di Simone Berno
Introduzione
«Ciò che si è cercato di analizzare qui non è un racconto tra i tanti ma la matrice di tutti i racconti possibili» (1). Con queste parole Carlo Ginzburg chiude il suo magnifico saggio Storia Notturna. Una decifrazione del sabba. Quanto vorrei sostenere è che il fascino e il coinvolgimento che suscita un racconto come quello di Polar Express dipendono dall'appartenere a una variazione della stessa matrice illustrata e studiata da Ginzburg.
Nel seguente testo verrà trattata in particolare la pellicola cinematografica, che aggiunge personaggi e dinamiche non irrilevanti rispetto alla trama del testo originale, senza che questo ne venga stravolto, bensì esteso, ma – a nostro parere – seguendo comunque le implicazioni che il racconto originale pur consente. Il film risulta pertanto ancora più denso e significativo, conducendo lo spettatore lungo un viaggio nel quale l'agnizione finale si carica in maniera esplicita di tutto il suo portato esistenziale.
Le fiabe, le storie notturne e l'arte del racconto
Molti ricorderanno come già Propp abbia sostenuto che la struttura delle fiabe da lui classificate come racconti di magia abbia una ben definita radice storica e che le loro trame rechino traccia di istituzioni culturali precise: i riti di iniziazione (2). Le fiabe sarebbero infatti il racconto del superamento di alcune prove, grazie al quale avviene il passaggio da uno status sociale a un altro. Da questo passaggio dipende non solo la sorte della persona coinvolta ma quella di tutta la comunità, che proprio grazie a tutto questo si rinnova e vivifica.
Il saggio di Ginzburg è un'indagine sull'immaginario legato al sabba, il raduno notturno delle streghe, e su come esso abbia preso forma riunendo elementi attinti da diverse tradizioni culturali. A conclusione del saggio, l'autore si occupa della fiaba di Cenerentola, sostenendo come le dinamiche di questo racconto e gli elementi che caratterizzano i personaggi risalgano a un paradigma cultuale dalla funzione ben precisa e che ha a che fare con i cicli stagionali: garantire la rinascita della vita. In tale paradigma, questo rifiorire può avvenire grazie all'impresa di alcuni personaggi che sono in grado di viaggiare tra il mondo dei vivi e quello dei morti, e sono in grado di impedire che quest'ultimo dilaghi e prenda possesso del regno dei vivi, irrigidendolo nel freddo del gelo invernale. Ma – e questo è per noi qui importante – nessuno chiude o deve chiudere quel passaggio una volta per tutte, anzi: quel passaggio, che permane comunque a prescindere dalla volontà, deve solo essere affrontato e gestito da persone iniziate a tale compito.
Nel corso del suo studio Ginzburg dedica spazio anche alle ritualità invernali che hanno caratterizzato per millenni le culture umane, mettendo in luce come i loro elementi e la loro funzione concorrano a generare la matrice da cui l'immaginario del sabba è venuto in seguito a formarsi. Già in un testo precedente (3) Ginzburg aveva condotto una ricerca sulla figura dei Beneandanti, persone “nate con la camicia”, e per questo destinate ritualmente, durante estasi notturne, a recarsi in volo a combattere contro streghe e stregoni per la fertilità dei campi e il benessere della collettività. L'origine del volo notturno delle streghe sarebbe quindi da ricondurre a quello che questi personaggi, mutando la propria forma in quella di un animale o in spirito a bordo di nuvole di fumo, o ancora poi di oggetti magici, compiono all'inizio dell'impresa rituale con cui garantire la sopravvivenza della propria comunità.
Ma c'è un punto fondamentale che emerge nelle righe immediatamente precedenti la citazione posta in apertura di questo nostro contributo, e riguarda la capacità di raccontare e la stessa funzione del racconto: «Certa è invece la somiglianza profonda che lega i miti poi confluiti nel sabba. Tutti rielaborano un tema comune: andare nell'aldilà, tornare dall'aldilà. Questo nucleo narrativo elementare ha accompagnato l'umanità per millenni. Le innumerevoli variazioni introdotte da società diversissime, basate sulla caccia, l'allevamento, l'agricoltura, non ne hanno modificato la struttura di fondo. Perché questa permanenza? La risposta è forse semplicissima. Raccontare significa parlare qui e ora con un'autorità che deriva dall'essere stati (letteralmente o metaforicamente) là e allora. Nella partecipazione al mondo dei vivi e a quello dei mori, alla sfera del visibile e a quella dell'invisibile, abbiamo già riconosciuto un tratto distintivo della specie umana» (4). L'esperienza che conferisce la facoltà e l'autorevolezza per raccontare è pertanto proprio la capacità di andare nell'aldilà e tornare da esso. È proprio perché si è stati là, si è visto e si è tornati, che ora si possiede l'arte del racconto, e questo raccontare diviene la funzione che collega ordinatamente i due mondi.
Non si tratta infatti di un collegamento caotico e dal fluire indistinto attraverso la soglia: a partire sì da questo ponte, che garantisce che l'altro mondo elargisca, faccia dono della possibilità della vita per questo mondo – si potrebbe dire: la possibilità della primaria differenza esistenziale –, ma organizzandone le norme per il passaggio, il nostro mondo può essere reso abitabile e fertile. L'organizzazione passa quindi attraverso delle regole, delle forme e delle soglie che solo individui iniziati possono eventualmente violare nell'impresa rituale compiuta a nome e per tutta la comunità, per garantirne in realtà il successivo ripristino, dopo che queste sono state infine vivificate da quell'esperienza eccezionale dello sconfinamento; e tali individui poi le tramanderanno tanto mediante la costituzione della propria identità quanto di quella della comunità stessa. La prima forma di questa organizzazione del passaggio e poi di trasmissione è quindi proprio il racconto, tramandare mediante la pratica narrativa.
L'arte del racconto, l'arte della parola viva di colui che ha visto, è la capacità con cui si dà forma al mondo, con cui si dà vita a forme in grado di generare per sé e per gli altri. Tramandare è dare forma facendo transitare e transitando assieme.
Ecco, in un racconto come Polar Express, a suo modo, c'è tutto questo, a cominciare dal volo notturno a bordo dell'oggetto magico.
Un viaggio compiuto dall'alba dei tempi
Il protagonista di Polar Express rientra nel novero di tali figure liminali, custodi del passaggio, custodi della tradizione e iniziatori a essa attraverso l'arte del racconto, loro officio magistrale: il protagonista è infatti la voce narrante.
Ma prima occorre aggiungere alcune indicazioni a maggior chiarezza degli elementi contestuali intrecciati in una fiaba come questa.
In testi come il già citato Storia Notturna di Ginzburg, Babbo Natale suppliziato di Lévi-Strauss (5) e Tre variazioni romane sul tema delle origini di Brelich (6), è facile trovare argomenti in grado di mostrare le analogie e le continuità tra le ritualità stagionali che mettevano in scena regolate e funzionali crisi di indifferenziazione (una su tutte: i Saturnali) e le ritualità che accompagnano le festività natalizie (riguardo le fondamentali discontinuità ne abbiamo parlato qui); il periodo dell'anno è quello delle giornate più corte, del dilagare dell'oscurità sulle terre a scapito della luce del Sole, fenomeno da sempre vissuto come metonimia del rapporto tra la vita e la morte e, quindi, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Un elemento centrale messo in luce dal testo di Lévi-Strauss, fonte bibliografica imprescindibile e dichiarata da parte di Ginzburg, è il ruolo del dono ai bambini: l'antropologo francese afferma che tali doni, offerti ai bambini durante la questua natalizia così come nelle altre questue ricorrenti nella stagione di discesa del Sole, sono loro offerti in quanto categoria sociale non ancora iniziata alla società e pertanto ancora a cavallo tra i due mondi: il dono sarebbe quindi un'offerta al mondo dei morti come scambio affinché il loro dilagare sia contenuto, sia garantito il ritorno della luce e, con essa, del risorgere della vita (7).
Il tema natalizio del racconto non è quindi accessorio per le dinamiche della vicenda, anzi: ne è, si potrebbe dire, consustanziale. Pensiamo si potrebbe infatti sostenere che, se le fiabe di magia trattano dei rituali di iniziazione, quelle ambientate nel periodo natalizio aggiungano la specificità iniziatica che riguarda il rapporto tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti: la possibilità che individui iniziati ne garantiscano l'equilibrio, assicurando così la vita per l'intera comunità e la sopravvivenza al rischio stagionale, al ritmo universale del rapporto tra vita e morte. Si potrebbe allora infine affermare che le fiabe ambientate nel periodo natalizio siano la quintessenza della fiaba stessa e riassumano davvero i racconti più antichi del mondo, la primigenia storia esistenziale.
Vediamo allora che Polar Express ha per protagonista un bambino, il quale non viene solo fatto oggetto di quel dono propiziatorio, anzi: viene messo a conoscenza proprio attraverso un viaggio di iniziazione delle relazioni che sorreggono, attraverso la credenza e la trasmissione, la costituzione dell'identità, tanto quella personale quanto quella collettiva; questa agnizione è parte del percorso di iniziazione cui viene posto innanzi, e che dovrà scegliere se compiere, tanto per sé quanto per gli altri. Tutte le situazione in cui il protagonista si trova nel film pongono la centralità dello scegliere di esserci per gli altri, dell'affrontare anche le difficoltà per gli altri, come cifra di una relazione reciprocamente donativa, come condizione per il superamento comune delle prove e per l'attraversamento salvifico del tortuoso percorso della vita.
Polar Express racconta quindi il viaggio di iniziazione di un personaggio che sembra assolvere alla stessa funzione delle figure descritte da Ginzburg, delle quali il ruolo cultuale e culturale è quello di essere un ponte, di custodire e consentire in maniera regolata il passaggio tra i mondi, di garantire la possibilità di ripristino dell'ordine nei momenti in cui hanno luogo dinamiche di indistinzione tra i regni – quello dei vivi e dell'ordine, quello dei morti e del disordine – una crisi di indifferenziazione in cui viene meno la prima differenza esistenziale; e questo tanto che tali momenti di indistinzione siano estemporanei, dovuti cioè alle dinamiche della comunità, quanto che essi siano invece rituali e messi in atto in maniera comunque regolata, con la funzione di garantirne il loro stesso superamento e la conseguente vivificazione di un ordine che verrà così ripristinato.
Non vogliamo certo equivalere il superamento della crisi attraverso il meccanismo del capro espiatorio al superamento attraverso una sua risoluzione non scandalosa, né quindi equivalere le due possibili direzioni che può prendere questo essere un ponte, e cercheremo infatti di concentrarci sugli aspetti che delineano la seconda delle due possibilità. Per il momento ci limitiamo a dire che parte di ciò che rende tali figure delle vie di comunicazione, ponti tra i mondi, è la consapevolezza in loro sempre viva non solo della possibilità di crisi, ma anche del fatto che tale ripristino vivificato potrà avvenire solo dal superamento (anche soprattutto rituale) delle crisi; questo si traduce nella consapevolezza quindi del necessario rapporto che il senso intrattiene con un aldilà dell'ordine attualizzato, da cui trae l'energia per rimanere un ordine fertile, certo senza irrigidirsi in una ferrea e gelida fissità, ma senza lasciare che quell'aldilà dilaghi smembrando qualsiasi forma, facendo perdere qualsiasi consistenza alla vita e rendendola spettrale evanescenza; e tale consapevolezza è infine testimoniata dalla loro capacità di rievocare ma di tenere appunto a bada la crisi in un modo ben preciso: narrativamente.
I personaggi e la funzione: i quattro e l'eroe
Per cominciare a illustrare alcuni degli elementi che a nostro parere giustificano questa possibilità d'interpretazione del racconto Polar Express, riteniamo opportuno partire dalla suggestiva soluzione adottata per la distribuzione dei ruoli agli attori. Non sappiamo se la scelta sia dipesa da motivi di budget, se sia stata invece meditata attorno a un preciso intento simbolico, o se abbia in essa agito l'inconscio archetipico, ma essa risulta ad ogni modo assai suggestiva nell'evocare la presenza di quanto abbiamo fino a qui illustrato. Ci riferiamo ovviamente alla scelta di assegnare allo stesso attore, e quindi allo stesso doppiatore, più ruoli: innanzitutto quello del controllore e quello del vagabondo, aiutanti magici e già per questo presunte figure appartenenti al mondo dei morti (benché tale caratteristica sia resa ancor più esplicita dalla seconda di queste due), ma anche il ruolo di Babbo Natale, re di tale mondo, anche seguendo appunto la suggestione di Lévi-Strauss (8).
La continuità interpretativa tra questi personaggi suggerisce il loro appartenere alla stessa funzione culturale e cultuale, dispiegata nelle proprie diverse soglie e attualizzazioni attraverso la diversa caratterizzazione delle tre figure: tale funzione è proprio quella di indicare e rendere possibile il collegamento tra i mondi (il capotreno), anche mediante funzionali prove-ostacolo (il vagabondo), nonché di reggere per primi l'esistenza stessa di quella differenza tra i regni (Babbo Natale). Non è allora privo di significato che il quarto personaggio di questo gruppo interpretato dallo stesso attore sia infine il padre del protagonista, colui che ci sembra di poter immaginare, grazie al cappello-segnale presente nella prima scena, che sia stato custode della facoltà che verrà poi ereditata dal protagonista: consentire il passaggio tra i mondi. Si noti che, se usiamo il passato per riferirci al padre, non è un caso: per lui ormai la campanella è silente.
Questo particolare della relazione tra generazioni ci permette di affermare adesso in maniera ancora più netta una cosa non irrilevante: questa facoltà ha a che fare con la trasmissione, che è tradizione in maniera consustanziale. La capacità di tramandare, portare attraverso e consegnare, è funzione qui assunta in maniera esemplare proprio dalla pratica del racconto: raccontare è saper viaggiare tra i mondi, portare qui attraverso la capacità narrativa la scintilla in grado di rendere vivo e fertile questo mondo, e organizzare la generatività secondo assi spazio-temporali e valoriali. Polar Express inizia infatti proprio con la voce narrante dello stesso protagonista, ora adulto, che, seguendo la nostra interpretazione, narra come sia avvenuto il suo viaggio di iniziazione, acquisendo quindi la sua capacità narrativa e il suo ruolo, cui ora inizia gli ascoltatori mediante il gesto con cui comincia a tramandarli a loro.
Un elemento ulteriore che permette di portare altra luce sulla figura del protagonista è il fatto che questi non abbia nome, e riteniamo che sia così per due ragioni sì distinte ma continue: quando inizia la vicenda, è ancora figura liminale tra il mondo dei vivi e quello dei morti, figura non ancora iniziata; divenuto adulto, questa liminalità rimarrà, mutando però il proprio statuto assumendo la funziona esplicita e consapevole di ponte. È proprio perché la sua identità è quella di una funzione cultuale che noi continuiamo a non sapere il nome dell'eroe, anche ora che è divenuto adulto: egli non è singolarità senza essere anche funzione universale e universalizzante, divenendo con ciò anche figura mitica, il cui nome reale si perde nel nome della funzione che viene ad assumere per la comunità: l'eroe, prima; il narratore, poi.
Ma il carattere iniziatico ed esistenziale della fiaba emerge anche dal coro dei protagonisti, che concorrono in maniera necessaria a dipingere il quadro che ci viene offerto. È allora opportuno esaminare una di queste figure già presentate e alcuni degli elementi attraverso i quali emergerebbe distintamente quanto fino a qui proposto.
Lo spirito del vagabondo e il biglietto
La prima interazione del protagonista con lo spirito del vagabondo ha sì i tratti della didascalicità ma la densità di un trattato o, meglio, di un rito, affidata tanto alle sue parole quanto ai suoi gesti. Ogni sua comparsa sarà in seguito sempre all'insegna di un'agnizione offerta allo spettatore come solo i personaggi che costituiscono il doppio del protagonista possono fare, anche quando – o a maggior ragione – sono come qui un doppio che tende all'impersonale e a suo modo all'universale. Il primo dialogo che intrattiene con l'eroe, che giunge a interrompere una solitaria, un po' stirata ma attenta e partecipata – e, forse per tutti questi motivi, malinconica – esecuzione del brano tradizionale Good King Venceslas, è tanto chiaro quanto coinvolgente: tra le prime frasi pronunciate dallo spirito del vagabondo, sentiamo dirgli, dopo aver esaminato con attenzione e quasi ammirazione il biglietto: “io non ci faccio tanto con quei biglietti, no: io viaggio a sbafo! Ah, sì, sì! Salto sopra questa ferraglia tutte le volte che mi gira. È mio 'sto treno! Io sono il re di questo treno, già: il re del PolEx, anzi: io sono il re di tutto il Polo Nord!”. Il lato in ombra di questa affermazione, scandalosa perché scandalizzata, brandita con l'orgoglio nato da un risentimento, è ciò che da essa viene di lui rivelato: egli è la figura spettrale che è rimasta incastrata tra i mondi. È vero: può andare avanti indietro quando vuole, ma solo rimanendo sulla soglia di entrambi, rimanendo lungo il tragitto – sul treno – e producendo infatti un andare e un tornare che non portano da nessuna parte, che non lo vedono mai scendere, né nel mondo dei vivi, né nel regno di Babbo Natale.
Ma cosa potrebbe aver provocato questa sua condizione? Ecco allora, a partire proprio dal taglio del dialogo che egli propone all'eroe, farsi strada la suggestione che non sia (stato) in grado di tornare perché il realtà non è (stato) in grado di andare. Lo sentiamo infatti così descrivere l'atteggiamento del protagonista: «..ma non vuoi essere fatto fesso, […] non vuoi farti portare in giro, nemmeno in treno».
Ma è giusto chiarire le implicazioni di questa capacità di andare, che riteniamo emergano con sufficiente chiarezza proprio dal dialogo: andare vuol dire innanzitutto essere in grado di credere che si stia andando e accettare di andare, poi riuscire a scendere dal treno (come vediamo infatti non riuscire a fare il piccolo Billy, se non con l'intervento degli amici), riuscire in seguito a vedere, a credere a ciò che si vede e poi portare indietro qualcosa, imparare qualcosa. Il fatto che il vagabondo non abbia il biglietto è allora indicativo proprio per la natura che tale oggetto assolve nel racconto: non solo egli non ha con sé l'autorizzazione in quanto attestazione della possibilità di essere iniziato al viaggio, alla prova mediante la quale ascriversi la funzione di ponte che potrà rivestire per sé e per la comunità, ma non ha nemmeno quindi quanto i bambini recano con sé al momento del ritorno: il segno della prova superata, il segno della nuova identità iscritta nella persona che si è diventati; e che tale segno rechi a partire da quel momento una parola scritta, rinvia a nostro parere – e lo sottolineiamo ancora una volta – proprio a quella capacità primigenia di costruzione del mondo per sé e per gli altri attraverso il linguaggio: la parola è infatti la traccia a partire dalla quale poter costruire la possibilità di un mondo, innanzitutto raccontando a sé e agli altri la propria storia e la propria identità.
Che il vagabondo non abbia questo biglietto pur essendo un passeggero del treno, è quindi a nostro parere l'ombra di come a suo tempo si svolse il suo viaggio di iniziazione: la sua identità non uscì del tutto formata attraverso quel rito di passaggio, poiché non fu in grado di portarlo a compimento; la sua persona non poté quindi agglutinarsi in maniera compiuta: egli infatti ha ora la consistenza della nebbia, del vento che soffia, carico di una neve che disperde; si addensa nel momento della paura, della difficoltà; può anche certo venir trasformato, appunto, in aiuto, quando si è spinti dalla forza e dalla determinazione nell'affrontare e superare la difficoltà, ma si dissolve non appena si è passati oltre. La sua esistenza è così sospesa, come un iniziato che non ha compiuto fino a fondo il percorso, interrotto magari dall'orgoglio, oppure da una cattiva auto-iniziazione (suggestione dovuta alla sua stessa affermazione di essere lui il re del treno e di tutto il Polo Nord).
Incastrato per sempre senza possibilità di tornare, è assurto a figura che incarna la prova stessa, e che si pone quindi bifronte come aiutante od ostacolo per la prova che altri dovranno sostenere.
Lo spirito del vagabondo e lo scandalo
Ma ci sono altri particolari di questa sua prima apparizione che meritano di essere posti sotto la nostra attenzione.
Tra le prime azioni che compie, lo vediamo fare l'imitazione di Babbo Natale, un'imitazione dai tratti un po' grotteschi, sguaiati, e, in più, non di Babbo Natale in sé, ma delle sue riproduzioni meccaniche nelle vetrine dei grandi magazzini: un'imitazione meccanica di un artefatto che lo imita meccanicamente.
Difficile non ricordare qui allora quanto siamo andati analizzando nella nostra serie sulla comicità alla luce del pensiero di Girard, ed evidenziare come la riduzione a macchina (burattino, automa) dell'oggetto del comico risponda al processo di messa in scena del mimetismo che caratterizza il desiderio di tale oggetto al punto da renderlo, infatti, un automa; con tale messa in scena si tenta quindi di mostrarne l'impersonalità e il suo essere appunto abitato da forze che dispongono di lui fino a renderne forzati e goffi i movimenti che questi compie nel tentativo di realizzare il proprio desiderio, di conquistare, mosso dallo scandalo, l'agognata pienezza che caratterizza il modello. È allora necessario aggiungere come il gesto di derisione comica che passa attraverso l'imitazione risponda alla logica della ridicolizzazione di colui che costituisce il proprio modello del desiderio: attraverso quell'imitazione si tenta così di spezzarne l'incantesimo che dentro se stessi ne impone il mimetismo, mostrando come ciò che ne costituisce oggetto di imitazione da parte del desiderio altrui sia in realtà frutto nel modello stesso dell'essere a sua volta dipendente da forze che non padroneggia, ma che lo posseggono, che lo fanno muovere in maniera impersonale e meccanica; si tenta insomma di svelare così come egli non costituisca legittimamente un modello perché non è nemmeno padrone di sé, e pertanto non possiede pienezza ontologica, ma risulta, come tutti, un burattino mosso dai fili del desiderio mimetico.
Ricordati i termini della nostra analisi dell'imitazione come prassi comica, possiamo pertanto iniziare affermando che, dal momento che una delle sue prime azioni è quell'imitazione, in questa prima interazione con l'eroe il vagabondo sta segnalando quale sia il proprio scandalo.
Ma sono opportune alcune considerazioni, poiché tanto la natura del modello quanto il contesto offerto da questa storia e già in parte prima esposto e analizzato ci portano intorno a una declinazione particolare dei rapporti mimetici.
Cominciamo con il dire che lo statuto ontologico di cui gode Babbo Natale in quanto modello è di una tale alterità, che non rende concepibile l'idea di prenderne il posto, quanto meno considerando la psicologia possibile dei personaggi coinvolti; diciamo allora che la mediazione che qui più probabilmente si configura è quella esterna, quella cioè in cui il modello non è anche rivale e l'imitazione non può essere reciproca. Di fronte a un'alterità come quella di Babbo Natale, è allora molto più probabile che la mediazione interna si dia tra i soggetti discepoli di uno stesso modello, i quali, di fronte a tale alterità, si pongono come rivali tra loro, magari per chi vi somigli di più, oppure, come qui, per chi ne prenda maggiormente le distanze: i discorsi intorno all'essere «fatto fesso» chiariscono che la rivalità avviene qui nei termini dell'incredulità; o meglio: mediante l'incredulità competere per chi sia maggiormente padrone della verità, per chi sia meno incline ad essere «fatto fesso», secondo l'espressione usata appunto dallo stesso spirito del vagabondo.
Ecco allora che si fa strada l'ipotesi che lo scandalo probabilmente vissuto a suo tempo dal vagabondo, adulto-ragazzo-bambino rimasto incastrato tra i mondi, non sia stato quindi quello di aver desiderato prendere il posto di Babbo Natale, ma l'aver rifiutato di esserne allievo, preferendo competere tra i propri pari su chi fosse padrone della verità. L'imitazione irriverente con cui accoglie il protagonista è infatti passibile di una doppia letture: da un lato come la traccia di un risentimento cui non resta che tentare in quel modo di detronizzare il re, non per prenderne il posto ma per abbassarlo, riavvicinarlo rispetto alla distanza cui lo consegna la sua differenza; dall'altro lato, come la riproposizione della mediazione interna cui a suo tempo non riuscì a sottrarsi, e che ora ripropone verso l'eroe; il vagabondo suggerisce così a lui il proprio scandalo, tentando di rinforzare i dubbi del protagonista, e presentandogli come oggetto del desiderio l'idea di una verità denudata, svelata fino a mostrare la meccanica artificialità, come suggerito, infatti, dalla già discussa sfumatura dell'imitazione: l'imitazione di un robot dalle sembianze di Babbo Natale. Con questo egli si presenta all'eroe come detentore di tale verità – la verità che può possedere solo, appunto, in quanto re del Polo Nord – suggerendo quindi se stesso come modello di pienezza ontologica. È questa imitazione a svelarci il suo scandalo.
Ma qui emerge la sua funzione nel viaggio.
Lo spirito del vagabondo e la prova
Ecco che lo spirito, però, non si è limitato a suggerire e suscitare un desiderio: ha interpellato l'eroe, gli ha chiesto quale sia la sua posizione, e non si può a nostro parere non riconoscere in questa domanda un punto in cui la mediazione si rovescia, o, quanto meno, si apre; la domanda non è infatti una retorica richiesta di adesione, ma l'apertura di uno spazio perché l'eroe si esponga e, così, si ponga.
Questa domanda è quindi una parte fondamentale della prova perché apre all'eroe la possibilità della scelta; il vagabondo lo sottopone cioè a quello che fu a suo tempo il proprio punto di frizione, quello che bloccò la propria iniziazione: opporre il desiderio di non essere fatto fesso, che è una forma dell'orgoglio di chi vuole essere il modello, al desiderio di credere, che implica anche l'accettazione della posizione di discepolo richiesta da una mediazione a tal punto esterna. Attraverso la vicenda di questo personaggio dall'età indefinita, dal carattere indefinito e sospeso tra i mondi e le condizioni, l'orgoglio ci viene qui presentato come la scelta di trattenere, mantenere in sospensione una propria identità costituita attorno al desiderio di essere modello; questo in particolare in quanto si trattiene un sé al di qua, prima di ogni relazione, la quale implica credenza, fede, e lo si trattiene in quanto convinti che, rimanendo al di qua per non permettere che si sia fatti fessi, si padroneggerebbe così i propri desideri e, di conseguenza, il desiderio degli altri.
Ulteriori elementi per riconoscere il carattere della prova in Polar Express ci vengono offerti da una scena successiva a nostro parere altrettanto indicativa di quanto fino a qui affermato: quella che si svolge all'interno della carrozza dei giocattoli dimenticati e inutilizzati, «i derelitti e gli abbandonati», dei quali ci interessano in particolar modo i burattini.
Difficile non vedere i giochi inutilizzati sotto una duplice luce: innanzitutto vederli come il simulacro dei bambini che hanno smesso di credere– e la suggestione ci porta fino a pensare alle larvae dei rituali degli antichi romani –, dal momento che nel racconto smettere di credere è associato a una competizione mimetica tra chi possegga maggiormente la verità, competizione che, in virtù delle precedenti considerazioni, riduce ad automi abitati dal desiderio mimetico; in secondo luogo, in considerazione del loro essere riportati all'origine, è possibile vedere tali giocattoli come la parte rimanente, lasciata perdere, del loro spirito: «i derelitti e gli abbandonati»; se da un lato infatti l'intervento del vagabondo, che sopraggiunge ad animarne e a far parlare in maniera didascalica un burattino in particolare, rende ben evidente come la loro orgogliosa incredulità mimetica li abbia ridotti a marionetta fallendo la prova, dall'altro questi giocattoli vengono riportati dall'altra parte in quanto abbandonati, e in una prova mancata di abbandonata c'è proprio la funzione non assunta e quindi per costoro compromessa, incrinata, come incrinati, rotti risultano quei giocattoli. Una volta però che questa parte, ricondotta nell'aldilà, verrà infine riparata, verrà con ciò ristabilita la possibilità di credere, che sarà poi offerta alla scelta di altri futuri iniziandi durante la loro prova.
Ma è soprattutto rispetto al versante del burattino come riduzione a marionetta che vogliamo dedicare alcune osservazioni. Che ad animarli sia allora proprio il vagabondo è particolarmente indicativo, così come lo è che faccia parlare proprio quella di Scrooge, protagonista di A Christmas Carol, di Charles Dickens. Nell'animare questa specifica marionetta, lo spirito del vagabondo non solo imita l'immortale personaggio, ma possiamo suggerire che produca anche un'imitazione del sé che non seppe superare la prova, e che la offra al protagonista come specchio in cui riconoscere la propria condizione e il destino che lo attende. Scrooge-marionetta lancia all'eroe l'accusa di essere, come lui, uno scettico, uno che non solo ha smesso di credere, ma che ha nella sua rivendicazione di incredulità l'orgoglioso tentativo di tracciare una differenza romantica che lo ponga quale modello del desiderio: tale preciso tentativo possiamo infatti trovarlo nelle prime pagine del racconto di Dickens, nelle quali leggiamo come l'anziano affarista si ponga con questa modalità innanzitutto nei confronti del nipote. Di fronte a questa inquietante ma parresiastica rappresentazione, l'eroe scappa, terrorizzato per quanto questi burattini gli mostrano, atterrito dal vedere in cosa cioè consistano sia lo scandalo che vive quanto il modello del desiderio cui lui aspira, poiché si preoccupa soprattutto di non essere fatto fesso; l'eroe scappa quando vede cosa voglia dire diventare, come un burattino, privo di anima, privo di voce propria e abitato da quelle altrui, che parlano al posto della propria, che parlano magari solo per negare spazio a quella degli altri – come fa Scrooge all'inizio dell'immortale racconto – per negare in fondo come la voce del proprio desiderio parli in realtà a partire dallo scandalo provato dinnanzi agli altri.
Conclusione prima: Polar express e maestria
Siamo giunti infine a dover tirare le somme di questo nostro percorso all'interno del racconto, che lascerà certo indiscussi molti dei suoi passaggi, ma che si spera abbia messo in luce la portata e il fascino di questa fiaba anche attraverso le poche scene e i pochi elementi presi in esame. Vorremmo allora meglio evidenziare alcuni punti emersi solo per cenni ma che conferiscono al racconto la sua specifica tonalità girardiana.
Abbiamo infatti visto come questo narri di un percorso di formazione, della funzione che esso assume per l'intera comunità e delle possibili conseguenze per colui che non sia in grado di portarlo a compimento. Abbiamo già affermato che il problema vissuto dal protagonista rispetto al proprio voler o non voler crede per non essere fatto fesso possa essere letto come il desiderio di voler determinare da sé ciò che è vero, di essere padroni del paradigma di esistenza, determinare quindi da sé ciò che è desiderabile. Se il desiderio di non voler credere a qualcosa posto od offerto da altri è il desiderio di non dipendere da una verità stabilita da qualcun altro, ma di possedere una verità stabilita da sé sulla base della propria non-credenza, sottrarsi a una credenza proveniente da altri è infine non voler desiderare ciò che costoro hanno ritenuto desiderabile. Determinare da sé ciò che è credibile, quindi desiderabile, è allora desiderare di porre se stessi come modello. Padroni della verità, padroni del desiderio.
La specificità che viene mostrata nel racconto è come il percorso di iniziazione, di formazione si possa dare solo a patto che l'iniziando sia in grado di accettare tanto il ruolo di allievo per sé stesso, quanto quello altrui di maestro, vivendo quest'ultimo quindi come un modello e credendo al suo portato, ma senza recepirlo come modello scandaloso, e senza quindi sentirsi invece soggetto al ruolo di discepolo nella specifica accezione terminologica girardiana, che lo intende, appunto, come soggetto scandalizzato. Riproponiamo quindi la contrapposizione terminologica già discussa da altri meglio di noi, secondo la quale una relazione scandalizzata vede come poli un modello e un discepolo, mentre una relazione non scandalizzata di maestria vede un maestro e un allievo.
Del processo di iniziazione fa quindi anche parte l'accettare che si possa credere a quanto determinato da altri; e questo non perché quanto determinato sia desiderabile in sé, bensì perché proveniente da quella differenza di ruolo maestro-allievo, cui non solo si riconosce legittimità, ma continuità, vivendo cioè la dinamica interpersonale in quanto catena relazionale di cui non si è, né si può voler essere punto terminale definitivo, tanto meno origine; sono il riconoscimento di questa differenza di ruolo e questo reciproco inserimento in una sistemica catena relazionale, che travalica i singoli estemporanei poli, a suggerire e legittimare l'accogliere ciò che proviene da un rapporto di maestria.
Conclusione seconda: Polar express e la narrazione
Ecco allora che, considerando a maggior ragione come sia proprio la narrazione – in particolare, un racconto sull'origine del senso e quindi sulla salvezza – il tema relazionale e l'oggetto attorno a cui ruota la relazione di maestria raccontata in Polar Express, emerge con più chiarezza la centralità della trasmissione e della tradizione come cifra di un rapporto non scandaloso.
Se la capacità di narrazione è il segno acquisito dall'aver voluto porsi come allievi e aver voluto apprendere tale arte da un maestro, e se è vero che narrazione e testimonianza sono strettamente intrecciate, quanto risulta diacronicamente centrale è proprio la funzione, il ruolo trasmissivo: se è vero per ogni rapporto di maestria che il maestro si consegna all'essere un giorno superato dall'allievo come prova del pieno compimento del proprio ruolo, questo è vero a maggior ragione quando l'oggetto della formazione è, come qui, così legato alla narrazione. La narrazione esiste infatti solo nel gesto stesso del racconto per altri: essa è quindi immediatamente relazione, ed è infatti una capacità che si mette in gioco solo nell'atto stesso con cui la si trasmette, in cui ci si pone come maestro-narratore che trasmette ad altri non solo il tema, ma la capacità di costruire la narrazione attorno ad esso; ma questa capacità, appunto, avrà compimento solo quando altri si raduneranno attorno alla futura voce narrante di colui cui ora si sta trasmettendo questa arte, questa funzione, il quale prenderà così quello che ora è ancora il posto di un suo maestro. L'essenza relazionale di un rapporto non scandaloso che possiamo quindi delineare attorno ai temi della narrazione, della trasmissione, della tradizione, è accettare di essere anelli in una catena di maestria, che non può quindi per definizione assolutizzare alcuno dei suoi momenti: né alcuno dei suoi maestri né dei suoi allievi. Un buon maestro si consegna necessariamente all'essere superato dai propri allievi, un buon allievo si consegna alla voce narrante dei suoi maestri.
Conclusione terza: allievi del senso e Natale
Ma c'è un'ulteriore considerazione da fare, ricordando come si sia già affermato che l'ambientazione natalizia non è da ritenersi estemporanea, e spingendola allora ad altre sue possibili implicazioni.
Sotto la luce qui considerata, cos'è quindi il Natale? Ovviamente, come già ricordato nell'articolo precedentemente citato, non si può a nostro parere prescindere dalla dimensione cristiana; tuttavia, un film come Polar Express, mancandovi i riferimenti al Cristianesimo, rappresenta comunque in maniera laica un aspetto presente in modo trasversale in questa festività, sebbene venga poi sussunto in maniera più radicale dal Cristianesimo: questa festività è una ricorrenza che rammenta come non si possa essere signori del senso, come non si possa esserne i modelli, perché il senso dell'esistenza proviene sempre da un altrove; Natale è quindi un invito a deporre il desiderio romantico scandalizzato di diventare i modelli del desiderio in quanto modelli del senso; è un invito ad accettare di essere allievi in un rapporto di maestria nei confronti di una magistralità che è per noi fonte del senso e che ci travalica sempre, e di cui possiamo solo essere parte in una catena di trasmissione di questo rapporto con tale origine, con tale fonte. Che poi questa possa essere nella infinita catena di trasmissione, quindi un'origine trascendente il sé ma immanente questa vita, o che quell'origine per chi crede possa essere trascendente anche metafisicamente, è un altro discorso. Ad ogni modo, in un film come Polar Express il Natale emerge per il suo essere una ricorrenza, una Festa che ricorda come tale rapporto sia necessariamente – perché per noi ontologicamente imprescindibile – di allievi, e che ricorda quindi la vanità propria del volersi porre come modello ab-soluto.
Il racconto antico come il mondo è allora il racconto del rapporto di allievo che deve necessariamente essere assunto dall'essere umano nei confronti della dimensione altra dalla quale proviene il senso; è il racconto della necessità esistenziale di porsi in un rapporto non scandalizzato e non scandaloso non solo con l'origine del senso, ma anche rispetto alla capacità narrativa stessa, sia in quanto capacità di ricordare quanto come capacità di trasmettere proprio narrativamente tale ruolo esistenziale, affidato alla persona.
Note
(1) Ginzburg C., Storia Notturna. Una decifrazione del sabba (1989), Edizione CDE, su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano 1991, p. 289.
(2) Cfr Propp, V. J., Le radici storiche dei racconti di magia (1946), tr. it. di S.Arcella (1977), Newton Compton editori, Roma 1982, p. 383.
(3) Cfr. Ginzburg, C., i Beneandanti (1965), Adelphi Edizioni, Milano 2020.
(4) Ginzburg C., Storia Notturna. Una decifrazione del sabba, cit., pp. 288-289.
(5) Cfr. Lévi-Strauss, C. Babbo Natale suppliziato (1952), in Razza e storia e altri studi di antropologia, trad. it. di P. Caruso, Giulio Einaudi editore, Torino 1967
(6) Cfr. Brelich, A. Tre variazioni romane sul tema delle origini (1955¹, 1976²), Editori Riuniti university press, Roma 2010
(7) Ci sia consentito riportare un'ampia citazione, in considerazione della sua esemplarità: Cfr. Lévi-Strauss, C. Babbo Natale suppliziato, cit. pp 262-263: «A questo punto, i caratteri apparentemente contraddittori dei riti natalizi si chiariscono: per tre mesi, la visita dei morti fra i vivi era divenuta sempre più insistente e oppressiva. Per il giorno del loro congedo, si può dunque permettere di festeggiarli e di fornir loro un'ultima occasione di manifestarsi liberamente, o, secondo l'espressione inglese, così fedele, to rise hell. Ma chi può mai impersonare i morti, in una società di vivi, se non tutti coloro che, in un modo o nell'altro, sono incompletamente incorporati al gruppo, ossia partecipano di quella alterità che è il segno distintivo del supremo dualismo, quello fra i vivi e i morti? Non stupiamoci dunque di vedere gli stranieri, gli schiavi e i bambini diventare i principali beneficiari della festa. L'inferiorità di statuto politico o sociale, la disuguaglianza delle età forniscono al riguardo criteri equivalenti. In effetti, abbiamo innumerevoli testimonianze, soprattutto per i mondi scandinavo e slavo, che rivelano la caratteristica peculiare del veglione di essere un pasto offerto ai morti, in cui gli invitati assumono la parte dei morti, come i bambini assumono quella degli angeli, e gli angeli, a loro volta, dei morti. Non è quindi sorprendente che Natale e Capodanno (suo doppione) siano feste basate sui regali: la festa dei morti è essenzialmente la festa degli altri, poiché il fatto di essere altro è la prima immagine che possiamo rappresentarci della morte. […] Interroghiamoci sulla tenera cura che abbiamo per Babbo Natale, sulle precauzioni e sui sacrifici a cui acconsentiamo per mantenere intatto il suo prestigio presso i bambini. Ciò non significa forse che nel nostro intimo veglia sempre il desiderio di credere, almeno per un pochino, in una generosità incontrollata, in una gentilezza senza secondi fini; in un breve intervallo durante il quale siano sospesi ogni timore, ogni invidia [corsivo nostro, in virtù dell'ovvia suggestione girardiana. n.d.r.] e ogni amarezza? Certo non possiamo condividere in pieno l'illusione; ma il fatto di alimentarla in altri giustifica i nostri sforzi, ci fornisce almeno l'occasione di riscaldarci alla fiamma accesa in quelle giovani anime. La credenza, che manteniamo nei nostri bambini, secondo cui i loro giocattoli provengono dall'aldilà, procura un alibi al segreto impulso che ci induce, in realtà, a offrirli all'aldilà con il pretesto di darli ai bambini. In tale veste, i regali natalizi restano un vero e proprio sacrificio alla dolcezza di vivere, la quale consiste in primo luogo nel non morire. [corsivi dell'autore, salvo dove specificato diversamente. n.d.r.]»
(8) Cfr. Lévi-Strauss, C. Babbo Natale suppliziato (1952), cit., p.254.
Come detto nell'articolo, numerosi elementi restano indiscussi, non tanto perché contraddicano la tesi, quanto perché di interpretazione in linea con essa. Vorrei comunque qui indicarne un paio che si potrebbero prestare alla conferma.
Il primo è la cioccolata bevuta nella prima scena nella quale vediamo radunati gli iniziandi. Nel testo di Ginzburg, che - ricordiamo - dell'immaginario da lui esaminato traccia una possibile origine diacronica nei riti sciamanici di comunicazione tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, viene indicato come vi sia sovente l'assunzione di una sostanza che farebbe da acceleratore del viaggio, che metterebbe il soggetto nelle condizioni per compiere il viaggio. Che la cioccolata venga assunta all'inizio della corsa in treno, in quella scena dai…