non è stata pubblicata prima per motivi di organizzazione interna: questo a scanso del dubbio che risulti plagio dell'articolo poi uscito su LaVerità di domenica 20/11 a firma dell'autore del tweet citato in questo testo, pensandosi semmai in dialogo da remoto con tale autore, di cui il nostro non nasconde l'interessata lettura.
L'invadenza della grancassa mediatica raggiunge le orecchie di tutti e ci obbliga un po' a sentirci in parte come quelle grandi orecchie camminanti che, assieme ad altre anatomiche ambulanti parti umane degne di Bosch, caratterizzano uno dei passi dello Zarathustra dello zio baffone.
Così, raggiunto dalle notizie della solerzia governamentale dei nostri illuminati regnanti, accorsi di buona lena in una paio di località turistiche (no, non sto strizzando l'occhio alla loro funzione simbolica), mi sono imbattuto in questo sagace e sibillino tweet ed ho raccolto un paio di riflessioni.
Non sono qui per entrare nel merito del contenuto di tali arcadici consessi, perché non è questo l'oggetto di questa riflessione, ma, in quanto filosofi, dobbiamo interrogarci su questa pratica – che pratica sia, cosa sottenda, come si articoli – e, in quanto girardiani, non possiamo non rilevare alcuni punti.
Nell'era del consumismo mondiale e del liberismo totalizzante, il consumo è principio di indistinzione delle persone di tutto l'orbe terracqueo: il possesso stesso del medesimo universo di immagini, che prende forma, si propaga e perpetua a partire dai dispositivi cellulari, omogeneizza il desiderio e l'immaginario di consumo prima ancora dell'effettiva disponibilità pratica del consumo, ed omogeneizza le povere pecorelle, agognanti il pastore di greggi che garantisca loro i pascenti pascoli. In questo sterminato orizzonte di indifferenziazione, dove l'immagine del consumo produce mimeticamente miliardi di desideri cloni sparsi per il pianeta, alle soglie di questo terzo decennio giunge a imporsi all'uscio di ogni privato il tentativo di imporre coartatamente nuovi consumi, portando a compimento un'idea che prende ormai la rincorsa da una quarantina di anni e che è ormai pronta a travolgerci tutti con la grazia di un treno merci a tavoletta: rivitalizzare il lato del consumo di massa (en passant, ma giusto perché non si dica che non siamo complottisti, in contrazione a causa dei salari rimasti misteriosamente e inspiegabilmente al palo rispetto al modesto e meritocraticamente inappuntabile incremento dei profitti e del tasso di produttività del lavoro).
Ciò che però attira l'attenzione dei miei sensi girardiani, è che questo avvenga tramite l'etichetta del consumo virtuoso: l'illuminata, solare, catartica e palingenetica immagine della famiglia del fu Mulino Bianco che tanto dolore inflisse agli Achei – nostrani o allogeni, partiti in cerca dell'italico Eden – e oggi immagine di famiglia smart/green 4.0, diviene essa stessa un oggetto immaginario di consumo, venduta copiosamente facendo leva sul sempiterno desiderio di massa di ascriversi romanticamente una differenza che renda distinguibili dalla massa indifferenziata, cui opportunamente viene attribuita l'etichetta di consumatrice viziosa, non evoluta, magari anche reazionaria e sdentata.
Affiora allora nuovamente il leggerissimo sospetto che ciò tradisca l'ennesimo tentativo di usare le dinamiche girardiane del desiderio mimetico e della passione romantica per il governo dei viventi: una bella espulsione linguistica, prodromo di un'espulsione politica, di quella squalificazione morale del nemico – in senso schmittiano – che ne legittima la sua pacata obliterazione; un rito sacro per ricompattare la società globale indifferenziata.
Ma non vogliamo lasciarci distrarre e assorbire solo dalla facile attenzione per le masse cui umilmente apparteniamo, e volgiamo un secondo lo sguardo ai loro mistagoghi. Sì perché l'impressione è quella che, attraverso l'espulsione dello sdentato, dell'uomo di una vetusta normalità, la nuova differenza si imponga a beneficio innanzitutto degli officianti il rito: essi non solo otterrebbero di soggiogare la massa degli adepti, ma otterrebbero di rivendicare ulteriormente la propria differenza rispetto a chi osserva e ripete i gesti rituali sotto l'altare. L'élite degli officianti, ossessionata dal contagio indifferenziante con la massa di adepti, brama anch'essa la propria differenziazione romantica, la propria immunità.
Ma tornando a noi umili pecorelle del gregge, non ci sfugga il fatto che l'aspetto sacrale poggia sull'imposizione via legge delle nuove condotte: non sono infatti portate avanti lasciando la libertà di scelta – che, d'altra parte, non si stancano di ripetere che vada conquistata a seguito di opportune dimostrazioni di ortopedizzato pensiero; non beneficiamo di una politica della consapevolezza e della coscienza, della generosa offerta pedagogica di strumenti di emancipazione – tanto meno della loro messa a disposizione tramite novecentesca forma di stato sociale – ma gioviamo gaudenti e acclamanti di una politica dell'imposizione cieca e sorda, indifferente, che si dispone come rito sacro, e che ha nella comunicazione vestita da retorica sensibilizzazione – se non da colpevolizzazione paternalistica – i paramenti rituali che legittimano la sacertà.
Chi non vi si adegua è oggetto di espulsione: viene circondato, e la prima violenza è quella delle parole, della retorica paternalistica passivo-aggressiva. Sempre tutto in nome del Bene, ci mancherebbe, e delle magnifiche sorti, e progressive.
Al di là dei contenuti di queste politiche – che, ripetiamo, non sono né oggetto né interesse di queste riflessioni – la gestione dei comportamenti in maniera prescrittiva viene a porsi di fatto come un dispositivo di governo duplice: da un lato vengono modificati i comportamenti per modificare la forma in cui si costituiscono i soggetti, e in tale forma è compreso – ma giusto per caso, eh – il modo in cui il soggetto si costituisce rispetto ai concetti (e quindi alle pratiche) della libertà e dell'ubbidienza a una norma – quindi anche il concetto e la pratica di quali siano gli ambiti oltre i quali una norma istituita via legge non possa andare, quali siano i confini legali del potere; dall'altro si costituisce come dispositivo di governo perché, gettando nell'agone politico (di cui fa parte l'opinione pubblica) con la stessa magnanimità con cui si getta una bistecca nella fossa dei leoni un'opinione, una pratica, una prospettiva comportamentale e filosofica, veicolata inoltre da un ostentato apparato scenografico (1), produce di fatto questa polarizzazione in quanto funzionale al governo dei corpi e delle anime.
Il risultato di un'orchestrata polarizzazione è in primo luogo infatti produrre sempre l'adeguamento da parte della maggioranza – indurla all'ubbidienza – facendo leva sul desiderio di riconoscimento da parte del potere ma, ancora di più, sul desiderio romantico di ascriversi alla fazione dei buoni, alla differenza nobilitante; in secondo luogo, indurre chi vi si oppone per qualsiasi motivo a radicalizzare la propria polarizzazione, contando sul fatto che, mancando via norma e via opinione pubblica una vera libertà di scelta ed essendo così destinati all'esclusione, la polarizzazione identitaria si presenta per costoro come altrettanto disponibile via di fuga e possibilità di narrazione di sé, rivendicazione romantica di un'altra differenza, corredata dal brivido di sentirsi modello di un sistema sapere-potere che si costringe così alla propria rincorsa: la sua attenzione violenta tradisce un amore di cui ostenta il disconoscimento.
Ma duole far presente che questa ostentata polarizzazione consente però al sistema sapere-potere di avere una maggior presa sulle soggettualità così conformatesi, e di mettere in gioco, a danno di queste, tutti quei dispositivi di esclusione che ricompattano la società.
Siamo, ancora una volta, di fronte a un dispositivo di governo che, facendo leva sui conflitti indotti, consente di produrre una normalizzazione sacrificale, legittimata presso la maggioranza dalle pratiche linguistiche con cui avviene la costruzione simbolica dell'anormale, del capro espiatorio.
Di nuovo: non è interesse di queste riflessioni sondare né il merito delle prescrizioni, né quello delle posizioni di chi vi si oppone ma, in quanto filosofi e in più girardiani, è necessario semmai per noi fare quello che Sini chiama “il passo del torero”, il passo di lato per non farsi investire e poter quindi osservare le implicazioni di una pratica, tentando così di accedere a quella possibilità di sottrarsi alla conformazione della soggettualità, tanto quella nella direzione della polarità conformata quanto in quella della polarità che si oppone, entrambe proprie del dispositivo della pratica agonica. Scannarci a comando? «Com'è umano lei!»
Per questo, «grazie, non compro niente», «I would prefer not to».
***
(1) Sia detto incidentalmente, anche la sovraesposizione della presenza di personaggi ossimorici nella loro consistenza istituzionale come Karl Schwab (nessuna legittimazione politica ufficiale ma apparente punto di convergenza e riferimento delle politiche mondiali), non possono non suggerire come anche questo possa di fatto consistere in uno dei dispositivo di governo: ormai circondato da un'aura leggendaria degna di cronache medievali, la sua presenza veicola immediatamente quella funzione polarizzante in seno alle masse, anche solo fosse quell'ostentazione dell'osceno al potere che tanto preme a una presunta élite, quale unico strumento rituale per una propria differenziazione romantica dalle masse di sdentati soggiogati.
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