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Della "mossa dello scandalo" | Quando il capro non ci sta

Aggiornamento: 16 mar



Nei giorni scorsi i social media e i mezzi di comunicazione hanno coordinatamente cominciato a tempestarci con l'ortopedica notizia che Milano sarebbe la terza città più inquinata al mondo. Apriti cielo (in tutti i sensi)! Immediatamente è scesa in piazza l'amministrazione comunale, chiamata in causa come responsabile delle mancate eventuali contro misure da prendere; e così, da quel momento, via di pedagogia delle masse.

Ma tra le tante cose dette dall'amministrazione, una in particolare ci ha colpito, ed è su questa sola che vorremmo attirare la vostra attenzione, senza scendere nel merito dell'argomento a problema, tra confronti con altre zone d'Europa e i relativi rilevamenti; o le analisi che mostrano la relazione tra il livello di agenti inquinanti e la quantità di polveri di sabbia del deserto spinta dai venti: tutte cose a loro modo interessanti per chi ha il gusto dei dispositivi d'alterco; tutte cose che si scontrano con il dato politico che, salvo che non si voglia sovvenzionare universalmente e sufficientemente un nuovo stile di vita e di lavoro e sufficientemente tutelarli da chiunque nel mondo adotti misure non in linea, la gente deve però poter continuare a svolgere le attività della propria vita senza essere ridotta a schiavitù sotto debiti; a meno che non si voglia in realtà esattamente mungere fino all'ultimo centesimo proprio obbligando a contrarre debiti per la sola rincorsa infinita ai dispositivi della normalità.

Se si potesse, probabilmente si andrebbe tutti a vivere fuori da questa città, che sta subendo un angoscioso processo di degrado, sempre più legata alla miopia di un egoismo del consumo e del godimento, dove il macchiettistico “pago e pretendo” non può nemmeno più considerarsi un presidio alla qualità, ridottosi a pura prepotenza indifferente alle vite che si trovano dietro ciò che si vuole acquistare; una città dove ogni pensiero di un futuro in cui crescere una famiglia getta nello sconforto.




Ma dopo queste lacrimose righe, torniamo alle illuminate parole: a partire dalle risposte e dalle affermazioni offerte a una selva di microfoni in esterna, è stato un susseguirsi di articoli di giornali e di servizi ai telegiornali locali, che riprendono questa – si potrebbe dire – operazione di debunking fatta dall'amministrazione in persona. Con queste parole è stato ottenuto, per e sull'opinione pubblica, più di quanto abbiano ottenuto migliaia di pagine di pensatori del calibro di Foucault e di Sini.




Qual è infatti a nostro parere il centro delle affermazioni? «Sono rivelazioni estemporanee fatte da un ente privato [...] una notizia fatta da un ente privato con nessuna titolarità».

Ecco: grazie! Grazie per aver fatto un'operazione genealogica efficace nel raggiungere le masse, quale non era riuscita nemmeno ai filosofi sopra citati.

Un rimprovero del genere mosso ai giornalisti, rei di aver rilanciato quanto era solo il report dati di un'azienda privata (aggiungiamo pure, come è già stato rilevato da altri prima di noi, che si occupa della produzione di purificatori d'aria, e che crediamo quindi non sia troppo malizioso pensare che abbia interesse far circolare tali dati, come ne avrebbe a far circolare i propri volantini informativi), non è una semplice mossa dialettica da dibattito, non è un semplice argomentum ad hominem.

Con questa mossa viene di fatto svelato un meccanismo che per principio non si può dire che risparmi nessuno: le informazioni (tutte, tanto quelle che circolano, quanto quelle che non circolano) sono sempre di parte, riflettono il punto di vista (e quindi, sia a un livello alto esistenziale che a uno più basso e materiale, gli interessi) della parte che le produce. Ovviamente, innanzitutto, in un senso appunto più meramente economico, materiale, ma anche in un senso più teoretico, più profondo – per capirci – poiché gli interessi non sono da intendersi solo come quelli afferenti alla superficie del desiderio di guadagno, ma, in un senso più esistenziale, quasi schmittiano, come la prospettiva che consegue al nostro circostanziato essere al mondo. Questi interessi sono in primis incorporati nella selezione della porzione di mondo e poi dei fenomeni che si vuole attenzionare; poi nella eventuale elaborazione di tutte le procedure che concorreranno alla loro produzione; poi alla traduzione in dati e la raccolta dei medesimi; sono poi incorporati alla loro composizione in un disegno coerente e organico, infine all'elaborazione del discorso atto a mostrare tale coerenza e le implicazioni che porta (sia in termini di individuazione di cause che in quelli di proiezioni di conseguenze). Lungi da me mettere in discussione che il discorso scientifico abbia cercato di produrre una metodologia che sia il più possibile epurata da quanto di grossolanamente soggettivo. Ma bastano i rudimenti di filosofia teoretica per capire che, sgrossato di ciò, quanto resta non è oggettivo, e che il dato è sempre “dato-a-qualcuno”, cioè sempre intrecciato nella trama culturale di pratiche che ci costituiscono in quanto soggetti.

Certo, poi possiamo discutere del fatto che resti statisticamente più sicuro affidarsi a un tentativo di lettura metodologico dell'esperienza piuttosto che a suggestioni oniriche, ma guardandosi però poi bene dal correre frettolosi e giubilanti a incatenarsi nella caverna dove danzano le ombre del mito della scienza oggettiva.




Eppure, questa innocenza epistemologica, che fa della scienza un mito e dell'affidarvisi una fede, è uno dei punti più delicati che aleggia nella cultura di massa da quasi un lustro.

Bene, con questa mossa, l'amministrazione ha rovesciato il tavolo ben oltre le proprie intenzioni.

Certo: che le ricerche siano sempre commissionate da, o compiute da, o in collaborazione con un ente che risponde a interessi elaborati a partire da una dimensione privata, e che ha tutto l'interesse a confermare la prospettiva da cui muove la richiesta di informazioni, è il segreto di Pulcinella ormai conosciuto anche dal più comune profilo-utente sui social. E questo è tanto più vero in un mondo, come il nostro, dove ogni ricerca – pubblica, privata, accademica, industriale – è motivata innanzitutto da un'esigenza di fatturazione economica, di sviluppo di prodotti che garantiscano da un lato un profitto il più possibile immediato, dall'altro, conseguenza e causa del primo, il mantenimento di uno status quo della distribuzione del potere: da qui il bias che conferma le prospettive da cui si parte, giacché, condurre ricerche che le modifichino, vorrebbe dire interrompere una catena di produzione del valore e sospendere il profitto, con costi di investimento che nessuna economia capitalistica di profitto è disposta a sostenere, ma, soprattutto, vorrebbe dire esporsi alla possibilità di una perdita di egemonia.

Insomma: chi, per campare, ti deve vendere qualcosa, ti porterà sempre le prove del tuo bisogno di averla.

Ma quanto emerge in questa vicenda, è qualcosa che va ben oltre la semplice diatriba su chi commissioni quali ricerche, su chi abbia più o meno interesse riguardo certi dati.

Qualcuno potrebbe anche plaudire la rivendicazione dell'amministrazione, in quanto rivendicazione di una sovranità; sì, però, non è una rivendicazione di sovranità decisionale e politica (cioè – schmittianamente – una decisione, presa in autonomia, di quali siano le urgenze esistenziali cui si vuole rispondere con le proprie azioni e le proprie scelte), ma una rivendicazione di sovranità informativa, dal momento che non contesta appunto la scelta di quale urgenza esistenziale sia da porre a tema, ma quella di chi detenga la titolarità per condizionare il discorso con la produzione di dati, contestando che, detenere un interesse nel diffondere certe informazioni, contrasti con la rivendicazione della loro attendibilità.




Se la sovranità informativa è minacciata dalla produzione molteplice di informazioni, la quale si ritiene potrebbe trarre in inganno perché, confezionate come ricerche basate su dati – in linea quindi con l'ordine del discorso scientifico – dissimulerebbero così la parte cui rispondono e gli interessi che ne avrebbero mosso la commissione, svelare e porre a tema questa minaccia pone proprio in evidenza che il dato proviene sempre da una parte, e che la fattura scientifica del confezionamento del discorso (la ricerca, i dati, etc.) non è altro, in fondo, che un confezionamento, non nel senso di una truffa, ma di essere un artefatto umano, e non il calco trovato in qualche arcano libro del mondo. Svela così al discorso pubblico che l'informazione datuale, fattuale, la ricerca scientifica, che è – di fatto – l'unico ambito che da tempo immemore si riteneva non soggetto a superstizione, non soggetto a mito, demitizzato, non è tale; e questa rivelazione è tanto più consistente in quanto proviene da una voce di un coro in mezzo al quale non è mai parsa come eversiva rispetto al discorso egemone, all'agenda politica globale.

Vi è una necessaria diffidenza genealogica rispetto al mondo dei dati e delle informazioni scientifiche, perché anche nel mondo dei dati esistono sempre le parti in conflitto.




E invece, che la scienza fosse un ambito dell'autoevidenza oggettiva e autoponentesi, è – o “era”, magari anche grazie alla mossa dello scandalo – uno degli ultimi miti, proprio in senso girardiano, che fa da architrave della società e del suo articolarsi contemporaneo. Un mito in quanto fondante un ambito del sacro, dell'indiscusso, su cui fondare un ordine grazie alle correlative vittime di fondazione.

E perché questo svelamento ci potrebbe stare più a cuore di altri cui potremmo aver assistito? Proprio perché proviene da chi ha sempre fatto parte di quel mondo pronto a scegliere e immolare vittime, previa loro stigmatizzazione mediatica, per inaugurare un altro radioso avvenire della differenza romantica. Proprio perché, questa volta, le circostanze avevano finito per spingere nel ruolo del capro uno degli officianti, con sufficiente potere mediatico e politico da rendere quanto meno plausibile che fosse legittimo difendersi, che non fosse delegittimabile a priori la sua dichiarazione che svela, involontariamente, il meccanismo del capro.

Abbiamo avuto quindi in dono questa mossa dello scandalo: per salvarsi dall'immolazione, rivelare lo stesso meccanismo sacrificale su cui ha sempre poggiato il potere cui si è partecipe e che si vuole continuare a conservare.

Ovviamente, grazie anche a questo palesamento, lungi da noi, si spera, voler acquistare la nuova aggiornata edizione della rubrica della titolarità.

«Grazie, non compro niente», «I would prefer not to».


P.s., a titolo di precisazione terminologica: con l'etichetta mossa dello scandalo, ci si vuole pertanto riferire a quelle situazioni in cui la denuncia dello scandalo altrui e il correlativo desiderio di essere modello (in questo caso, accusare di detenere un interesse dissimulato dietro la volontà di detenere una autorevolezza informativa) rivela il proprio scandalo, il proprio desiderio di essere modello (detenere una posizione di potere vincolata al monopolio informativo, che vengono entrambi minacciati dal desiderio altrui).




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