di Simone Berno
Vedo da un po' segnalato su twitter che i media di comunicazione di massa sembrano aver preso da qualche settimana la piega dello sdoganamento e normalizzazione della pratica legata alla piattaforma OnlyFans (si segnalava su twitter una certa ricorrenza presso il Corriere della Sera e, a una breve ricerca, ho trovato almeno quattro articoli pubblicati nell'ultimo mese di dicembre – qui, qui, qui, e qui –, la cui lettura lascio ai solerti e disciplinati abbonati allo storico quotidiano).
Sicuramente peccando di malizia nell'attribuire a tali arcadiche iniziative redazionali l'intenzione di dettare e definire fantomatiche agende culturali e quindi sociali, sono stato indotto nella tentazione di interrogarmi su questi filantropici reportage della vita di persone che sembrano per lo più in età post adolescenziale – quanto meno quelle di cui si parla negli articoli e che vengono addotte quali illustri modelli di esistenza smart, al passo con i tempi e le leggi del mercato delle carni – ma, ancor di più, sul fenomeno stesso dell'OnyFans, e sulla possibilità di individuarne una strategia foucaultiano-girardiana. E, in un attimo, l'orrore.
Sì, perché attenzione: i media non sembrano tanto proporre lo sdoganamento e la normalizzazione della pratica di chi frequenta la piattaforma come fruitore – il fan – quanto quella di chi la frequenta in qualità di – come vengono chiamati o si fanno chiamare – creatori (sarebbe a dire coloro che vendono le immagini, i filmati o altre proprie prestazioni virtuali da remoto). L'obbiettivo non solo di questa operazione di giornalesca promozione culturale, ma anche del dispositivo stesso della pratica OnlyFans è proprio la costituzione di una forma di soggettualità specifica che cade ora sotto l'epiteto di creatori, ma traduce solo in una forma coerente con i tempi la costituzione implicita di soggettualità profilate dal dispositivo del desiderio mimetico come dispositivo di governo (già esaminato qui e qui), assoggettate nella percezione di sé e nella costituzione dei propri desideri.
Se penso di poter dire in tutta onestà che il piacere sia un prodotto che si è sempre venduto da sé e nelle modalità in linea con le lo spirito dei tempi e le relative regole di mercato, allora di certo questo parlarne sui media in modo così incoraggiante non ritengo abbia come obbiettivo liberare la coscienza dei frui-fans da eventuali remore sulla loro libertà di consumo. L'obbiettivo sembra abbastanza evidentemente quello di sdoganare questa pratica come plausibile e fortunata strada che si stende dorata avanti ai passi di qualsiasi giovane intraprendente artefice di se stesso, campione homo faber, percorso aurorale di un radioso avvenire per la massa di individui che o si trovano privi di qualsiasi altro orizzonte di realizzazione professionale, sociale, personale, magari precluso da un mercato del lavoro sempre più dickensiano di deflazione salariale, o impazienti e avidi di ottenere tutte le risorse necessarie al loro bulimico senso del consumo.
E come viene proposta questa magnifica sorte, e progressiva? Potete immaginare il mio girardiano stupore: proponendo la figura dei creatori come quella di individui realizzati, vincenti, smart, baciati dal nazional-popolare plauso materno e, sopratutto, rifulgenti l'immagine di un individuo dotato di una pienezza di sé tale da vantare un possesso del proprio corpo così assoluto e inscalfibile dalle pratiche altrui, da poterne disporre la propria mercificazione senza che questo abbia alcun tipo di ripercussione sulla propria esistenza. E non voglio qui alludere a un qualche moralismo, ma al semplice assunto foucaultiano che sono le pratiche a costituire i soggetti, e che una pratica sia un dispositivo assoggettante.
Ma, appunto, coniugando lo sguardo foucaultiano a quello girardiano, l'abisso del dispositivo rivela tutto il proprio orrore.
Sì perché, se è girardianamente evidente come queste proposte di lettura operate dai media puntino non solo a suscitare il mimetismo nei confronti della desiderabilità che caratterizza i creatori – desiderare la loro capacità di farsi modello accentrante e manipolante i desideri altrui – ma anche legarlo propagandisticamente alla possibilità di riscatto sociale (quindi indurre l'imitazione dell'identificazione esclusiva di questa pratica con la possibilità di riscatto sociale, astuto e smart), meno evidente è come il sistema sapere-potere riproduca se stesso attraverso un dispositivo che suscita mimeticamente il desiderio nei confronti della forma di soggettualità dei creatori, forma assoggettante ritagliata ad uopo, con tutti i crismi della modernità; il che, comunque, altro non è che la proposta al passo con i tempi per suscitare il desiderio mimetico di ascesa alla posizione di modello-mediatore.
Un dispositivo quindi che convoglia in una competizione mimetica i creatori, un dispositivo la cui escalation porta asintoticamente al desiderare in ultima analisi l'alienazione del corpo e la sua transustanziazione nell'iperrealtà, nella convinzione che questa nuova consistenza ontologica non avrà alcuna ripercussione sulla costituzione della propria soggettualità.
Si ha quindi questo ribaltamento in cui la percezione della propria capacità di appropriazione assoluta del proprio corpo e il conseguimento della posizione di mediatore coincide con l'alienazione del proprio corpo da sé, la mercificazione del proprio corpo come sua messa a disposizione per altri nella forma dell'immagine – che nel regno dell'iperrealtà sostituisce e invera il corpo – e l'assoggettamento complice ad una pratica che non solo rinsalda la presa su di sé di un sistema sapere-potere che si agglutina nell'assoggettamento a una funzionale forma di soggettualità romanticamente determinata (in senso girardiano, ovviamente), ma riproduce e rilancia mimeticamente questa pratica tra la folla, rinsaldandone la sua capacità di governo dei corpi e delle anime.
Oppure, in nome del mio disperato e fosco ottimismo, questa pratica tradisce la consapevolezza inconfessabile di essere soggetti a un mondo che vuole la totale mercificazione di sé, la consapevolezza di essere soggetti assoggettati a questa disposizione del mondo, conformati e, quindi, abitati da desideri ad essa conformi; soggetti-di ma solo in quanto soggetti-a un desiderio che non sfugge al perimetro tracciato dal sistema sapere-potere in quanto soggetti desideranti esclusivamente il possesso e il consumo – principi ontologici unici di inveramento del mondo avanguardisitico contemporaneo; la consapevolezza quindi di riprodurre con i propri desideri quello stesso mondo di cui si è ostaggio.
La pratica del creatore potrebbe allora configurarsi come una una sfida mimetica tra sé e il principio di cui ci si sente ostaggio, spinta fino all'autoalienazione, in imitazione della capacità che il modello-ostile ha di disporre del nostro corpo.
Ad ogni modo, quello che vediamo qui in atto è un dispositivo di assoggettamento che ha nel mimetismo il principio cardine, sia che i soggetti assoggettati vi assecondino le logiche del desiderio non solo passivamente ma partecipativamente ed entusiasticamente, sia che trovino il rovesciamento nel parossismo quale unica forma di auspicata opposizione a tali logiche: attraverso di esso i piaceri che percorrono i corpi vengono agglutinati nella forma soggettuale conforme al sistema sapere-potere: soggettualità individuali che trovano nel consumo, nell'estemporaneità, nella fruizione solipsistica e nella simulazione di un sé assoluto i principi di inveramento ontologico della propria esistenza.
Anche qui, probabilmente nulla di nuovo sotto il sole se non che, come ricordato altrove, la capacità tecnologica attuale rende tutto questo sempre più totalizzante – quindi totalitario – e smangia via in maniera sempre maggiore qualsiasi spazio per un'esistenza altra. Un'altra rincorsa generalizzata a un'indistinzione di massa.
Magari, auspicabilmente, questo fenomeno si spegnerà quando, come sottolineano alcuni, l'eccesso di offerta renderà meno appetibile il prodotto. Girardianamente, però, questa non sarebbe altro che un'indifferenziazione generalizzata, e non credo che il nostro sarebbe stato altrettanto ottimista nel credere che questo avrebbe risolto morbidamente la crisi. Molto più probabilmente, si transiterà verso un altro dispositivo assoggettante di consumo.
In entrambi i casi, «grazie, non compro niente». «I would prefer not to».
L'articolo coglie del fenomeno aspetti preziosi, e mi congratulo con l'autore. Mi chiedo tuttavia perché qui e altrove vi ostiniate ad utilizzare una microlingua poco accessibile ai più che leggono questi vostri contributi probabilmente nei ritagli di tempo. È quasi più lo sforzo di decodifica che il guadagno intellettuale.