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Una repubblica democratica fondata sull’espulsione | Il venticinque aprile oggi e domani


Una targa dalla quale sono stati rimossi tutti i riferimenti al fascismo.

Il 25 aprile 1945 i partigiani italiani, in sinergia con l’esercito alleato, liberavano il nord Italia dall’occupazione nazifascista. Il 25 aprile di ogni anno celebriamo conseguentemente quella che abbiamo scelto di chiamare “Festa della liberazione”, con vaga sfumatura sacrificale e, sembra a me, scatologica. Liberazione dell'Italia occupata dal regime illiberale della Repubblica Sociale Italiana e dalle truppe naziste, certo – ma anche liberazione come evacuazione, espulsione di un corpo malvagio, il fascismo appunto, che per oltre vent’anni aveva infettato il giovane corpo dell’Italia unita.

Espellere il male, concentrandone la figura in un simbolo, sopra il quale far cadere poi un tabù inviolabile, è prassi ben nota di organizzazione dei corpi sociali, secondo modalità che Girard non ha mancato di analizzare. È l’espulsione del capro, la sua elevazione al di sopra o al di sotto della norma sociale a determinare la coesione del gruppo intorno al feticcio sacrificale. Il corpo espulso se ne va col suo carico di colpe, purificando la comunità dal male – cioè dalla violenza. Poco importa la conta delle responsabilità storiche del fascismo – la violenza e i soprusi elevati a sistema, le odiose leggi razziali, la scelta fallimentare della guerra – nel giorno della catarsi nazionale, quando il càtarma, il male della violenza endemica, della guerra civile, la pletora mostruosa del botta e risposta violento tra le fazioni in lotta (stragi fasciste, stragi partigiane, le Fosse Ardeatine contro via Rasella, le solite lagne da ragionieri di destra e di sinistra, la conta dei morti per stabilire chi fu più cattivo…) arresta la sua oscillazione impazzita sul corpo martoriato dello sconfitto, Mussolini appeso per i piedi a piazzale Loreto. Che liberazione! Quando lo stronzo finalmente se ne esce, quella sensazione di benessere… e insieme con lo stronzo, fuori anche tutta la violenza che ci ha contaminati per così tanto tempo.

Con la legge Scelba del 1952 l’espulsione del càtarma si è compiuta: Mussolini e il fantasma dell’oppressione illiberale e totalitaria si sono allontanati per sempre dal corpo puro della futura Repubblica italiana. Tutto ciò che riguarda l'infame ventennio è ufficialmente tabù, a meno che non se ne parli insieme ai tuoni e ai fulmini. Quale idea migliore che il divieto solenne, per assicurarsi il ritorno tonitruante del rimosso? La storia, pare, non insegna nulla – ma nemmeno l’esperienza che, da puberi, tutti abbiamo avuto della relazione tra tabù e desiderio. Ci era arrivato anche San Paolo! (1)


Nella vita faccio l’insegnante, ho lavorato nelle scuole medie e superiori. Da rappresentante delle istituzioni, ho partecipato alle celebrazioni del venticinque aprile, alla festa delle bandiere italiane e degli stendardi dell’ANPI. Ho ascoltato discorsi meravigliosi, pieni di fuoco e passione, a difesa delle libertà democratiche, contro l’oppressione illiberale e totalitaria. Una di quelle volte, contemplando lo scarso manipolo di astanti prezzolati, fissando i loro occhi spenti, animati dalla macchina, ho pensato – anzi ricevuto come profezia – che, entro dieci anni, il venticinque aprile non si sarebbe più festeggiato (2). I nuovi ordini politici, improvvidamente fondati sull’espulsione di capri espiatori, non hanno più la forza catecontica di un tempo – soprattutto in secoli di disincanto e relativismo come i nostri. Con l’approssimarsi dell’èschaton logico-politico che sembra incombere su tutti noi, potestà e principati soccomberanno al fallimento della logica tribale, sacrificale ed espulsiva sulla base della quale è stata fondata, tra le altre, la nostra Repubblica. Girard ne ha parlato con dovizia, e faremmo bene ad ascoltarlo (3). Il venticinque aprile è destinato a morire non perché passeranno i valori che rappresenta – nei quali credo fermamente – ma perché gli attori storici che li incarnano soccomberanno alla frenetica vece dei capri, degli idoli e dei dannati nei quali la storia non riesce più a credere – affamata e insaziabile com’è di nuovi capri, nuovi mostri, nuovi duci ai quali inchinarsi. O vecchi duci, indifferentemente.

Le mie classi sono piene di giovani teste – buone teste, che quando le si fa pensare, pensano. Pochi di loro si riconoscono nella Repubblica e nei suoi valori – pochissimi, quando spiego storia, tifano per i partigiani. Qualcuno, più coraggioso di altri, si proclama orgogliosamente fascista, inneggia al duce. Io sorrido, ma con partecipazione, senza disprezzo. Mi sorge il sospetto che questa resurrezione del fascismo presso i giovani sia un fatto perfettamente logico.

Una repubblica democratica non può fondarsi sull’espulsione di una sua parte, a nessuna condizione. Ne va del significato stesso di “cosa pubblica” e della misura dell’aggettivo “democratica”, che non ha a che fare tanto con la libertà di espressione concessa a ciascuno, ma con l’obiettivo del confronto e della partecipazione, con il lento lavorìo parlamentare dal quale risulta la volontà generale. I giovani capiscono poco di tante cose, ma se c’è una cosa che fiutano subito è l’incoerenza – e non ne hanno pietà. Vittime privilegiate di una vera e propria lotta generazionale, individuano subito lo schieramento a loro più fraterno – nel fallimento e secondo una logica vittimale, se non vittimistica.

Non è mistero per nessuno che le nuove generazioni vengono al mondo sotto il segno della sconfitta storica del capitalismo e del liberalismo occidentale, sulle cui fondamenta si è edificata, tra le altre cose, l’Italia contemporanea. I miei studenti lo sanno per primi: loro dovranno penare, e tanto più dei loro genitori, per trovare il proprio posto in questo mondo contemporaneo nel quale il lavoro è schiavitù precarizzata, e l’Occidente assiste inerme al tramonto della propria egemonia storica – questo mentre le risorse del pianeta si esauriscono, mangiate vive dal capitale, e il disastro climatico profetizza la prossima fine – non del bengodi, ma forse dell’umanità stessa. Vengono al mondo, le nuove generazioni, sotto il segno della sconfitta e del sacrificio che del loro futuro è stato fatto dalle generazioni passate. Non sembrerà strano, allora, che per un classico processo di identificazione essi riconoscano nello sconfitto, nell’espulso nazionale, nel duce appeso per i piedi, l’immagine stessa della loro gioventù sacrificata – e da quegli stessi “vincitori buoni” delle generazioni passate. È la stessa Repubblica a fornire loro il feticcio ideale della loro identificazione, l’immagine del rifiuto scatologico e sacrificale sul cui corpo oscuro (nero) si è fondato lo stato libero e prospero, la Repubblica bianca, rossa e verde, che per obbedire alla logica sistemica del capitalismo finanziario riduce progressivamente le tutele nazionali del lavoro e della vita sociale.

Il rimosso che torna – come in Freud, ma a livello di soggetti nazionali, o sociali, se dà fastidio. E che tornerà più forte ancora, identificandosi sempre più da vicino con l’espulso dalla comunità civile (poco importa che lo sia davvero, finché si percepisce come tale), fintantoché gli autoproclamati detentori del discorso civile e democratico stesso non accetteranno, democraticamente, di ascoltare quelle voci aliene e disturbanti, che parlano di un passato scomodo e ingombrante, e che pure vive ancora, nel corpo della Repubblica, come l’impensato ancora da pensare, e da ripensare sempre. Sto parlando della violenza espulsiva, vero nemico della democrazia – e della quale il fascismo è solo una possibile incarnazione.


Di repubbliche italiane, dicono, ce ne sono già tre: la prima, quella del ventennio berlusconiano e quella dei populisti. Se dovesse venirne, presto o tardi, una quarta, forse l’unica speranza che possiamo nutrire a riguardo è che si abbia l’accortezza di non fondarla, analogamente, sull’espulsione di qualche corpo politico cattivo – espulsione che nel discorso comune si realizza molto più incisivamente che se fosse istituzionalizzata: dar del fascista a qualcuno come sinonimo di “ignorante”, “rifiuto della società”; prassi abituale di chi ha studiato, di chi la sa più lunga.

Qualche tempo fa, nella mia città, un gruppo tribale e identitario di autoproclamati “fascisti” ha marchiato con insegne infamanti le case di alcuni avversari politici (“Qui ci abita un antifascista”). Subito dopo, un gruppo più nutrito, ma altrettanto tribale e identitario, ha orgogliosamente rivendicato la propria identità antifascista con adesivi ad hoc, rilanciando e facendo propria con orgoglio la marchiatura – ma correggendo il pleonasmo dell’avverbio locativo “ci”, con spocchia di detentore del discorso, proclamando definitivamente l’impossibilità del dialogo con l’altro, il rimosso, l’espulso.

Non dico nulla di nuovo. Pasolini, in tempi forse meno sciocchi dei nostri, ha riconosciuto nell’atteggiamento degli intellettuali antifascisti di allora lo stesso problema – tanto autoevidente, eppure tanto facilmente misconosciuto dai vari tribalismi onnidirezionali. “Ci siamo comportati coi fascisti”, dice Pasolini, “razzisticamente: abbiamo cioè spietatamente e frettolosamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti. […] Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male” (4). È quel tanto frequente automatismo che raggela il diverso da me in un’immagine di cristallo, dura e inscalfibile, e ci consente di defecare con poca fatica e grande soddisfazione l’alterità ingombrante, il càtarma impuro, lo “stronzo fascista” appunto… e con grande beneficio della comunità dei giusti, che dall’espulsione del Male riesce più forte e coesa che mai – e soprattutto pacifica, pacificata, buona, “buonista”…

Non sono il fascismo o l’antifascismo il problema – ma la marchiatura, inflitta e accettata da entrambe le fazioni, il proclamare e proclamarsi fascista come il proclamare e proclamarsi antifascista. Sono gli stendardi dell’identità levati alti e fieri sopra la possibilità sempre aperta del dialogo e della contaminazione dei discorsi. È la chiusura della parola, il logos come processo di identificazione espulsiva ed esclusiva, che serra gli occhi e gli orecchi del marchiato rispetto al discorso dell’altro – del fascista come dell’antifascista – e ha come esito la Discordia e il Disfacimento del Geschlecht (5).


Un collega di cui ho grande stima, per diverse ragioni, mi disse una volta: “Con i fascisti è inutile parlare”. Da allora, per scherzo, fingo con lui di essere fascista, perché continui tuttavia ad ascoltarmi. Lo sta continuando a fare, credo, perché la marchiatura non è forte come l’evento del faccia a faccia, cioè la fede che ognuno di noi istintivamente ripone nell’altro, quando si apre lo spazio miracoloso del dialogo – e questo è qualcosa di veramente connaturato all’umano, anche ai “fascisti” – e non ha bandiera o colore politico, anche se qualcuno pensa il contrario.


* * *


(1) Cfr. Romani 7, 7-10: “Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: non desiderare. Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri. Senza la legge infatti il peccato è morto, e io un tempo vivevo senza la legge. Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha preso vita e io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è divenuta per me motivo di morte”.

(2) La notizia recente che Salvini non parteciperà alle celebrazioni del 25 aprile sembra confermare, e forse anticipare di qualche anno, le mie previsioni – dando per scontato che Salvini non sia altro che l’avanguardia di una nuova identità politica di massa che altri sembra aver rinunciato a incarnare.

(3) Cfr. soprattutto i capitoli conclusivi di Portando Clausewitz all’estremo, Adelphi, Milano 2007.

(4) P. P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti 2008 (1975), p. 49.

(5) Rimando al mio articolo Qualcosa come il cristianesimo – L’escatologia degli Unterwegs zur Sprache, dove metto a tema il problema della Mitezza come promessa escatologica e la sua assenza come origine del Disfacimento, sulla scorta del pensiero dell'ultimo Heidegger.

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