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«È tutta colpa sua» | Il sacrificio del Re (nel) Carnevale

Aggiornamento: 9 gen 2019


«La festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova»

(M. Bachtin)


Qualche anno fa mi è capitato di lavorare come animatore al Carnevale di Terranuova Bracciolini, una cittadina del basso Valdarno aretino. Questo mio particolare ruolo mi ha permesso di assistere alla festa da una posizione privilegiata: fisicamente prossimo agli eventi più importanti, avevo al contempo la possibilità di guardarli come dall’esterno, non vivendo direttamente lo “spettacolo” come il resto della gente, attrice e spettatrice insieme. Una situazione paragonabile a quella dell’“osservazione partecipante” dell’antropologo contemporaneo. Sono rimasto particolarmente impressionato dalla celebrazione finale del Martedì Grasso, che del resto si inserisce nel solco delle tradizioni carnevalesche di moltissimi altri borghi e cittadine del Mediterraneo: su di un carro vi è un Re fantoccio, chiamato spesso con il nome proprio Carnevale – quasi a significarne l’identificazione con l’essenza stessa della festa – il quale, dopo aver girato in lungo e in largo per le strade del paese, viene portato nella piazza centrale e simbolicamente ucciso. Il ricordo di come nei particolari è avvenuto questo rito quell’anno a Terranuova è ben vivo in me: dovevo suonare un tamburo producendo un ritmo ossessivo, mentre la gente formava un semicerchio intorno al Re, il quale a sua volta veniva posto su di un rogo di legna e sterpaglie; a questo punto, prendeva la parola l’organizzatore dell’evento, urlando a gran voce: «È tutta colpa sua!!! Maledetto sia il Re Carnevale!! Lanciamo contro di lui ciò che abbiamo di più pesante, insultiamolo per quello che ci ha fatto!!». Cominciavano così a volare gli oggetti più disparati e le grida più ingiuriose sul fantoccio, mentre due persone appiccavano il fuoco sotto di esso; a me venne chiesto di suonare il tamburo aumentando gradualmente il ritmo, sempre più veloce, mentre il fuoco saliva insieme alle grida.... finché il Re non fu bruciato del tutto.

Morto il Carnevale, finito il Carnevale. Le persone cominciarono a sparpagliarsi, parlottando della “buona organizzazione” di quell’anno: e piano piano, togliendosi la maschera, ognuno fece ritorno a casa propria.

Ora, la domanda centrale di questo breve scritto, la stessa che mi sono posto dopo quell’esperienza, è: che “colpa” ha mai il Re Carnevale? Di cosa “è tutta colpa sua” – come gli urlava contro la gente prima di ucciderlo?


Possiamo cercare una riposta a questo interrogativo interpretando il “rito” carnevalesco sopra descritto alla luce della teoria mimetica di René Girard. La colpa del Re sarebbe allora quella di tutti i capri espiatori agli occhi dei loro persecutori: avere scatenato la crisi. Una crisi di indifferenza mimetica ben rappresentata, in questo caso, dalla messinscena carnevalesca, nella quale – come afferma il demologo Castelli – «tutto confluisce, tutto si mescola, si ibrida, si confonde», tanto che «si ha veramente l’impressione di essere di fronte al Caos» (F. Castelli, in AA.VV., Maschere e Corpi. Tempi e luoghi del Carnevale, a cura di F. Castelli e P. Grimaldi, Meltemi editore, Roma 1997, pp. 19-20). A partire dalla maschera – che, velando il volto, lungi dal differenziare le persone le rende tutte uguali, tutte omologhe, abolendo per un determinato arco di tempo ogni differenza di ruolo sociale, di genere, di età, di appartenenza familiare ecc. (Secondo la studiosa Gabriella d’Agostino, in proposito, «il travestimento, ritualmente assunto, determina temporaneamente un’identità altra, introduce a una sorta di liminarità, di sospensione, circoscritta al tempo del rito, dell’ordine biologico, sociale e culturale se cui la comunità fonda il proprio equilibrio», G. d’Agostino, in Ivi, p. 146) – il Carnevale presenta infatti i tratti caratteristici di tutti quei riti collettivi volti, secondo Girard, a rappresentare – esprimendo e al contempo incanalandone tutta la portata violenta in senso catartico – una crisi mimetico-indifferenziante originaria da cui una data società è uscita attraverso il sacrificio, cioè addossando “tutta la colpa” del disordine creatosi su una sola persona e poi uccidendola, ristabilendo in tal modo l’ordine sociale attraverso lo sfogo violento del “tutti contro uno”. Non è un caso che alcuni fra i più autorevoli demologi e antropologi italiani, pur non menzionando mai le tesi di Girard, definiscano il Carnevale un «mito di fondazione dell’identità collettiva di un paese» (F. Castelli, in Ivi, p. 27), in cui «la sospensione dell’ordine “normale”» (F. Mugnaini, in Ivi, p. 86) ha la funzione di «sostituire al tempo cronologico il tempo primordiale, quello in cui “l’avvenimento ha avuto luogo la prima volta”; cioè un tempo miticamente fondato, “un tempo forte”, un tempo delle origini» (A. Buttitta, in Ivi, p. 59).

Origini violente, dunque, in cui l’«avvenimento che ha avuto luogo per la prima volta» è un sacrificio rituale, ripetuto simbolicamente attraverso il rogo del Re fantoccio. Riflettendo sui rituali sacrificali di alcune monarchie sacre africane, Girard scrive che il re ha «una funzione effettiva. [...] È una macchina per convertire la violenza sterile e contagiosa in valori culturali positivi» (R. Girard, La Violence et le sacré, Grasset, Paris 1972, trad. it. La Violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2005, p. 154). Ora, questa sua funzione è rintracciabile anche nei “rituali” carnevaleschi, che, come abbiamo già osservato, si strutturano in alcune comunità come veri e propri miti di fondazione: «da un lato segnalano il discontinuo dei ruoli e delle funzioni, dall’altro – ribadiscono e visualizzano la continuità della vita cosmica e sociale» (A. Buttitta, in AA.VV., Maschere e Corpi . Tempi e luoghi del Carnevale , op. cit., p. 55); addirittura, questo carattere positivo e fondante è talmente costitutivo che l’antropologo P. Grimaldi ritiene che «la moderna rifunzionalizzazione dell’antica religio carnevalesca possa offrire una risposta al superamento della crisi connessa al millennio» (P. Grimaldi, in Ivi, p. 11). Ecco dunque spiegato il motivo, apparentemente misterioso per F. Castelli, per cui del Carnevale si sono date «le più disparate e contraddittorie vedute: da quella che vede come suo asse costitutivo la trasgressione, l’inversione, la licenza, a quella che al contrario ne valuta il senso alla luce dell’ordine sociale» (F. Castelli, in Ivi, p. 20). Entrambe le letture sono vere, ma ognuna è parziale: quella di Girard le comprende entrambe, facendo sì che ognuna acquisti senso dall’altra.


Se qualcuno trovasse oltremodo azzardato l’accostamento tra la gaia e spensierata festa carnevalesca e i violenti rituali raccontati dagli antropologhi, potremmo sottolineare che laddove i rituali della «religio carnevalesca» sono meno “secolarizzati”, si trovano spesso cerimonie di carattere apertamente violento, simbolicamente quando non fisicamente, anche all’interno della festa, e non soltanto al suo culmine sacrificale del Martedì Grasso: combattimenti tra clan, invasioni di fattorie, frustate ad animali, punizioni fisiche da infliggere o da scontare (Cfr. in proposito i saggi – citati in ordine alfabetico per autore – di A. Artoni, S. M. Barillari, F. Castelli e F. Faeta in AA. VV., Maschere e Corpi. Tempi e luoghi del Carnevale, op. cit.)... Inoltre, come osserva giustamente il semiologo A. Artoni, ricordiamo che lo stesso Arlecchino, burlone capocomico di molti cortei carnevaleschi, deriva dal personaggio mitologico di Hellequin, cavaliere degli inferi, condottiero dell’esercito dei morti (Cfr. A. Artoni in Ivi, pp. 178-188).

«Una teoria della festa dovrebbe articolarsi su una teoria del sacrificio», afferma recisamente Girard, citando Roger Caillois (R. Girard, La Violence et le sacré, op. cit., p. 171); giacché ogni festa, infatti, esprime più o meno simbolicamente una crisi di violenza mimetica, attraverso un «generale annullamento delle differenze: le gerarchie familiari e sociali sono temporaneamente soppresse o invertite. [...] Il tema della differenza abolita o rovesciata si ritrova nell’accompagnamento estetico della festa, nella mescolanza di colori discordanti, nel ricorso al travestimento, nella presenza dei pazzi con il loro abbigliamento variopinto e i loro perpetui vaneggiamenti...» (Ivi, p. 170, corsivo mio. Una suggestione circa la «mescolanza di colori» come espressione dell’indifferenza: le due maschere più famose della nostra tradizione, Arlecchino e Pulcinella, si trovano spesso – seppur Arlecchino non originariamente – raffigurati il primo con un vestito sgargiante e multicolore, il secondo con un abito bianco. Non sono forse come due doppi mimetici che esprimono entrambi la stessa indifferenza mimetica? Il massimo della varietà caotica produce l’uniformità della massa, così come un disco colorato che ruota ad alta velocità tende a produrre il colore bianco. Così, più il bergamasco Arlecchino danza veloce e beffardo, più si trasforma nel suo doppio napoletano dal naso lungo): tutti elementi tipici della festa carnevalesca. Potremmo così affermare che mentre in molti rituali magico-sacrali è la violenza manifesta che rimanda alla crisi indifferenziante, nelle “feste” è invece questa stessa manifesta indifferenziazione che rimanda alla crisi violenta. La festa e il rituale violento non sono altro che dei doppi mimetici il cui comune significato è ravvisabile nell’evento che sancisce la fine di entrambi: il sacrificio.



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