di Michele Gallone
Una delle più interessanti intuizioni psicologiche di Renè Girard riguarda la teoria del cosiddetto desiderio metafisico. Si tratta del volto assunto dall’invidia umana nel momento in cui essa raggiunge livelli talmente esasperati da sconfinare nella follia. Questo punto fa parte di una linea di pensiero che accomuna Girard ad altri autori francesi, quali ad esempio Sartre e Lacan, a partire dalla comune influenza esercitata in quegli anni da A. Kojève e dalla sua lettura dei testi di Hegel. Senza entrare in troppi dettagli, potremmo dire che l’idea verso cui tendono questi autori è che l’uomo, in quanto essere desiderante, sia lacerato da una intrinseca contraddizione metafisica. Cosa significa? Il soggetto umano è abitato dalla mancanza: egli desidera, vale a dire che non ha. Ma questa mancanza, il vuoto da cui scaturisce il desiderio, non si appaga mai veramente di oggetti, di semplici-presenze tangibili, perché il desiderio si distingue dal bisogno. L’uomo, in quanto animale immerso nel linguaggio, è un movimento di negazione del dato, di trascendenza, di torsione paradossale rispetto alla neutralità compatta della realtà. Questo movimento è il miracolo, o la malattia se vogliamo, la ferita che il soggetto umano apre nella natura. Il desiderio, se così possiamo dire, è come il sangue che sgorga da questa ferita.
E cosa vuole il desiderio umano? Esso si soddisfa solo incontrando quello stesso vuoto intangibile e asimmetrico rispetto all’ordine delle cose: il desiderio stesso, ossia l’altro desiderio, il desiderio dell’Altro. Tutti lo possiamo constatare senza difficoltà: si desidera sempre essere desiderati, amati, riconosciuti. Non si desidera un corpo in sé, ma quel corpo in quanto animato e attraversato da un desiderio, da una libera volontà (qui ci sarebbero delle riflessioni interessanti a proposito del sadismo e del masochismo, ma non è questa la sede). Oppure, come hanno sottolineato Kojève, Lacan e Girard, si desidera l’oggetto del desiderio dell’altro, vale a dire che si imita l’altro, l’oggetto ambito è solo il perno di rispecchiamento con il simile. Desidero ciò che è desiderato, o posseduto (che in questa ottica è la stessa cosa) dagli altri. In altre parole, desidero essere come l’Altro: il desiderio non desidera oggetti, desidera l’essere in quanto tale. Essere prelevando dall’Altro le sembianze e gli abiti che mi diano finalmente una consistenza ontologica. Ecco perché Sartre parlava di mancanza d’essere, e Lacan definiva il desiderio, in quanto perpetuo slittamento insoddisfatto, metonimia della mancanza-a-essere.
La contraddizione, se vogliamo, sta nella differenza ontologica di cui parlano i filosofi: l’essere è diverso dall’ente, il fatto in sé dell’esistenza non si riduce alle cose in quanto presenze fisiche del mondo, ma ne è lo sfondo impalpabile, l’orizzonte sempre dato implicitamente e indirettamente. Così accade per il desiderio rispetto agli oggetti. Il desiderio si aliena, si tradisce, si maschera, si degrada nell’ordine del tangibile: si appaga e si manifesta solo nel “tradimento”, perché in sé è un puro vuoto, un puro rimando metonimico. Potremmo dire che, così come per Heidegger la malattia del pensiero occidentale (la metafisica, e da essa il dominio della tecnica), è stato l’aver confuso l’essere con gli enti (oggetti misurabili, tangibili, manipolabili, strumentali), analogamente vediamo oggi le difficoltà del soggetto odierno rispetto al desiderio: cercare ostinatamente di otturare la mancanza usando oggetti di consumo e di godimento effimeri (gli “oggetti-gadget”, diceva Lacan), come gli smartphone, le droghe, l’alcol, gli psicofarmaci, e così via. Ma l’oggetto statuario che dovrebbe otturare ed esorcizzare la mancanza, è in fondo anche il soggetto stesso: essere, incarnare un’immagine compiuta, una pienezza narcisistica risolutiva. Si situa qui, se volessimo azzardare un’ipotesi psicologica, la dimensione ostinata del selfie, dell’istantanea come risposta alla fantasia di rintracciare una fissità, un’identità intrinseca da esibire alla sanzione dello sguardo dell’Altro. Il che ci riporta al desiderio metafisico. Rivolgiamoci a due film contemporanei che illustrano questa dimensione tragica del desiderio umano.
Si prenda Reality (2012), di Matteo Garrone. La pellicola racconta le peripezie di Luciano, un uomo di umili condizioni che diventa ossessionato dall’idea di entrare in un reality show televisivo. Particolarmente interessante è il ruolo rivestito dal primo quarto d’ora del film. A un matrimonio cui il protagonista e la sua famiglia sono invitati, presenzia per un saluto l’acclamato ex vincitore del Grande Fratello (Enzo). In quel momento Luciano, che è un po’ il clown di famiglia, è travestito in modo buffo per dare un po’ di spettacolo coi parenti, i quali, ridendo, gli ripetono che dovrebbe andare in televisione. Quando Enzo si reca al matrimonio successivo, Luciano lo segue per fare una foto alla figlia piccola insieme al vip. La macchina da presa indugia con insistenza sul volto di Luciano, che, come rapito e ipnotizzato, osserva Enzo acclamato al matrimonio successivo, per poi librarsi in elicottero e allontanarsi chissà dove. La storia prende poi avvio su presupposti apparentemente sconnessi: Luciano si ritrova “per caso” a fare un provino per il Grande Fratello, al semplice scopo di accontentare i figli (così come aveva seguito Enzo solo per accontentare la figlia). Sembra non abbia il minimo interesse per la situazione, vissuta come un semplice gioco (ma è proprio Enzo, lì presente, a consentirgli di fare il provino). Più avanti Luciano inizierà a nutrire la speranza di entrare davvero nel reality show-paradiso, finendo in preda a una sorta di delirio persecutorio (il desiderio diventa metafisico). Luciano diventa schiavo del desiderio d’essere per mediazione dell’Altro e del suo sguardo. Come insegna Girard, il meccanismo mimetico del desiderio tende sempre a essere minimizzato e misconosciuto: tutto accade o per caso o per libera scelta del soggetto, tutto scivola magicamente sul registro di quella che Sartre chiamava malafede. E la malafede è esattamente il trucco che ci fa illudere di essere e non essere, ci permette di “giocare” con l’ontologia. Se ci pensiamo, è come se, benché questo non trapeli troppo (e non deve trapelare, si deve restare nella malafede, nella menzogna romantica), tutta la vicenda di Luciano fosse in fondo innestata da quei brevi sguardi indugianti su un modello che poi, apparentemente, scompare, salvo riapparire in un paio di situazioni, con un ruolo innocuo.
Per illustrare la dimensione mimetico-invidiosa del desiderio, Kojève e Lacan fanno riferimento alla dialettica servo-padrone di Hegel. Il desiderio di riconoscimento porta gli uomini a intraprendere una “lotta di puro prestigio” per l’attestazione del proprio essere. Chi si afferma nella lotta è il “padrone”, chi soccombe è il “servo”. In termini girardiani, il servo è il discepolo, il padrone è il modello, cioè l’immagine speculare ideale. Temendo la morte, il servo ha rinunciato a farsi riconoscere, e quindi è alla mercé del padrone, dipende da lui: ha tradito il proprio desiderio (è questo il senso profondo della nevrosi per Lacan). Il padrone, d’altro canto, si è imposto su qualcuno che lui stesso non riconosce più, in quanto servo pavido, perciò il suo desiderio non è appagato. Diciamo che, annoiato, egli dovrà slittare di servo in servo senza mai trovare una conferma soddisfacente del proprio essere. Da qui nascono le impasse dei rapporti umani, da qui scaturiscono la violenza e la follia. La filosofia e la psicoanalisi ci portano a vedere nella follia non un disordine psico-fisiologico, ma un malessere ontologico ed esistenziale.
Asservire e annientare l’altro, abbiamo visto, è inutile, così come, per esempio, è insensato costringere l’altro a offrirsi sessualmente: noi puntiamo all’atto libero, all’enigmaticità velata e ingovernabile del desiderio dell’Altro, non possiamo appagarci di una costrizione (si sa che coloro che compiono atti di violenza sessuale sono animati dall’intima fantasia che la vittima, sotto sotto, desideri davvero subire violenza). Se il servo è fuori uso per definizione, non mi resta che l’ultimo gesto, eroico e disperato: annientare me stesso. Il vero padrone è colui che va incontro alla morte per farsi attestare nel proprio essere dall’Altro. Questa disponibilità “metafisica” al suicidio è, se ci pensiamo, il punto più estremo della torsione, dell’inciampo che la soggettività umana è rispetto alla natura: protendersi all’essere al punto da sovvertire l’ordine automatico della vita biologica. Uccidersi per un nulla, un significante. È esattamente ciò che accade al protagonista di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu. Ex-star del cinema, Riggan Thomson ha toccato l’apice del successo e della fama, ma vorrebbe rifondare sé stesso, il proprio essere, in un altro modo: non è come interprete di blockbuster hollywoodiani che vuole essere riconosciuto, ma come un artista di livello, come attore e regista teatrale. Non si tratta solo di riconquistare il successo, ma di farlo secondo il proprio ideale, di «imporre l’idea che si fa di sé stesso ad altri da sé»[1]. Sarà infine a un plateale atto suicida che questo lo porterà, il solo modo di poter essere: scomparire in modo spettacolare. Il tentativo fallisce. Eppure, ora tutto il mondo sa, tutto il mondo ha avuto la prova estrema del rischio: Riggan può essere finalmente il padrone, il Signore? Ironicamente, è proprio uno specchio a disilluderlo: il proiettile con cui ha tentato il suicidio gli ha distrutto il naso, e l’intervento chirurgico per ricomporlo gli ha imposto un naso non solo deforme, ma incredibilmente simile a quello di Birdman, il suo storico personaggio hollywoodiano di cui ha tentato di liberarsi e che nel corso del film ritorna in forma allucinatoria con le fattezze di un vero e proprio Super-io sadico-persecutorio portavoce del lacaniano discorso del capitalista (“Torna ai vecchi tempi, fai i soldi anziché fare l’intellettuale, godi!”, gli ordina in sostanza). Del resto, come dice Lacan, per gli uomini «sfortuna vuole che sia dalla punta del loro naso che comincia il loro mondo […]. Ma appena individuato questo naso, se ne innamorano»[2], e poi lo odiano: l’immagine fatalmente si inceppa.
C’è una curiosa simmetria tra Reality e Birdman: Luciano somiglia più al servo, Riggan al signore che sente lo scacco della propria posizione. Alla fine, le loro situazioni coincidono, a partire dalla condivisa prossimità alla follia, intesa come risultato estremizzato dell’impasse logica del desiderio umano. Vi sono tutte le ragioni per supporre che il mondo contemporaneo contenga un’esasperazione di questa impasse. È in atto una profonda crisi delle differenze, delle grandi narrazioni, della Legge paterna, cioè di tutti gli elementi che allontanano simbolicamente i soggetti arginando le pulsioni invidiose. Questo è un altro insegnamento della psicoanalisi: è la distanza simbolica a curare e conservare i rapporti umani, non l’immedesimazione, l’empatia che oggi va tanto di moda. Incontrare l’altro nella forma dell’identificazione, del “mettersi nei panni”, significa non incontrarlo mai per davvero in quanto Altro, eteros, differenza. In questo senso, la mitizzazione dell’empatia è l’altra faccia del risentimento.
[1] A. Kojève, A guisa di introduzione, in Id., Introduzione alla lettura di Hegel (1947), ed. it. a cura di G. F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, 2010, cit. p. 25
[2] J. Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, in Id., Scritti (1966), vol. I, trad. it. di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, vol. I, cit. p. 419
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