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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Del fenomeno #dignifAi | Dispositivi di scandalo e desiderio mimetico

Aggiornamento: 17 feb




Vagavo in questi giorni sull'X (fu twitter) e spulciavo i canali telegram, quando mi sono imbattuto in un fenomeno che non conoscevo: il #dignifAI. Per chi, come me fino a poco fa, non è a conoscenza di cosa si tratti, è un fenomeno di pubblicazione di post/meme, la quale, usando le potenzialità grafiche dell'intelligenza artificiale, sottopone a interventi di modifica una serie di immagini che potremmo definire classiche del contemporaneo universo iperreale; si badi: tutte modifiche accomunate da una medesima poetica critica.

A quanto pare questo fenomeno è diventato virale a partire da questo account su X, ma forse nato su 4chan, come riporta questo incommentabile articolo su Wired (dove viene anche indicato questo sito come loro manifesto) e che ora – dettaglio fondamentale per la nostra riflessione – sembra che sia pure un app scaricabile.


Prima di illustrare di quale tipo di modifiche si tratti e di quale poetica critica le accomuni, si permetta una puntualizzazione in merito all'aggettivo classico appena usato, giacché il suo utilizzo non è ozioso, ma si vuole in un significativo contrappunto con il tipo di modifica che viene apportata a tali immagini. Per classico riteniamo si possa intendere ciò che si pone come elemento senza tempo in quanto fuori dal tempo, delineante non solo lo spirito di un'epoca nella sua epitome, ma anche una dimensione, un aspetto o un valore intemporale e proprio della dimensione umana (valgano su tutte le parole del Nostro Apparso alla Madonna, nella sua seconda serata al Maurizio Costanzo Show). Con buona pace dei classicisti, ci duole sottolineare che non pare sia allora illegittimo definirle tali, ovviamente non da un punto di vista tradizionale, cioè non nichilista né relativista: nella loro realizzazione, percezione e fruizione, le immagini che vengono successivamente sottoposte a modifica non solo si pongono in partenza quali preclari esempi del valore massimo riconosciuto in questa epoca del Kali Yuga, nella mimetica competizione riguardo a quale di esse, per una frazione di secondo, giusto il tempo di un click su una nuova story o un nuovo reel di instagram, sia il modello ultimo per tutte le altre.

Non solo: nell'orizzonte delle magnifiche sorti e progressive di un materialismo nichilista iperreale – con una spruzzata di woke – i soggetti ritratti si pongono tutti quali campioni della competizione sociale, illustri exempla della tonitruante umanità vincente e affermata nella corsa all'emancipazione da ogni dio – ma tenendosi stretti gli idoli –, trionfanti eroi della gara al mercato delle carni e delle immagini nella globalizzata serie-show liberal-liberista, che nel dio mercato avrebbe dovuto porre fine alla storia e inaugurare l'epoca della pace perpetua vaneggiata dal buon königsbergico Emmanuele.


Come avrete già capito, tali immagini ritraggono in partenza soggetti ostentanti la loro invidiabilità, tutta corporeità e stile di vita: fisici scultorei, spesso tatuati in un modo che non potrebbe essere privato se non a carnevale (sia detto: non ho nulla contro i tatuaggi, ma, come ogni pratica, non ritengo possa essere esente da osservazioni critiche), in contesti di godimento e autoaffermazione, spesso disposti in pose provocanti se non apertamente evocanti le pratiche sessuali, pose sessualizzanti e reificanti il corpo (con buona pace delle ipocrisie culturali, buone solo a selezionare vittime che sia più o meno utile colpevolizzare).

Bene, in cosa consiste la #dignifAi? Nel modificare queste immagini vestendone i corpi, rimuovendo i tatuaggi e costruendo attorno alla sagoma un contesto in cui quella stessa posa divenga l'istantanea di una pratica non automercificante e ritenuta, da parte di coloro che sottopongono a modifica le immagini, conferire maggiore dignità alla persona ritratta e, con essa, all'umanità tutta. Insomma, modificare le immagini in base a un'estetica (e quindi rinviando a un'etica) che, semplificando per meglio intenderci, potremmo definire tradizionalista. Da questo il nome #dignifAI, crasi tra i vocaboli dignify (rendere degno, dignificare) e AI (artificial intelligence).




Se abbiamo già lambito poco sopra gli aspetti girardiani, ma solo in merito alle immagini originali (di cui ci siamo già occupati sotto diversi aspetti qui, qui e qui), ciò che in realtà il vostro Bartleby ritiene maggiormente interessante di questo fenomeno sono le reazioni che paiono suscitare. Sì, perché, a quanto pare, suscitano scandalo tanto nei soggetti ritratti quando visionano le proprie immagini modificate, quanto nella platea corale dei fruitori/produttori/ripetitori dell'etica e dell'estetica che presiedono alle immagini di partenza.

Ma cosa potrebbe mai scandalizzare, dal momento che, le modifiche apportate da questa corrente grafica non producono immagini tradizionalmente identificabili come degradanti, e avendo inoltre i loro soggetti già a monte scelto una mercificazione della propria immagine, dell'immagine del proprio corpo e dell'immaginario che conferisce significato alla propria vita aderendo alla politica social, e per di più avendo sposato nelle pratiche l'idea che il significato della propria vita provenga dalla potenza di transazione derivata dall'investimento di sé nelle stesse pratiche di transazione?

Sicuramente potrebbe essere lo sfruttamento non consensuale della propria immagine, che dovrebbe restare di proprietà del corpo reale; ma ci si permetta una modesta osservazione: da un lato la smaterializzazione iperreale, cavalcata nel momento in cui si entra nel mercato dell'immagine proprio perché sottrae la consistenza ontologica sottostante a essa, consentendo di sostituirla alla vita, nell'intenzione esplicita di porsi quale immagine-modello diffuso del desiderio, e dall'altro lato aver accettato di concederla alle forme di comunicazione social per un calcolo di interesse materiale personale, sapendo che questi se ne appropriano per i propri fini indipendentemente dalle proprie intenzioni, non son punti che rendono forse quanto meno filosoficamente incoerente la lamentela?

Ma possiamo essere sicuri che la motivazione della lamentela risieda solo in questo?




Peccando forse di malizia girardiana, il pensiero è corso subito all'ipotesi che, ciò che getta scandalo e provoca reazioni risentite, sia vedersi annullati degli attributi così duramente ottenuti in una ostica competizione tra cloni per arrogarsi il diritto di sfoggiare quell'espressione, quella posa, quell'aspetto, così uguali a quelli di tutti gli altri ma così ammiccanti a una differenza esclusiva. Una differenza che si vuole e ci si immagina posseduta in maniera emblematica, quanto meno fino a che lo scrolling non conduca alla casuale successiva indistinguibile immagine, che emerge dal fondo indifferenziato e ribollente dell'universo iperreale dell'internet.

Qualcuno potrebbe obiettare che operazioni analoghe non sono nuove, la più celeberrima delle quali potrebbe essere ritenuta la braghettatura dei soggetti ritratti nel Giudizio Universale della Cappella Sistina (fatto ripreso anche da quest'altro incommentabile articolo su Fanpage, che accosta così, senza distinguo critico, la Chiesa del '500 a una corrente sui social, e vede l'oggettificazione sì in una pratica di modifica delle immagini, ma non in una logica estetica che ti vuole oggetto del desiderio perché tu possa affermarti). A parere del vostro Bartleby, le cose differiscono, e non di poco. Innanzitutto, nel primo caso era una istituzione dominante, espressione dell'episteme, a volere censurare una forma di espressione considerata eversiva; nel caso che stiamo esaminando, abbiamo invece una forma d'espressione che, per quanto si possa ritenere che faccia riferimento a un immaginario che qualcuno potrebbe considerare reazionario, è di fatto un controcultura, una voce minore che si oppone allo status quo (quello sì, per definizione, conservatore), allo spirito dei tempi, all'imperativo della moda. Non quindi l'azione di chi vuole opporsi a un possibile cambiamento, ma di chi critica uno stato delle cose ampiamente e diffusamente in atto, con il plauso di ogni megafono economico, mediatico e culturale che è di proprietà della visione egemone. In secondo luogo, pertanto, la modifica operata tende non a forzare l'immagine verso gli stilemi e i codici su cui vige un conformistico, pratico (ma anche ideologico) consenso, ma a condurle verso altri che, allo stato delle pratiche attuali, non figurano certo come proprie dei modelli che suscitano ammirazione e imitazione, che muovono l'economia, che disciplinano le anime nella loro malleabile governabilità tutta prevedibile edonismo.





Se, come già analizzato altrove, nell'episteme dell'iperrealtà lo schermo diviene superficie di emergenza di oggetti e soggetti, soglia ontologica di esistenza, allora la privazione in immagine dei caratteri che connotano un qualsiasi soggetto ritratto non è soltanto un'opera di modifica di un'immagine che lo riproduce, ma è la privazione ontologica stessa di quei caratteri, quindi il venir meno di quel soggetto/oggetto in quanto tale, per come è conosciuto, dal momento che non esistono relazioni che fondino la consistenza ontologia di tali soggetti se non attraverso la mediazione dell'universo iperreale.

Non esistono relazioni faccia a faccia, di presenza, che non siano mediate dall'universo iperreale, dai suoi media e le sue forme di comunicazione: anche le relazioni intrattenute al di fuori della telematicità dei media, sono comunque articolate a partire da quella mediazione effettuata dall'universo dei socialnetwork. Quando si incontra il vip, la star, non si incontra di fatto una persona: si incontra quel polo iperreale di immagini che solo circostanzialmente è attualizzato in una presenza corporea lì davanti a noi, ma che di fatto esiste solo a partire da (e in) un universo iperreale: l'incontro avviene solo attraverso tale universo.

Se sono le pratiche che costituiscono gli oggetti e i soggetti, la loro consistenza tramite l'abito di risposta alla loro presenza (vedere il pensiero del pragmatismo di Peirce), e siccome le pratiche che governano le interazioni con gli eroi dell'iperrealtà sono prettamente di relazione in immagini (imitazione, possesso di immagini come attributo del proprio sé ridotto anche questo a immagine) anche qualora si incontri la persona come corpo biologico, essa non è comunque incontrata nella sua presenza corporea ma solo nella sua evanescenza iperreale.

Anche qui valga su tutti ricordare la famosa frase di Rita Hayworth, icona degli anni d'oro di Hollywood, che recita più o meno «gli uomini vanno a letto con Gilda [personaggio che l'aveva resa icona della sensualità n.d.a.] MA si svegliano con me»: il fenomeno non è quindi nuovo, semmai è solo accelerato e radicalizzato dalla scomparsa della realtà avvenuta nell'affermazione dell'iperrealtà.

Privato di quei caratteri nelle immagini, il soggetto ritratto è privato della sua stessa consistenza reale: da qui lo smarrimento. Non soltanto vengono privati dei caratteri che li rendono e li avevano resi modelli, ma vengono privati della stessa esistenza, in un universo dove, per esistere, bisogna esistere in immagine e, perché la propria immagine esista e si imponga allo sguardo altrui evocato a conferirle lo statuto di modello, deve essere un'immagine dotata di quei caratteri mimetici che rinviano alla competizione estetica generalizzata. Con il solo gesto di modificare l'immagine conferendole caratteri che rispondo a un'etica e a un'estetica che, come semplificato prima, potremmo definire tradizionalista, quindi opposta al conformismo trasgressivo imperante, si provoca nel soggetto la sensazione di essere espulso dalla realtà, espulso dalle relazioni di transazione che fondano la propria consistenza ontologica (e ideologica).




A questo punto, ritenendo che si sia riusciti a chiarire il punto, crediamo sia evidente che la reazione scomposta e stizzita, incorrendo nella palese contraddizione che questa sarebbe una mercificazione della persona, la quale avrebbe diritto alla propria autonomia... nella scelta di come oggettificarsi, tradisca più la sensazione che la mossa abbia svelato il trucco e spezzato l'incantesimo del dispositivo cui ci si univa giubilanti, che questa pratica di modifica sia scandalo proprio perché rivela la natura del proprio desiderio.

Ma è opportuna una ulteriore osservazione: non nascondendo la poca simpatia per quel conformismo estetico che caratterizza le immagini prima della loro modifica (per non dire dell'orizzonte ideologico cui rinvia, rispetto al quale l'espressione «poca simpatia» non risulta che un dolce eufemismo), come ogni mossa critica, anche la #dignifAI presenta dei rischi, riconducibili a quella che si potrebbe chiamare una controideologizzazione: scambiare l'esistenza iperreale di quelle immagini modificate per esistenza effettiva di una alternativa, possibile qui ma attuale da qualche parte al di fuori di quell'immagine, e farne un idolo, un contromodello attraverso il quale tentare di sfuggire alla macchina, ma affidandosi comunque alla polarizzazione che essa dispone per noi.

Tutto questo, girardianamente, non sarebbe diverso da un nuovo tentativo scandalizzato e romantico di affermare un'altra differenza.

La verità, quando tutti adorano vitelli d'oro, non può essere a sua volta resa un idolo per avere la meglio.

Per questo, «grazie, non compro nulla»; «i would prefer not to».




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