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C'è un testo di Heidegger, Il linguaggio nella poesia (1), che sembra stranamente fondamentale per condurre queste riflessioni sull'apocalittica al giusto posto. In esso si parla, tra le altre cose, del Geschlecht, ovvero della Stirpe umana. Il destino originario della Stirpe umana (ciò da cui essa muove e cui essa tende come alla propria destinazione) è segnato nel nome stesso di Geschlecht, che la chiama come "Duplicità" (Zwiefache), alludendo eminentemente, ma non solo, alla differenza sessuale. La Duplicità è differenza, ma in essa vigono originariamente la mitezza e il colloquio. Poi (in un "poi" che non ha tempo o storia) la Duplicità è investita da un colpo (Schlag) che la impronta diversamente: la Duplicità diviene Discordia (Zwietracht). La Duplicità divenuta Discordia è all'origine del disfacimento della Stirpe umana. Lasciamo proseguire Heidegger – che a sua volta usa parole non sue, ma del poeta Georg Trakl:
<<La maledizione che colpisce la stirpe in disfacimento consiste nel fatto che questa vecchia stirpe è nella dilacerante discordia dei sessi. Per tale discordia ciascuno dei sessi tende all'erompere sfrenato dell'animalità pura ed egoistica della bestia. Non la duplicità per sé, ma la discordia è maledizione. Ridotta a tale dilacerazione e frantumazione, la "stirpe decaduta" non rinviene più in sé la capacità di ritrovare la giusta impronta [Schlag]. La giusta impronta c'è solo per quella stirpe in cui la dualità si stacca dalla discordia e trapassa in mitezza di una duplicità che è insieme semplicità o unità; per quella stirpe, cioè, che è "cosa straniera" e segue perciò lo straniero>>. (2)
Il testo è tradotto e impossibile da sviscerare con completezza, qui e in qualsiasi altro luogo che non sia la sua testualità stessa. E però sembra proprio che Heidegger si riferisca allo stesso di cui fanno indirettamente parola le nostre apocalittiche là dove parlano delle differenze e del destino dell'umanità.
Quello di Heidegger è in effetti, innegabilmente, un testo apocalittico. Parla di un futuro rinnovamento del genere umano, di un cammino dell'umanità da uno stadio presente, di decadenza, a uno futuro migliore – un futuro che ha il carattere, si badi, della mitezza. Quando, in un raro momento di dichiaratività stellare, Heidegger parla del'«erompere sfrenato dell'animalità pura ed egoistica della bestia», della «sfrenatezza dell'individualizzazione egoistica», egli allude alla postura contemporanea dell'umano, di cui i vari liberismi e individualismi avversati da Dugin e Girard sono solo l'epifenomeno politico-economico – quanto può essere politico, un testo "poetico" come questo di Heidegger? –; e parlando di questa impronta maledetta (Schlag) della contemporaneità, ne rinviene la causa originaria nella decadenza della Duplicità (Zwiefache) divenuta Discordia (Zwietracht), cioè in una degenerazione bellicosa di un'originaria differenzialità – intesa, semplificando poco e male, nel senso di una umana vocazione alle differenze – che sarebbe propria della Stirpe umana (Geschlecht), nel senso che ne sarebbe origine e destino a un tempo. Cioè – anche come contenuto di una rivelazione apocalittica?
Il problema della Differenza si pone qui come gravissimo oggetto di riflessione. La Discordia (Zwietracht ma anche Zerstörerischen, distruzione), cioè la Duplicità decaduta (Verfallen), differenza che dà luogo a un pòlemos, è la differenza mitica di cui parla Girard. Non è forse un caso se, riferendosi a potestà e principati come istituti umani sorti dalla discordia, Girard parli di «decomposizione» (3). Mi si segua per ora con pazienza. La guarigione della Stirpe decomposta (cioè la sua salvezza in senso escatologico) passa, secondo Heidegger, da un movimento complicatissimo – si legga a questo riguardo l'intero testo – il cui fine è un ritorno della Discordia alla sua originaria figura, che ha nome Duplicità, e che ricordiamo avere il carattere della mitezza (Sanftmut). Come può l'uomo giungere a questo nuovo inizio, a questa alba futura della mitezza – a questa apocalisse? Risponde Heidegger: attraverso una separazione (Abgeschiedenheit), che i mortali devono compiere a imitazione di una figura misteriosa che Heidegger (sempre con Trakl) chiama lo "straniero" (Fremdling) o il "morto" (Toten) o il "folle" (Wahnsinnige).
Di questo straniero, morto e folle, si dicono molte cose. Che è «vivo nella sua tomba», che «pensa come nessun altro, non con la logica degli altri» – e che per questo è «folle», ma di una follia «mite» (4); poi che «dispiega il vero essere dell'uomo portandosi agli inizi di ciò che non è giunto a gestazione» (5). Devo proprio dire che questo straniero ha qualcosa di molto affine al Cristo? Questo andrebbe detto, e tematizzato, con molta cautela. Ma sentiamo ancora Heidegger: «Dove è chiamato lo straniero? Nel tramonto. Il tramonto è il perdersi [...]. Perdersi vuol dire, nel significato proprio della parola: staccarsi e pianamente sparire via» (6). Non risuona qui la prescrizione di Girard, che di Cristo occorre imitare il ritiro (7)? Anche lo straniero è imitato nel suo peregrinare, o meglio – perchè non si invochi la petizione di principio sul termine "imitare": «l'eufonia dei passi di luce dello straniero infiamma (8) l'oscuro peregrinare di quelli che vanno sulle sue orme, dischiudendolo a un canto che nasce dall'ascolto» (9). Il logos giovanneo di cui parla Girard è logos dell'espulsione (10). Ma cos'è lo straniero di Trakl se non un espulso dalla comunità – ed espulso tramite la morte e la sepoltura –, allontanato dai suoi? Egli è lo straniero che va nell'alba, verso l'originario della verità.
Riassumiamo. Si parla di un fanciullo morto la cui morte stessa, il cui ritiro (Abschiedenheit) è d'esempio ai membri di una stirpe decomposta per seguirlo in un cammino verso una nuova alba, una resurrezione che è in realtà l'avvento di ciò che è già stato, cioè la trasfigurazione della Stirpe stessa, la sua salvazione dalla decomposizione cagionata dalla discordia verso la salubrità che discende da una nuova mitezza – mitezza che però era già lì, all'origine, e andava solo ritrovata. La parola a Heidegger:
«La dipartenza diventa compiutamente il luogo del poema solo quando, come punto in cui si raccoglie la quiete della fanciullezza e come insieme tomba dello straniero, essa chiama e aduna a sé quanti seguono nel tramonto il fanciullo morto e, seguendolo in attento ascolto, traducono in parola l'eufonia dei suoi passi e divengono in tal modo, essi stessi, i dipartiti». (11)
Si ponga attenzione al tema della dipartenza e a tutto ciò che ruota attorno ad esso. Cruciale per Heidegger è appunto la dipartenza come Ort, luogo centrale, del poema di Trakl. Cos'è questa dipartenza? È la separazione di un eletto dalla Stirpe decomposta attraverso la morte. Devo aggiungere altro? Ascoltiamo ora il testo sul tema della morte e sulla resurrezione che l'abolisce:
«La forza unificante della dipartenza [dello straniero e di quelli che lo seguono, nda] risparmia quel che ancora non è nato, sopra e oltre ogni vicenda di morte, per il risorgere futuro degli uomini nel segno del mattino iniziale. Quella stessa forza, in quanto spirito di mitezza, placa insieme lo spirito del male, il cui furore raggiunge l'apice della malvagità la dove esso ancora erompe dalla discordia dei sessi e irrompe tra fratello e sorella». (12)
Le consonanze sono impressionanti, se si legge oltre la superficie simbolica del dettato. Non si potrebbe forse accostare tanto disinvoltamente questo testo al cristianesimo senza tener presente l'importanza che per Girard assume il fenomeno del ritiro di Cristo, la sua Dipartenza nel senso, a un tempo, di morte e disinnesco del meccanismo mimetico tramite la sottrazione di sé alla comunità della Stirpe decomposta – disinnesco che non è forse, appunto, la trasformazione della Discordia in Duplicità, nella ritrovata Mitezza? Non è proprio di questa specie di morte, di secessione dalla logica del mondo, di sparizione e ritiro nelle regioni della mitezza, di resurrezione del morto e di chi lo segue nella nuova figura mundi della mitezza, che Heidegger, non Girard, sta qui parlando?
Heidegger riderebbe forse di questi miei balbettamenti citazionistici. Ma non è solo una mia balzana idea, questa di una sotterranea identità dell'ultimo Heidegger e di un cristianesimo indubbiamente non convenzionale. Lo stesso Girard, per la verità, sembra convinto di una vicinanza di Heidegger al cristianesimo, ovvero di un suo contributo neanche così indiretto all'opera della Rivelazione (13). Addirittura, in uno slancio polemico, di Heidegger dice che «a furia di dissumulare il suo cattolicesimo dà l'impressione – forse falsa – di perorare un ritorno al paganesimo» (14).
Non è il solo, Girard, a insistere in questo pensiero su qualcosa come il cristianesimo di Heidegger. Derrida, con molta più discrezione e garbo, lascia intendere la stessa cosa alla fine del suo vertiginoso Dello spirito. Con un mirabolante gioco di travestimenti che ricorda la Lettera al padre di Kafka, Derrida prende parola ora sotto figura di «alcuni teologi cristiani, forse i più esigenti, i più pazienti, i più impazienti», ora parlando per conto di Heidegger stesso, e inscena un incontro tra i teologi e il filosofo sul tema del pensato che sta al fondo dei rispettivi percorsi, quello cristiano e quello heideggeriano. La posizione dei teologi – che verosimilmente esprimono, con la vergogna di Socrate che si copre la faccia, qualcosa come il pensiero stesso di Derrida – spiegano a Heidegger che «ciò che Lei chiama lo spirito archi-originario, da Lei medesimo inteso come estraneo al cristianesimo, è proprio l'essenziale del cristianesimo stesso» – segue un elenco dettagliato di punti comuni, nel quale però non si fa menzione dello straniero-Cristo secondo la mia lettura. Heidegger scansa l'accusa dicendo che effettivamente il suo pensiero non aggiunge nulla al già-detto della tradizione; solo egli tenta di «pensare quell'a partire dal quale tutto ciò è pensabile». Qualcosa come il cristianesimo, insomma. Quello che Derrida chiama l'eterogeneo all'origine (15).
Si pensi ora all'analisi dei due logoi (greco e cristiano) condotta da Girard in Delle cose nascoste. Derrida sarebbe qui d'accordo con Girard: entrambi i francesi imputano ad Heidegger un inopportuno "raddoppiamento" nell'analisi di grecità e cristianesimo – l'uno in riferimento al logos, l'altro all'idea di spirito in Trakl (16). La domanda-guida di tutta la riflessione di Derrida sembra essere, in fondo, la messa in questione di questo «contenuto minimo» di differenza tra Heidegger e il pensato cristiano. I tentativi di Heidegger di strappare Trakl al cristianesimo sono, secondo Derrida, «laboriosi, violenti, a volte puramente caricaturali, e in definitiva poco persuasivi» (17). E non è forse proprio Hölderlin, colui che fece il gran ritiro, il denominatore comune dell'apocalittica di Heidegger e di quella di Girard (18)?
Non si sta tentando di dire che Heidegger sia sotto sotto cristiano, nulla di tutto questo. Queste consonanze sotterranee non comportano un'automatica, semplicistica identificazione di due pensieri che vogliono dire la stessa cosa con parole diverse. Superficialmente, stando alla logica sistemica dei loro discorsi, questi pensatori e poeti non sono nemmeno sovrapponibili, in alcuni casi neanche compatibili. Cosa c'è però di comune al Denkweg heideggeriano, alla poesia di Trakl, a quella di Hölderlin e al pensiero di Girard?
Si sta dicendo che il cristianesimo stesso, così come lo intende Girard ma non solo, allude forse, come il Denkweg di Heidegger, a un più originario Pensiero della Differenza (dell'eterogeneo all'origine) come destino, rischio, condanna e beatitudine a un tempo del genere umano. Un pensato che non è pensato unicamente dal cristianesimo rivelato, né dal Denkweg stesso. Un pensato che, forse, è sotteso al discorso culturale dell'umanità – di tutta l'umanità – e che quindi potrebbe porsi come argomento di un colloquio tra popoli come quello di cui si parlava nell'articolo precedente.
A questo punto, nel vano sforzo di completare un discorso interminabile, dobbiamo volgerci a Oriente.
(1) Contenuto in Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1999.
(2) Ibid., p. 55
(3) Ibid.: «La stirpe in cui l'uomo appare nella "figura della decomposizione" il poeta la chiama la "stirpe sfatta"»; e Girard, op. cit., p. 163: «Satana non è un dio oscuro. È il nome di una struttura in decomposizione, la stessa a cui Paolo ha dato nome di potestà e principati».
(4) Heidegger, op. cit., p. 57.
(5) Ibid., p. 59.
(6) Ibid. pp. 55-56.
(7) Girard, op. cit., p. 93.
(8) Conviene appena far notare che in queste parole risuona anche il carattere della fiamma, che è proprio, non a caso, dello Spirito Santo.
(9) Heidegger, op. cit.. pp. 70-71.
(10) Cfr. René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi 1983, pp. 328-343.
(11) Heidegger, op. cit., p. 71.
(12) Ibid. p. 68.
(13) Cfr. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, op. cit., p. 339: «Benché sia accecato dalla ostilità che gli ispirano il giudaico e il cristiano, Heidegger partecipa suo malgrado, come ogni vero pensatore, all'opera immensa della rivelazione».
(14) Cfr. Girard, Portando Clausewitz all'estremo, op. cit., p. 189.
(15) Jacques Derrida, Dello Spirito, a cura di G. Zaccaria, SE, Milano 2010. Tutte le citazioni riportate di seguito sono contenute nelle pagine 113-119. Dell'eterogeneo all'origine si parla soprattutto alle pp. 113 e 114. Molto vi sarebbe da dire su questo tema derridiano. Semplificando, esso sarebbe l'assolutamente altro dell'origine, ciò che è all'origine dell'origine stessa – antecedente alla stessa differenza ontologica –, e in quanto tale è atteso identicamente dal Gedicht di Trakl, dal Denkweg di Heidegger e da una certa teologia cristiana.
(16) Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, op. cit., p. 332: «nella loro versione heideggeriana, i due Logos [greco e cristiano] sono infatti dei doppi: ci si sforza di differenziarli, si crede sia cosa già fatta, mentre in realtà sono sempre più indifferenziati. Più si cerca di rimediare a questo stato di cose, più lo si aggrava». Derrida, sullo stesso tema, è meno arrogante di Girard, ma dice sostanzialmente lo stesso. Quasi timidamente, non dice apertamente il pensiero sul raddoppiamento, ma lo mette in bocca ai soliti "teologi cristiani": «Se gli si obiettasse che tale ripetizione [la questione qui verte sullo Spirito in Trakl] non aggiunge, non inventa e non scopre nulla, e che provoca solamente un vuoto raddoppiamento [...] Heidegger, immagino, risponderebbe: "[...] il pensiero di questa Frühe a venire [...] va, in realtà, verso ciò che è totalmente altro. [...] Apre e introduce a ciò che rimane eterogeneo all'origine"», da Derrida, op. cit., pp. 118-119.
(17) Derrida, op. cit., p. 114. Cfr. sia Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo che Portando Clausewitz all'estremo.
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