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Temptation island | La tentazione carnevalesca della comicità sacrificale

  • Immagine del redattore: Gruppo Studi Girard
    Gruppo Studi Girard
  • 2 giorni fa
  • Tempo di lettura: 29 min

Il freschino estivo impazza ormai da quasi un mese e con esso si sono aperte le ritualità che sanciscono questo passaggio, così da suscitare alcune peregrine riflessioni che si ricollegano, a loro modo, con quanto esposto qui rispetto a un altro calendariale momento di passaggio: il capodanno.

Tra le ritualità sacrificali che impazzano sui social, una delle più caratteristiche è quella che ruota attorno al programma Temptation island. Tale ritualità prevede due momenti: il primo è quello costituito dalla trasmissione del programma stesso, della fruizione della sua messa in onda, confezionata con sapienza sacrificale dalla regia; il secondo momento è quello del suo farsi evento sui social media, tema di un rilancio reciproco nella spazio dell'iperrealtà, il quale culmina, ovviamente, nella sua memazione, nel trasformarlo in fonte di meme.

Che le ritualità implichino un lato sacrificale è cosa nota agli amici girardiani; per gli eventuali nuovi amici o per i lettori di passaggio, è forse però doveroso offrire alcune sommarie indicazioni di merito che possano favorire la lettura del testo, e che saranno comunque occasione anche per chi scrive di riconsiderare e meglio chiarire alcuni nodi concettuali.


Il tempo e il rito


Le ritualità sono pratiche volte a confermare alcuni punti di riferimento dai quali possa provenire la possibilità di affermare la propria identità e riconoscersi tra coappartenenti alla stessa comunità. Chiamiamo paradigma un insieme di punti di riferimento, in quanto produce una regola di costruzione e di riproduzione di elementi che può essere attualizzata nelle diverse circostanze che compongono l'esistenza. Da un punto di vista antropologico, i paradigmi (Foucault li chiama episteme, qui ci concediamo invece una leggera semplificazione) istituiscono innanzitutto un ordine del tempo e dello spazio, la forma delle soggettualità (la forma di noi che siamo nel mondo) come anche quella delle oggettualità (la forma del mondo in cui ci troviamo) e dei modi in cui è possibile costituire conoscenza dell'una e dell'altra. Tali paradigmi sono solo in un secondo momento delle regole teoriche concettualizzate; primariamente sono invece l'insieme di una serie di pratiche ripetute, condivise se riguardano la comunità, riconoscibili, riconosciute, e solo poi istituzionalizzate e tramandate: ritualizzate, appunto. La loro concettualizzazione avviene in un momento ancora successivo.

Per quanto in queste riflessioni si parlerà soprattutto di ritualità che presentano i caratteri che più comunemente vengono associati a questo concetto, è bene sottolineare che una ritualità riguarda più ampiamente ogni ambito delle pratiche che costituisce l'esistenza, il quale può essere ritualizzato, poiché tutte le pratiche trovano nella ripetizione ritualizzata una forma di conferma di sé e quindi della prospettiva esistenziale, trovano l'esercizio con cui vengono a costituirsi un sapere che è un potere e un potere che è un sapere.

Le ritualità istituiscono quindi delle differenze, cioè la possibilità di riconoscere le cose tra loro, ma anche riconoscere noi tra gli altri e gli altri tra la folla che tende ad apparire come informe umanità. Ma è qui che interviene la riflessione del nostro Girard, che muove dal presupposto dell'ineludibile natura mimetica dell'essere umano, la quale comporta inevitabilmente l'imitazione reciproca.


L'impressione che offre la presenza altrui è quella di una loro connaturata pienezza, che sembra invece mancare a chi osserva, consegnando quest'ultimo a una sensazione di costitutiva mancanza esistenziale; nel tentativo allora di essere come colui che appare così differentemente dotato di pienezza, se ne imita ciò che dall'esterno può essere osservato: il possesso delle cose e delle caratteristiche che sfoggia la sua personalità. Ma proprio poiché l'imitazione pone al centro gli stessi oggetti del desiderio, le stesse caratteristiche che si vorrebbe sfoggiasse la propria personalità, quanto viene producendosi non è la conquista di una pienezza e quindi la possibilità di affermarsi nella propria differenza, ma l'omogeneità generale dei caratteri e delle caratteristiche, delle vite, e l'impossibilità di distinguersi l'uno dall'altro. Si ha infatti la paradossale situazione nella quale, benché quanto ciascuno persegue nel proprio sforzo di ottenere ciò che è oggetto del desiderio comune sia il tentativo di mutuare da tale possesso la forte affermazione di una propria identità, di una propria differenza, quanto invece si produce è l'impossibilità di ottenere tale affermazione e di potersi riferire a identità stabili e definite in maniera decisa. Questo avviene innanzitutto perché l'imitazione e la successiva competizione generano una rivalità reciproca e generalizzata che rende instabile anche qualsiasi posizione di preminenza e affermazione che si sia raggiunta momentaneamente; in secondo luogo questo avviene a maggior ragione in una società dell'iperrealtà come la nostra, nella quale la velocità di circolazione delle immagini genera costantemente la proposizione di nuovi modelli del desiderio comune; a quel punto diventa difficile non solo essere stabilmente riconosciuti come colui che primeggia sui propri rivali, come modello del desiderio, ma lo è anche riconoscersi come tale, cogliersi come tali al proprio sguardo rivolto verso di sé.

Nell'impossibilità quindi che qualcuno si affermi stabilmente come modello per i desideri degli altri poiché ciascuno è riassorbito nella conflittualità che lo rende uno tra i molti, la risoluzione di tale conflitto generalizzato e della crisi di indifferenziazione avviene nel momento in cui si genera una polarizzazione tutti contro uno (o tutti contro pochi), e su questo polo viene caricata tutta la responsabilità della conflittualità generale. Il meccanismo del capro espiatorio. Riconosciuto da tutti come colpevole, costui viene espulso, spinto fuori dalla comunità.


La natura di questa espulsione può essere simbolica (e certamente lo è per lo più diventata), ma essa è stata (e talvolta ancora lo è), estremamente concreta, giungendo perfino all'eliminazione fisica del colpevole. Egli diviene vittima di un sacrificio collettivo; il sacrificio è l'atto con cui si rende sacro (sacrificio: da sacrum facere) qualcosa: ciò che infatti avviene con tale atto è proprio l'istituzione di un paradigma di riferimento che ridistribuisca delle identità innanzitutto affermando che «noi (i carnefici) non siamo come lui (il colpevole, la vittima del sacrificio collettivo)» e, attraverso questa prima soglia di differenza, che diventa invalicabile, riarticolare una forma ordinata per la comunità.

Se le forme di eliminazione fisica del colpevole restano per lo più forme proprie del passato se intese come atti istituzionalmente e culturalmente riconosciuti e accettati (mentre permangono attuali come atti effettivi grazie alla loro dissimulazione istituzionale), sono diffuse le forme simboliche di tale espulsione: eco velata di tale retaggio, tali forme sono la memoria dissimulata di questo passato antropologico.

Le ritualità – il rito – sono allora l'insieme delle pratiche con cui si ricorda e riconferma un paradigma, poiché si ripete in maniera simbolica quel sacrificio originario celebrando la memoria nascosta di tale sua origine, spesso appunto non solo trasfigurata simbolicamente, ma anche narrativamente.

La più persistenti forme di ritualità sono le forme di ritualità legate allo scorrere del tempo e al mutare delle stagioni: la loro stolida permanenza dipende anche dal fatto di sapersi riattualizzare a seconda dello spirito del tempo, assumendo connotati locali, acquisendo le vesti più diverse per ricoprire uno stesso corpo, anche quando esse lo agghindano dei veli della razionalità, dell'incredulità e dello scetticismo illuminato e libero da retaggi cultuali ritenuti propri di oscure epoche passate.

Lo scorrere del tempo e il mutare delle stagioni sono fenomeni ineludibili per la specie umana. Se permane nella memoria collettiva inconscia l'attribuzione simbolica al mutamento delle stagioni di significati legati alla dialettica ciclica tra la vita e la morte, lo stesso scorrere del tempo si pone però come sommo principio di indifferenziazione, come dinamica che assorbe tutte le differenze attraverso cui articoliamo le nostre esistenze e alle quali ci aggrappiamo per allontanare il più lontano da noi il regno dei morti, il luogo dell'indistinto verso cui tale scorrere attira e riconduce tutto ciò che accade. L'indifferenziazione è l'ombra del tempo che grava costantemente sulle vite, l'ombra della loro irrilevanza nell'orizzonte che il tempo delinea sullo sfondo. Attraverso le ritualità legate alle variazioni nel tempo e al mutare delle stagioni, riaffermiamo allora una differenza con cui difenderci dallo scorrere neutralizzante del tempo e da quella eterna e vorticosa ciclicità, che tutto distrugge per tutto di nuovo creare.


Se, in prima battuta, potremmo pensare che questa pratica della ritualità vada scemando una volta entrati in un orizzonte in cui, come già accennato prima, si afferma una rivendicazione di superamento scettico di tali forme antropologiche in favore di una più illuminata prospettiva razionale, sarebbe difficile non rilevare come invece tale pratica si verifichi in realtà ugualmente (o a maggior ragione) se la ciclicità è svuotata di qualsiasi contenuto simbolico e l'esistenza abitata senza alcun riferimento trascendente: all'ombra di queste mancanze la ciclicità si presenta infatti come arida sensazione che sia semplicemente passato un altro periodo, un altro anno, che si sia ancora al punto di partenza (o di conclusione: in una ciclicità essi si toccano), senza che si sia data alcuna definitiva risoluzione alla precarietà del senso, alcun riscatto alla mancanza, alcuna svolta esistenziale, figurarsi una redenzione di qualunque tipo. Ecco quindi sorgere, ma dissimulato e occultato nelle forme più varie, lo stesso antico bisogno di rituale per poter risolvere l'indifferenziazione cui conduce lo svuotamento operato dal nichilismo.


In questo contributo si vuole sostenere che la visione di Temptation island costituisca appunto il soddisfacimento di questo bisogno rituale, e secondo modalità ben specifiche. Ci preme subito sottolineare come, nel caso qui esaminato, l'occultamento dell'antico bisogno rituale sorga sotto la specie della ritualità non solo comica, ma per giunta ironica: la modalità ironica consente infatti di mostrare di non prendere cioè sul serio il proprio stesso gesto di assistere (e quindi partecipare) allo spettacolo, che viene indicato apertamente dalla percezione comune come prodotto trash e cui si sostiene di assistere proprio per il gusto di guardare consapevolmente un prodotto trash senza esserne coinvolti; questo è a nostro parere rilevante, in quanto risponde a una duplice funzione: da un lato quella classica di nascondersi la propria origine nella violenza, dall'altro quella di rispondere a quel bisogno tutto postmoderno di non poter prendere sul serio qualsiasi narrazione che si ponga in maniera forte e non estemporanea, risponde a quel bisogno manifestato dal soggetto che abita il realismo capitalista di rivendicare il proprio disinvestimento soggettivo (secondo il lessico di Mark Fisher), la propria distanza ironica come segno di superiorità rispetto a qualsiasi forma di credulità (su questo torneremo nei paragrafi successivi). L'effetto così ottenuto è quello di poter frequentare il rito, parteciparvi e ottenere l'effetto catartico, ma potendo raccontare e raccontarsi di mantenere la giusta distanza, di non prenderlo in fondo sul serio, di essere altro rispetto a quanto si è assistito.

30% di share e 3,8 milioni di spettatori alla quinta puntata 2025: i riti hanno la testa dura (semicit.).

(il conduttore ringrazia il pubblico in un video, dopo aver performato un'ottima imitazione di uno dei concorrenti)


L'attesa dell'estate: tempo e riscatto


Per quanto si sovrappongano più scansioni della ritualità annuale, ne permane una che la ciclicità scolastica ha contribuito a radicare dentro tutti noi: l'anno comincia alla fine dell'estate e si conclude al suo inizio. Tra conclusione e nuovo inizio, un più o meno esteso tempo anomico, senza ordine e regole, certo non quelle del tempo feriale.

A consolidare questa percezione contribuisce l'orizzonte delle pratiche costituito dal duplice rapporto di assoggettamento che costituisce per lo più le vite di tutti: il lavoro e il consumo. Se è facile riconoscere nel primo un fattore del nostro assoggettamento, più difficile potrebbe esserlo riguardo al secondo, quanto meno per chi non abbia già avuto modo di confrontarsi con il tema nei termini foucaultiani con cui lo abbiamo spesso ripreso (ad esempio qui e qui).

Il lavoro e il consumo costituiscono un binomio perfetto nell'articolare e vincolare l'esistenza e, soprattutto, nel dirigere e funzionalizzare le forze singolari che ci compongono; una volta articolate e normalizzate, queste a loro volta producono la conferma di un sistema di sapere-potere che di esse si nutre (anche qui, tutto merito di Foucault, si veda ad esempio La volontà di sapere). Ma chiariamo meglio.

Il lavoro sottrae in maniera esplicita le nostre forze in funzione di un sistema di produzione che però – ed è già questo un primo punto che è opportuno sottolineare – non è solo materiale, anzi: è soprattutto simbolico, producendo infatti sapere di sé e del mondo, sistemi di significato, articolazioni del tempo e dello spazio quali esclusivi paradigmi di riferimento, alla cui mancata partecipazione si subisce l'esclusione dal consesso sociale.

Il consumo è presentato invece come luogo del riscatto o, quanto meno, della compensazione per ciò che è sottratto ad opera dal lavoro, ma il consumo in realtà assoggetta perché esso è articolato secondo paradigmi che non sono in nostro potere e perché si aggrappa e ci lega al piacere di esercitare la propria potenza, articolata qui nella forma primaria del “disporre di” e del “nutrirsi di”. Le occasioni per soddisfare tale volontà di potenza sono sempre offerte in una maniera che è disposta da altri, cui ci adeguiamo o cui veniamo adeguati, poiché tale dispositivo (sempre in senso fouacultiano, quindi come ciò che dispone la forma dei soggetti e degli oggetti, dello spazio, del tempo e delle dinamiche relazionali) agisce sui nostri desideri, sempre stimolati attraverso il mimetismo (vedere ad esempio qui). Mediante questa induzione al desiderio, al suo soddisfacimento, e alla normalizzazione dei modi in cui lo possiamo soddisfare, veniamo modellati nelle nostre forze e nelle nostre idee, diventando pertanto prevedibili e governabili. È però opportuno chiarire subito che per pratica del consumo non si intende qui il semplice soddisfacimento di un bisogno, ma quel dispositivo che tematizza tale soddisfacimento come occasione principale da cui sorge l'orizzonte di significato che conferisce senso all'esistenza individuale. Ruolo non marginale nel dispositivo di consumo è la sua componente narrativa, che ci presenta tali occasioni come forme della libertà; a ben vedere, una libertà tutt'altro che tale, non solo perché condizionata alle soglie quantitative determinate dalla volontà di retribuzione del nostro tempo-lavoro, ma anche perché, come già detto, le effettive modalità di tale soddisfazione sono determinate altrove rispetto alla nostra volontà e in funzione, appunto, della conservazione del paradigma generale – non personale – di identità. Si è liberi di consumare solo ciò che è deciso da altri da sé (concetto espresso con un riferimento anche più ampio dall'autore Bonifacio Castellane come la libertà del menù).


La pratica del consumo è posta quindi in una dialettica fittizia rispetto a quella del lavoro, e in sinergia con esso contribuisce alla conservazione dello status quo, della distribuzione del potere, al mantenimento delle forze singolari e generali entro un ben definito paradigma di riferimento.

Ecco allora che, in conclusione di un anno di lavoro, che generalmente non ha condotto che ad essere un anno più stanchi e un anno più vecchi, si avvicina il tempo estivo, uno dei momenti calendariali disposti per un consumo vistoso, un sontuoso dispendio attraverso cui tentare di suggere il succo gustoso di un riscatto che doni nuovamente significato alle proprie vite, assorbite e neutralizzate per un anno in un lavoro finalizzato alla ricchezza di qualcun altro e alla costituzione di un senso che subiamo passivamente. Le ferie – la forma rituale sacra di consumo nel mondo del nichilismo – sanciscono la fine dell'anno.

Ma se, come abbiamo imparato, per ogni ripristino di una differenza, per ogni riaffermazione di identità, occorre una ritualità, per questa occorrono le vittime sacrificali.

Ecco presentarsi la nostra isola delle tentazioni.



Il rito dell'isola – il rito del villaggio turistico


Puntuale come il solstizio, da ormai un decennio viene trasmessa anche in Italia la versione locale di questo programma (1).

La prima cosa che è opportuno sottolineare del format, è che questo si basa proprio sull'instaurazione di una condizione esistenziale talmente avulsa dalla normale scansione del tempo e dalla feriale tematizzazione dello spazio, che la cosa che risulta più vicina non è nemmeno la dinamica di un party qualunque, ma quella del carnevale perenne. E il riferimento al carnevale non è peregrino per svariati motivi: innanzitutto perché le condizioni delle dinamiche relazionali e di vita quotidiana disposte dall'organizzazione del programma inducono i protagonisti ad assumere aspetti della personalità che sembrano stare alla quotidiana identità come la maschera sta al proprio volto; un secondo e connesso motivo per cui la dinamica del format evoca quella carnevalesca, risiede nel fatto che il carnevale (tema già toccato proprio nelle riflessioni sulla comicità calendariale qui e in quelle sulla ritualità qui e qui) si pone come festa del rovesciamento dell'ordine, dove la risata e il clima di euforia divengono fattori di espulsione rituale e sacrificale dell'ordine quotidiano, per poterlo purificare e successivamente ripristinare rinvigorito: la dinamica del villaggio dal quale è bandito il proprio partner, rovesciato l'ordine delle dinamiche quotidiane, inaugurato un clima da festa continua o quanto meno da gita vacanza funzionale a mettere alla prova l'amore – cioè il proprio quotidiano – sono una forma in cui la ritualità carnevalesca può essere modulata.

Andiamo ad esaminare meglio questi elementi.

In merito al primo aspetto che fa del format una dinamica carnevalesca, è opportuno precisare che questo non è un invito a prendere il riferimento alla maschera come segno del sospetto che sia tutto recitato, disposto da un copione, o che le figure dei single (che la mia memoria ricorda venissero una volta indicati come tentatori e tentatrici (2)) possano essere muniti di un dispositivo auricolare, che suggerisca loro come rispondere ai membri delle coppie concorrenti nel corso delle interazioni al fine di stimolare il loro confessarsi in mondo visione: che questa cosa sia o meno possibile, qui in fondo non interessa, nemmeno considerando che il ruolo ritagliato per loro dalla produzione è proprio quella di stabilire un legame con i membri delle coppie per mettere alla prova l'amore di queste; quello cui ci si vuole invece qui riferire è che vi sia un elemento particolare a causa del quale si presenta una evidente alterazione delle normali condizioni della vita quotidiana, fautrice di un possibile divenir maschera dei partecipanti, ed è talmente evidente che, come le cose più evidenti sovente fanno, diventa però la più invisibile: le dinamiche relazionali costruite dal programma mettono i partecipanti al centro di attenzioni omnes et singulatim, tutti e ciascuno individualmente, individualizzate in quanto ritagliate sulle caratteristiche dei partecipanti che la produzione ha studiato, finalizzate a mettere alla prova la loro tenuta sentimentale, a «fare un viaggio nei sentimenti», e mettere alla prova la loro personalità. Quanto allora si vuole qui intendere suggerendo l'immagine della maschera è che le dinamiche disposte, le possibilità di interazione, inducono quasi deterministicamente ad accentuare le polarizzazioni, a rinsaldarsi dietro presupposizioni identitarie a scapito di qualsiasi presenza relazionale; e pertanto a vestire una maschera del sé più che sviluppare e dispiegare la propria identità. Sovente una maschera che accentua grottescamente i propri tratti, sfociando nella caricatura, quindi nel comico.

Fra gli elementi che più spiccatamente concorrono a produrre questa accentuazione delle polarizzazioni, si consideri innanzitutto il ruolo di coro a rinforzo che si genera, spontaneamente come spontaneo può essere un prodotto di ingegneria sociale, da parte dei copartecipanti (come anche da parte dei single), e soprattutto la possibilità di osservare le interazioni del proprio partner mediante filmati.


Quest'ultimo elemento è degno di nota proprio perché viene proposto con la veste della documentazione di fatti, di dati (altra grande narrazione), quando ciò cui invece si assiste non è ciò che è puramente accaduto ma è innanzitutto lo sguardo stesso che ha osservato e poi operato una selezione e una articolazione registica, giacché anche solo il montaggio, che dispone i tempi di articolazione delle immagini e del sonoro, modifica la percezione della realtà (cosa questa che riteniamo sia indiscutibile, non solo se si posseggono un paio di nozioni di gnoseologia, ma anche un paio di nozioni di come funziona un film).

Un altro elemento che concorre a tramutare i volti dei protagonisti in maschere è un dei principali effetti di un dispositivo dallo sguardo panottico (vedere ad esempio qui e qui) come quello messo in atto dal format del programma, dispositivo che supera probabilmente anche il confessionale che abbiamo conosciuto nel format del Grande Fratello. Citando infatti uno dei partecipanti all'edizione estiva del 2025: «Io questo programma me lo sono studiato nel cervello!»; come non apprezzare tanta parresiastica sfacciataggine.


Difficile infatti immaginare che, giunti ormai alla dodicesima edizione, vi sia ingenuità assoluta nell'avvicinarsi al programma da parte dei partecipanti (sia i membri delle coppie che i single), che non vi sia contezza tanto delle dinamiche relazionali disposte e che incontreranno quanto del funzionamento del programma anche nella sua coda mediatica e social successiva alla trasmissione. Pensando alla consapevolezza di essere costantemente video e audio registrati, ci si domanda allora se questo non produca il più parossistico dei suoi effetti quando, in compagnia degli altri membri delle coppie, si visionano i filmati riguardanti i propri partner all'interno dei capanni (ex pinnettu); ci si chiede cioè se le reazioni che i partecipanti espongono durante questo momento non siano condizionate dalla coscienza che il momento dei filmati è uno dei più spettacolarizzati, e se quindi esse arrivino a travalicare la semplice reazione emozionale e la relativa costituzione di una narrazione dalla quale sorga la propria identità per la propria coscienza (tema approfondito qui), di una narrazione dalla quale sorge l'identità personale che si vuole protrarre per la propria coscienza, e se invece esse si configurino come metareazioni e metanarrazioni: delle reazioni che non reagiscono solo a quanto visto e ascoltato, ma all'immagine di sé e delle proprie reazioni, per come si presume verranno messe in relazione alle immagini del partner e delle dinamiche relazionali che saranno viste dal pubblico; allo stesso modo, delle metanarrazioni in quanto sviluppate in dialettica con il racconto delle identità che si immagina stia venendo costituendosi agli occhi degli spettatori attraverso le proprie parole.


È in fondo il vecchio tema noto in campo antropologico dello sguardo esterno che condiziona l'oggetto osservato al punto da modificarlo, soprattutto se questo soggetto, come in un format di questo tipo, è coinvolto nello spettacolo di sé. Ma siccome le identità disposte dal format hanno a che fare con i poli di vittima e carnefice, la cosa ci interessa in particolar modo, in quanto, sapendo di essere oggetto di sguardo, si assiste al racconto vittimistico che precede e orienta la costituzione dei poli (e non si vuole certo qui sindacare sulle ragioni di alcuno dei partecipanti). Vediamo così una certa solerzia al commento da parte di chi visiona i filmati del proprio partner (ma nei casi di maggior protagonismo anche da parte dei copartecipanti radunati attorno), che risulta funzionale allo spettacolo di sé come vittima e detentrice di ragione, e alla spettacolarizzazione del partner come carnefice. Anche la relazione con la propria coscienza diventa così una relazione sviluppata in funzione dello spettacolo di sé che si sta offrendo e che si vuole sia visto(3).

Un ulteriore motivo che porta il format ad evocare il tempo del carnevale, è il dispositivo in cui consta il luogo in cui le coppie si trovano radunate: il villaggio turistico, il prototipo del non luogo per eccellenza, del luogo in cui avviene un rovesciamento del quotidiano che ne imita ma in maniera euforica e giocosa la scansione del tempo, l'organizzazione della libertà.


Esso si dispone come luogo altro da quelli in cui si svolge la vita quotidiana, cosa ancor più accentuata dal fatto che il luogo in cui si svolge il programma assume impropriamente nel titolo la denominazione geografica di isola, a sottolineare la sua condizione di liminalità, di luogo soglia al di là dell'esistenza quotidiana; in questo non luogo si articola una vita diversa da quella reale – ci sia consentito chiamarla così, per citare un commento di Sonia M. dell'edizione 2025 – in cui sorgono la propria persona e quella altrui, ciascuno con le miserie e gli splendori delle proprie esistenze. Ciò che totalizza la forma spazio-temporale del villaggio turistico è la sua articolazione attorno alla pratica del consumo, che viene posta a cuore pulsante delle dinamiche relazionali: quanto infatti fa del villaggio turistico il non luogo per eccellenza è proprio la sua totalizzazione attorno ai momenti di consumo, la sua ostensione di dispositivi di intrattenimento e godimento, che appunto totalizzano visivamente, acusticamente e relazionalmente gli spazi, i tempi e le vite; e il consumo – si badi bene – può anche nutrirsi di eventuali differenze: possiamo infatti trovare ad esempio cibi diversi, temi diversi, intrattenimenti diversi, spettacoli locali autenticamente messi in scena per il consumatore allogeno (anche qui valga la nota espressa prima sulla consapevolezza dell'antropologia di come l'osservatore modifichi quanto osservato), ma le risolve, omogeneizza e neutralizza tutte nella pratica in cui si articola, che le tramuta in esperienza consumata da un consumatore a sua volta neutro e neutralizzato, non culturalmente coinvolto dal o appartenente all'orizzonte culturale di ciò che è proposto come merce da consumare. Il consumo si pone così come istanza fattualmente universalizzante e instaura un mondo in cui esso diviene funzione identitaria universale, dando luogo a una forma-soggetto omogenea lungo tutto il globo terracqueo: l'individuo consumatore. Il villaggio turistico è summa del non luogo perché accelera volontariamente la linea di fuga della deterritorializzazione, dello svincolare il luogo e il tempo da un qualsiasi rinvio a una differenza storicamente e culturalmente articolata, ma la percorre per meglio molarizzarsi, addensarsi in una sospensione corposamente e totalitariamente costruita attorno alla pratica del consumo, presentata e offerta come unica istanza che non solo conferisce identità al luogo, ma anche identità al vacanziero del villaggio, sempre uguale in ogni dove.



Il comico e la disillusione


Una cosa che colpisce subito del programma è l'uso che la regia fa della musica e degli effetti sonori (come anche del montaggio, ma in maniera forse meno rilevante e rilevata, ad esempio nel ralenti della caduta di Antonio durante la sua fuga): i brani scelti e gli effetti sonori si pongono come vera voce narrante e induttore di emozioni e prese di posizioni da parte del pubblico. Se questa cosa è in fondo ovvia, ciò che però comunque colpisce – anche perché esplicitamente apprezzato in particolar modo sui social – è un loro specifico uso: quello che fa il verso ad alcune azioni e a volte infine ad alcuni partecipanti in generale, disponendo così attorno a loro la forma dello spettacolo comico.


Ci si potrebbe anche chiedere se questo sia la conseguenza dell'età che ormai ha il programma e quindi se sia la risposta al timore che in effetti il programma e quanto mostra non possano più effettivamente essere presi sul serio per tutto il loro arco di svolgimento, e si voglia così anticipare il disincanto del pubblico e strizzare l'occhio allo spettatore suggerendo una sorta di complicità a danno dei partecipanti. Ma la risposta a questa domanda non è poi così risolutiva. Limitiamoci a ciò cui siamo messi davanti: vediamo delle situazioni, delle azioni e delle reazioni, e alcune sono apertamente canzonate dalla musica, tramutando quanto vediamo in un programma comico e i suoi protagonisti nell'oggetto della comicità. Ovviamente ciò non accade per ogni cosa che viene mostrata, anzi: per alcune cose non accade assolutamente, e forse una certa dietrologia non si risparmierebbe dal domandarsi il motivo di questa specifica selettività; ad ogni modo questo accade, e in maniera copiosa.

Non voglio certo affermare che non vi siano comportamenti e personalità quanto meno curiosi, o che non vi siano situazioni di una cringitudine talmente disagiante che non invochino a piene mani la risata, ma il punto è proprio questo e lo abbiamo esposto nei nostri video: la risata – la comicità – interviene a sanzionare un comportamento o un carattere che «attenta alla società», e ciò che accomuna tali comportamenti e i caratteri è una loro rigidità, una loro macchinicità, che ricorda più l'inanimato che l'animato, più la materia che la vita (Bergson, Il riso); partendo dalla successiva lettura che Girard compie nel testo Un pericoloso equilibrio, nel quale afferma che quell'automatismo riveli l'essere abitati dal desiderio mimetico e che la risata interviene per scongiurare l'escalation e la crisi di indifferenziazione, quanto abbiamo poi suggerito ulteriormente in questo video è che tale comportamento attenta alla società perché svela qualcosa che deve rimanere occultato: che non siamo praticamente mai padroni di noi stessi, nemmeno quando crediamo che sia invece in gioco la nostra più profonda autenticità, espressa dai nostri sentimenti, perché siamo tutti marionette dei dispositivi da cui siamo composti e che articolano ciò che siamo; e quanto soprattutto deve rimanere occultato è che, nonostante l'invito all'originalità personale e nonostante il rischio di crisi mimetica, dobbiamo necessariamente imitarci l'un l'altro per preservare la società stessa, ma senza senza renderlo evidente, scandaloso: l'imitazione deve cioè governare la nostra esistenza in funzione dell'implementazione per tutti e per ciascuno dei dispositivi che normalizzano le forze e le singolarità che ci compongo, e che ci distribuiscono così ordinatamente nella società. Ma, appunto, questa comune natura e l'ingiunzione mimetica devono rimanere nascoste, affinché le pratiche sociali non vengano disertate dalla disattivazione che subirebbero le narrazioni con le quali si tematizza la ricerca del piacere e con le quali lo si veicola verso le forme compatibili con la società stessa e con le dinamiche di partecipazione competitiva di cui si compone (una copartecipazione e una forma di collaborazione e produzione della società), poiché tali narrazioni si articolano attorno al tema dell'identità individuale, della libertà ad essa associata, del desiderio e della sua individualità, e del prestigio che consegue all'accesso a tutto questo.


La società interviene quindi a propria protezione attraverso la risata perché quello che accade nei momenti che divengono oggetto di comicità è che in tali situazioni qualcuno si comporta come un automa, come una marionetta mossa da fili invisibili, e questo spettacolo rivelerebbe una natura comune che lì è solo più accentuata e resa quindi manifesta. Questa accentuazione è frutto proprio della dinamica mimetica, dell'esasperato mimetismo e del frenetico desiderio di imporsi come mediatore del desiderio altrui in una determinata situazione: venuta ad esasperarsi la conflittualità mimetica, cioè la competizione per la realizzazione del proprio desiderio così simile a quello di chiunque altro, le risposte che vengono date alla situazione esterna e alla presenza di altri in quanto fattori che si oppongono si fanno risposte automatiche, e quindi impersonali: in esse viene meno la presenza (di sé e dell'altro), trasformandoci in manichini automatici abitati da movimenti e azioni involontarie, pupazzi che compiono azioni senza rendersene conto e di cui spesso trasfigurano narrativamente il senso. La pressione mimetica spinge cioè ad esagerare i comportamenti, i quali, sorti sempre dall'imitazione reciproca, con il loro farsi automatici e meccanici svelano l'essere mossi da fili che il soggetto non può controllare, e lo pongono così davanti agli occhi degli altri come spettacolo di quella natura automatica comune e che accomuna i desideri e le azioni di tutti: quanto cioè crediamo essere espressione più propria della nostra singolarità, è invece prodotto dei dispositivi che incarniamo. Ed è qui che allora intervengono il riso come gesto e pratica dalla natura sanzionatoria, e la comicità come sua forma rappresentativa: il riso sanziona il dis-velamento e ri-vela ciò che si è manifestato, dissimulandolo sotto la specie della stranezza buffa e del ridicolo e attribuendolo in quel momento esclusivamente a colui che è oggetto del riso; il bersaglio della comicità viene posto al centro di un cerchio che viene a costituirsi attorno a lui per indicarlo, per farlo oggetto di una risata di cui si suggerisce l'imitazione, e per espellerlo così dal gruppo della società, che si è ricostituita nella propria differenza come gruppo di linciatori contro una vittima presunta diversa da lei. Lo spettacolo comico e la risata che esso dispone sarebbero una forma trasfigurata e rituale che ripete quella forma originaria di risoluzione della crisi mimetica.

Ecco allora che l'uso comico delle musiche si mostra sotto tutta un'altra luce, portando a galla quel bisogno di differenziazione e l'antica via rituale per ottenerla che lo spettacolo, reso comico, suggerisce allo spettatore di imitare.

Questo, forse, proprio in funzione del prendere invece sul serio, dannatamente sul serio, altre cose. Come abbiamo detto già in principio: per poter costituire un paradigma e affermare una identità, è necessario che qualcosa sia sacrificato.



Il capro espiatorio e la purificazione di sé


Il taglio comico che lo spettacolo dispone rende quindi i protagonisti dei capri espiatori in funzione del costituirsi della folla degli spettatori. Lo spettacolo comico infatti, dal momento che costituisce un cerchio sacrificale attorno alle vittime della risata e lo costituisce dal punto di vista prospettico del cerchio, offre allo spettatore la possibilità di sentirsi parte della folla che ride e disattivare il momento parresiastico che rivela in colui di cui si ride i dispositivi del desiderio e dell'identità da cui si è abitati, il desiderio comune di piacere, di riconoscimento e di esercizio della propria potenza. Gli spettatori hanno così la possibilità di polarizzare il mimetismo generalizzato attribuendo ai concorrenti, sotto la forma del grottesco e dell'esagerazione, quelle caratteristiche esistenziali individuali o delle relazioni di coppia, quelle caratteristiche della forma dei propri desideri che riguardano o hanno riguardato a varie gradazioni un po' tutti, e allontanarle così da sé per sentirsi altro da loro, per sentirsi migliori (poiché purificati da quella polarizzazione espulsiva). Perché la vita di tutti è composta dalla tragicità e dalla miseria dell'incomprensione reciproca, dalla fantasmagorica incomprensione della natura dei propri e degli altrui desideri, dal presentarsi ai nostri occhi e agli occhi dell'altro della propria inconsistenza e quindi dal naufragare in comportamenti tutt'altro che nobili, irrispettosi dell'altro quanto di se stessi, ciechi rispetto alle conseguenze delle proprie azioni. Ma diventare spettatori di questa cosa nei termini così grottescamente tematizzati dalla regia, permette allo spettatore di distanziarsene, di sentirsi altro da ciò, e di accedere così al tempo del riscatto estivo – che, peraltro, è il tempo messo in scena dal programma e non solo il momento della sua trasmissione – come occasione per vivere una propria presunta differenza e così godere di una propria pienezza ontologica da portare nella ritualità estiva che si appresta a cominciare.


Questo rito comico approntato al principio dell'estate viene così ad operare un esorcismo collettivo: liberarsi dallo spettro dell'inutilità ciclica del sontuoso rituale di consumo estivo. Ma quanto deve anche essere ripristinato ed esserne esorcizzata la relativa disattivazione è la pratica generale del consumo, che trova poi nel periodo estivo uno dei suoi momenti di parossistica sontuosità: senza la risata comica che interviene ad allontanare da sé il sospetto dell'assoluta impersonalità di tale pratica e quindi il sospetto che sia impossibile che da essa possa derivare una qualsiasi pienezza, una qualsiasi affermazione di una identità forte e personale, anche tale pratica, che prima abbiamo mostrato come regga la normalizzazione della vita assieme e in dialettica con quella del lavoro, rischierebbe di venir disertata; una volta osservata nello spettacolo della sua irrilevanza e della suo essere identica in ogni consumatore, potrebbe spezzarsi l'incanto che mantiene aderenti al dispositivo.

Ricordiamo che ogni rito sacrificale ha come fine il ripristino e la conservazione dello status quo. A conferma di questo è infatti possibile osservare che la regia dispone alcuni elementi sotto la forma comica, ma altri li preserva in una forma più seria: è facile ipotizzare come questo differente trattamento sia funzionale a non scandalizzare troppo gli spettatori, e quindi a mantenere attuale la cornice generale di riferimento, cioè la pratiche di fondo che caratterizzano il percorso (come viene ostentatamente nominato il periodo trascorso nel villaggio) di tutti i partecipanti, anche di quelli meno oggetto di comicità: il consumo come ricerca di senso e il carnevale estivo come rovesciamento che riscatta il tempo ordinario.

Ed è a questo che rispondiamo con il nostro: «grazie, non compro niente», «I would prefer not to».


Riflessioni conclusive sul meme – un capitolo della nostra teoria del comico


Il secondo momento comico – quello che abbiamo chiamato memetico – interviene però spesso a memare anche momenti che sembravano caratterizzati da una certa serietà, o momenti in cui compare anche un concorrente che non è fatto oggetto di comicità da parte della regia.


Questo è per noi molto significativo, considerando quanto espresso qui sul meme, in relazione al quale abbiamo messo il bisogno di disinvestimento soggettivo da parte del soggetto che abita la postmodernità del realismo capitalista.

Come espresso da Fisher in Realismo capitalista, il soggetto postmoderno si trova nella condizione per cui non può non aderire al paradigma corrente, allo spirito del tempo, in nome di quel realismo che porta a vivere la condizione del tempo consapevole che sia priva di qualsiasi alternativa a quella del capitalismo liberista, venuta meno la possibilità di immaginare un qualsiasi ordine alternativo. Ma il soggetto si trova così abitato da una sorta di doppio legame: se da un lato vi è appunto l'ingiunzione postmoderna calata nel mondo liberista, la quale prescrive quindi di non poter credere a nessuna narrazione che costituisca l'identità su altro rispetto alla performatività quantitativa alla quale è tenuto a partecipare, quindi a potersi costituire soltanto sulla base del dispositivo del capitalismo liberista, dall'altro però essa stessa viene a imporsi in maniera totalitaria e totalizzante. Prescrivendo appunto l'aderenza realista – cioè guardando alla realtà per ciò che è, ciò che si è ridotta ad essere e non per ciò che si vorrebbe che fosse e che si lotta per realizzare – a quel sistema e a quell'immaginario, si costituisce così come grande narrazione dell'epoca; ma questo la rende a sua volta eventualmente passibile della stessa critica che lo spirito muoverebbe a qualsiasi altra narrazione.

Questo circolo vizioso testimonia quindi che è ancora possibile attualizzare grandi narrazioni, e che pertanto altre vie sarebbero possibili, e così un'altra vita per il soggetto. Ma questo non è ancora sufficiente a scardinare la continuità pratica che dà forma al soggetto e alla quale egli si dedica sorgendone. Il disinvestimento soggettivo è allora quella forma di distacco ironico con la quale il soggetto riesce a mantenersi entro le pratiche dell'epoca nonostante la frustrazione per il senso di condanna destinale vissuta, ma riservandosi la possibilità di esercitare la critica, di non sentirsi coinvolto dalla grande narrazione e dissimulare così a se stesso questa sua contraddizione interiore.


La specificità del meme che è già stata affrontata nel video linkato prima sarebbe allora quella di intervenire a sanzionare qualsiasi manifestazione che travalichi la soglia accettata di credenza a una narrazione, indicandone il ridicolo tentativo di costituirsi come identità stabile, e riportare il soggetto entro l'alveo del disinvestimento soggettivo, entro il dispositivo della credula incredulità – o dissimulata credulità. Ciò che infatti scandalizza nella ricostituzione di una identità narrativa e che la porta a divenire oggetto di comico tramite il meme è il fatto che con questo tentativo di ricostituzione si manifesta l'opposto di un disinvestimento soggettivo, si dimostra infatti di prendere sul serio la dinamica in atto e in primo luogo la propria volontà di costituirsi come identità definita, emersa da una narrazione di sé che si prende sul serio.

Il primo motivo di scandalo è sicuramente l'essere percepito come dotato di una maggiore pienezza ontologica, quindi come colui che si pone come modello del desiderio; in secondo luogo e in maniera più specifica, suscita scandalo perché la dinamica presenta il soggetto come sottratto al flusso della postmodernità che fluidifica le identità in quel disinvestimento, in quella forma dissolutiva funzionale all'aderenza al paradigma, fatto di un flusso iperreale del desiderio e delle immagini – il vero e proprio dispositivo totalitario della società del controllo.


Quanto deve necessariamente essere sanzionato e quindi espulso è colui che tentata di costituirsi come identità forte, con una narrazione più forte, al di là della sua effettiva qualità. Per questo nel momento memetico che caratterizza il programma sono gli spettatori che si fanno direttamente dispositivo sanzionatorio: attraverso il meme prendono a oggetto comico qualsiasi cosa loro ritengano opportuno, al di là della preliminare selezione ironica operata dalla regia. Se il dispositivo dello spettacolo comico in cui consta il format assume dichiaratamente e consapevolmente i contorni del trash per farne ironia comica (funzione appunto assunta da certi contorni musicali, da certi effetti sonori e da certi ralenti), lo fa con la funzione di mantenere il soggetto entro il proprio sonno del disinvestimento soggettivo, di mantenerlo cioè entro la narrazione che gli consente di sentirsi esterno a ciò che osserva mentre invece sta partecipando alla sua attualizzazione. Strizzando apertamente l'occhio allo spettatore per sottolineare la consapevolezza della propria natura ironica-trash, dissimula ma mette in atto il dispositivo con cui lo coinvolge. Ma nel momento memetico è lo spettatore stesso che imita questa funzione del dispositivo, che se ne fa ripetitore e diffusore, che risponde così alla necessità di preservare l'integrità dei dispositivi da cui è abitato e dissimulare il tutto preservando il proprio disinvestimento soggettivo (4). Il meme interviene ad espellere ciò che dis-vela la propria condizione e, così, a confermarla.


Ci siano allora consentite alcune ultime riflessioni sul meme e la sua natura dispositiva. Se il meme è un pacchetto di informazioni che pare acquisire vita autonoma, dotato di vita autonoma e che sarebbe il vero soggetto della trasmissione, ottenuta attraverso gli attori (soggetto umani) che sembrano farne oggetto di trasmissione; se è il meme che pare propagarsi e soprattutto non essere più solo rappresentazione della vita ma divenire forza, principio che la modella (5), è allora con il meme come comicità che la pratica si fa autonoma, senza che occorra un soggetto alle sue spalle, è proprio la pratica del sacrifico comico, del sacrificio della realtà e/o quanto meno del volersi riferire ad essa come anche del volerla quale campo del desiderio di esistenza, di attualizzazione narrativa forte.

Il meme come dispositivo modella quindi i soggetti come carnefici o vittime (si veda anche l'ottimo articolo di Pietro), e avendo a oggetto il collocarsi senza incredulità all'interno della realtà, pone se stesso come frammento di discorso iperreale dotato di maggiore pienezza ontologica della realtà stessa: nella distribuzione dei ruoli associata alla specie comica di imitazione che viene indotta, la possibilità di assimilarsi ai carnefici e quindi ai modelli del desiderio mutuandone la pienezza ontologica a scapito di una vittima, induce il riconoscimento della realtà nei termini modellati da tale imitazione, cioè come giusta vittima per la sua ridicola pretesa di essere presa sul serio.

Con il momento memetico abbiamo quindi un'imitazione ironica, parodica, che suggerisce in realtà una forma della realtà, dà la forma della realtà. Ma questo è in fondo quello che c'è sempre stato dietro la comicità e dietro a ogni forma sacrificale: dietro il gesto comico si riassume in maniera didascalica un aspetto del reale, e quel momento comico diventa poi paradigma cui ricondurre i singoli eventi reali, ottenendo una normalizzazione con questa riconduzione.


Si può dire infine che questo sia ciò in cui consta ogni forma sacrificale e, poiché la comicità è una sua forma di attualizzazione culturale, mutua questa sua implicazione gnoseologica: la modellazione della realtà che si viene a conoscere (o a ri-conoscere) entro appunto le forme funzionali alla differenziazione; la generale forma del sacrificio riassume infatti alcuni tratti, li stigmatizza ritagliando la forma di una vittima, e riduce ad essi la poliedricità dell'esistenza, modellando così questa entro la polarità necessaria da cui procedere alla definizione di una differenza.



***


(1) Non ho idea di come sia il format originale, se vi intercorrano delle differenze o come sia eventualmente cambiato nel corso delle edizioni. Ho cominciato a incuriosirmi al programma negli ultimi tre anni, durante i quali mi è capitato di vederne diverse puntate. Farò pertanto riferimento solo a quello che ho visto in queste occasioni.

(2) Questo è un mutamento terminologico che sarebbe interessante indagare: difficile non sospettare che la precedente terminologia avrebbe implicato un giudizio negativo nei confronti del comportamento dei single e di quello dei membri delle coppie durante le loro interazioni con i primi, mentre il termine single si carica di tutta un'altra valenza, da quella evocante la libertà – soprattutto la libertà di consumo – a quella evocante la legittimità a una libera esplorazione del mondo e delle sue possibilità – di consumo – al di là di qualsiasi paradigma valoriale e di qualsiasi soglia etica poiché svincolati da qualsiasi responsabilità.

(3) Ci sia consentito di riflettere sul fatto che questo potrebbe in fondo rappresentare l'essenza del concetto di iperrealtà: se l'iperrealtà è la sostituzione della realtà con il campo delle immagini, il quale, nel tentativo di imitarla per essere più reale possibile, per afferrare la realtà stessa, giunge invece ad essere modello di realizzazione che la realtà a sua volta imita per poter esistere, in queste metareazioni e in questa metanarrazione di sé abbiamo proprio l'inversione della precedenza tra immagine e realtà, poiché quanto sorge entro se stessi è prima di tutto percepito in funzione della sua immagine multimediale possibile, e successivamente espresso in funzione dell'immagine desiderata. Questo elemento aiuta forse a mettere in chiaro il passaggio tra il carnevale arcaico sacrificale come riproposizione immediata, riattualizzazione, e il carnevale sacrificale come rappresentazione dello stesso rituale, in primis per se stessi in quanto immagine. Se nel primo il momento di inversione del mondo era attuale, effettivo nel momento del suo svolgimento, nel secondo questo momento è messo in scena in funzione dell'immagine dell'inversione che si vuole attualizzare: nel secondo il sacrificio purificatorio è ottenuto sotto forma di immagine messa in scena e in funzione di un'immagine di sé; questi momenti sono così vissuti con l'intento di essere ascritti come attributi, esperienze, percorso di un'immagine di sé che si vuole attualizzare. Viene così di fatto a costituirsi quel paradosso per cui non c'è mai sacrificio completo dell'ordine che deve essere purificato e rinnovato poiché qualcosa ne viene sempre conservato nella soggettualità sacrificante, la soggettualità che pianifica attraverso il rito la conservazione di sé, paradosso che non può che dar vita a quella frustrazione che necessita continuamente di una nuova rincorsa verso un'altra inversione rituale.

(4) Ci si potrebbe anche spingere ad affermare che in un certo senso questo era già contenuto nella riflessione di Foucault quando il filosofo argomentava intorno al concetto dell'ordine del discorso come accostamento di sintagmi, di moduli di parola, senza (e scardinando) l'idea di una ragione precedente che li modella, la quale è semmai effetto di questa composizione di pratiche singolari.

(5) Non è affatto da escludere che molti dei profili che sui social danno vita a meme, inducendone poi il rilancio, siano profili che appartengono alla galassia della produzione del programma; questo non invalida l''idea di un'urgenza avvertita dagli spettatori di prodursi in tale pratica, anzi, la conferma, evidenziandone la dinamica mimetica, il mimetismo sotto il memetismo, l'imitazione della folla che ride attorno a qualcosa che mette a disagio.


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