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"Al cuore dello stesso" | Dal primo episodio di "Hunter x Hunter"

Aggiornamento: 1 mar 2021

Leorio constata con sorpresa filosofica l’evento della pace al cuore dello stesso

Nell’Achever Clausewitz, ultimo dialogo di René Girard del 2007, le posizioni pessimistiche del nostro sul destino del mondo si contrappongono nettamente alla linea di speranza ventilata da Benoit Chantre, che con discrezione invita il suo cocciuto interlocutore, su questo argomento, al dialogo con Emmanuel Lévinas – senza, ovviamente, che il nostro profeta vi conceda qualcosa più che un assenso generico, da genitore paziente. La scoperta della perturbante identità dell’io e del tu non può che portare, per Girard, all’escalation violenta, alla “corsa all’estremo”, e quindi alla guerra. Chantre, per contro, sostiene che se gli avversari «riconoscessero di somigliarsi, se si identificassero l’uno nell’altro, lo schermo dell’Identico si dissolverebbe per lasciar apparire l’Altro, la vulnerabilità del suo viso», e conclude: «lo scontro non è inevitabile» (1). Girard contro Lévinas ora e sempre: un confronto sul quale il nostro Gruppo studi e gli autori del blog si interrogano da ormai diversi anni, sulla scorta di altri e certo più prestigiosi interlocutori (2).

Su questo tema, già in passato, io e Matteo Bisoni abbiamo segnalato la profonda rilevanza di un breve e folgorante testo di Nishitani Keiji, La relazione io-tu nel buddhismo zen, che a quell’annosa questione (l’io e il tu sono destinati a confliggere?) fornisce una luminosa risposta: no, purché il riconoscimento dell’identità dell’io e del tu sia esperito nella forma di un incontro che riveli, paradossalmente, che «l’assoluta opposizione è al tempo stesso assoluta armonia» (3). Paradossalmente, appunto: come insegna il pensiero zen. Ma cosa avviene, concretamente – non si cerchi di gabellare al razionalista europeo questa fuffa orientaleggiante – al cuore di questo paradosso? Com’è che l’assoluta indifferenza, che genera assoluta contrapposizione, è anche istantanea pacificazione? La parola al paradossista giapponese: «Sé e l’altro non sono uno e non sono due. Essere “non-uno e non-due” vuol dire che ciascun sé conserva la sua assolutezza, pur essendo relativo all’altro; e che in questa relatività essi non sono separati neanche per un istante. Mentre l’io riconosce al tu, in relazione all’assoluta in-differenza propria del tu, di essere un io, permettendogli così di diventare assolutamente un tu, nel contempo assume per sé il tu. Situato in questa assoluta in-differenza che si apre nell’io, l’io è l’io stesso – io sono io. Se si vuol chiamare “amore” l’armonia di quest’assoluta non-relazione, esso è comunque del tutto diverso dall’eros e dall’agape». Compresa questa non-relazione paradossale, addentrati nell’assurdo di questo non-incontro che è l’amore (chiamiamolo pure così), la lotta dell’io e del tu «si trasforma in gioco. Allora sarà come i fiori che fanno a gara con i loro rossi e i loro porpora nel tepore primaverile» (4).

Non fingerò di capirne più di quello che il lettore ne ha tratto. Voglio però far notare una cosa. Il koan da cui Nishitani trae ispirazione per questa complessa riflessione - per la quale rimando necessariamente al testo integrale - vede protagonisti due aspiranti duellanti, Ejaku e Sansho, il primo dei quali è, per farla breve, il provocatore, ma anche colui che, nel finale, seppellisce con una risata la contesa che minacciava di esplodere tra i due (5). Ancora una volta, come facevo notare in un altro articolo, il riso viene a risolvere il conflitto cancellandone semplicemente la minaccia, come una gentile onda di risacca. Questo riso, che già altrove ho voluto collegare all’amore improvvisamente sbocciato tra i rivali – inteso, forse, nel senso esatto che dice Nishitani – è lo stesso che Kurapika rivolge a Leorio alla fine del primo episodio di Hunter x Hunter, quando la contesa che minacciava di esplodere tra i due è identicamente risolta in una pace sulla quale, date le premesse, nessuno avrebbe scommesso.


Il lettore mi deve perdonare: non è davvero per amore di sciocchi paradossi a mia volta che faccio questi accostamenti. Hunter x Hunter, il lettore forse non lo sa, è uno shonen manga del ‘99 serializzato anime nel 2011. Qualche giorno fa guardavo per indolenza il primo episodio dell’anime e una parte remota di me è saltata su, a fine episodio, mezzo commossa: “Ma questo è Nishitani!”. Giudicate voi – e guardatelo, l’anime: la meraviglia non fa che crescere. (6)

La storia in due parole, ovvero la parte che mi interessa: Leorio e Kurapika sono entrambi aspiranti hunter (non mi profondo sulla sostanza della qualifica), che si ritrovano per caso su una nave vessata da una tempesta ad affrontare l’esame per diventare hunter (ancora: boh!, una roba a metà tra un cavaliere templare e un cacciatore di taglie). Leorio, caciarone e sbracato, rifiuta di rivelare il motivo per cui aspira al titolo di hunter, subito imitato, nel rifiuto, da Kurapika, serio e compito, che approfondendo la motivazione addotta da Leorio scava a fondo nel proprio cuore e capisce qualcosa di sé stesso. Leorio, offeso dal fatto di non essere stato omaggiato del titolo onorifico “san” dal più giovane Kurapika, sbraita scompostamente alla sua volta, venendo ripetutamente ignorato. L’esaminatore insiste a domandare il motivo per cui vogliono diventare hunter (diventare, insomma, ciò che hanno da essere secondo la storia), e Kurapika cede alla richiesta, rivelando un profondo e sofferto desiderio di vendetta nei confronti di una banda di criminali che ha sterminato il suo clan; Leorio, subito imitandolo, rivela la propria motivazione, che è molto più superficiale, coerentemente con l’appeal del personaggio: vuol far soldi e diventare ricco (7). Kurapika e Leorio disprezzano l’uno il movente dell’altro, l’uno troppo ingenuo e idealista, l’altro troppo squallido e materialista. I due fanno scintille, Kurapika omette per la terza volta l’onorifico “san” e Leorio, offeso, lo sfida a duello sul ponte della nave. Qualcuno vorrebbe separarli, ma il saggio protagonista della serie, Gon, commenta che, se si vuol davvero conoscere qualcuno, è necessario scontrarsi con lui, e capire il motivo per cui suscita in noi tanta rabbia.

Kurapika e Leorio si affrontano sul ponte della nave, pronti a un duello all’ultimo sangue. L’escalation che ha preceduto la disfida è stata tale da rivelare, nel contenuto, una differenza sempre più marcata tra i due – l’uno serio e posato, l’altro scalmanato e superficiale – ma al contempo un’identità più profonda, vorrei dire strutturale – la mancanza di rispetto reciproca, l’orgoglio tracotante, l’obbedienza a una medesima logica autocentrata che li porta a imitarsi senza che se ne rendano conto – che ora vuol esplodere in una lotta del tipo di “un serpente mangerà l’altro serpente”. Tutto sta per risolversi in un bagno di sangue, quando un marinaio sbalzato dalla furia della tempesta vola tra i due contendenti, rischiando di finire fuori bordo. Subito, istintivamente, i due si lanciano, come riflessi l’uno nello specchio dell’altro, per afferrare le mani dello sfortunato marinaio, ed entrambi falliscono, mancando la presa per un istante – ed entrambi, nello stesso momento, sbottano tra i denti: “Kuso!” (dannazione!, nella sottotitolazione italiana). In quell’istante, mentre infuria la tempesta e il disgraziato vola fuori bordo – io non so in virtù di quale genio proprio dei soli giapponesi – i due si guardano negli occhi a bocca aperta. Eccola lì, la rivelazione al cuore dello stesso!

L’incidente per fortuna si risolve positivamente, perché Gon, il protagonista, si lancia a pesce nel vuoto e abbranca al volo il malcapitato – e gli sguardi dei doppi si rivolgono istantaneamente al terzo, che li supera e li compone col dono assoluto di sé – venendo afferrato a sua volta da Kurapika e Leorio, in una triangolazione che sancisce simbolicamente la loro futura alleanza. Più tardi, a tempesta placata, l’evento della pacificazione ha tempo di sedimentarsi e affiorare nel riso che la contingenza emergenziale aveva solo rimandato. È Kurapika il primo a sorridere dell’altro – come Kyozan era stato il primo a sfidare e a comprendere, scoppiando nella sua “grossa risata” – e a chieder scuse cui subito Leorio risponde con altre e più traboccanti profferte di pace.

Verosimilmente, l’intento narrativo degli autori era meno ambizioso degli equilibrismi filosofici cui ho voluto costringerli: la morale della favola, implicitamente veicolata da Gon, è un’esaltazione del lavoro di squadra e del dono di sé – e che tuttavia è dovuta passare dal giogo catartico della rivelazione nel conflitto, che si consolida come alleanza terziale nel momento stesso in cui i due serpenti si sono guardati negli occhi e hanno riconosciuto l’altro al cuore dello stesso, e la fame furiosa che avevano l’uno (della morte?) dell’altro.

Voglio sottolineare che non c’è un contenuto proprio della rivelazione: Kurapika e Leorio non hanno compreso, in quel momento, di essere accomunati da un particolare destino o scopo – se non, appunto, dalla necessaria obbedienza al dono di sé per l’altro, che però è argomento alieno alla loro contesa originaria. Hanno solo visto puramente la loro identità di assoluti autocentrati, e per una scemata: per aver detto l’equivalente giapponese di “fanculo” nello stesso istante – ma tanto è bastato. La pace è avvenuta, ed è l’inizio di una fantastica avventura. Amen ora e sempre: così possa essere anche per noi!


* * *


(1) R. Girard, Portando Clausewitz all’estremo, Adelphi, Milano 2008, p. 159 (le parole in citazione sono, per l’appunto, di Benoit Chantre).

(2) Il tema scatena l’interesse degli studiosi fino almeno dai primi anni dopo la pubblicazione dell’Achever Clausewitz. Allego, a titolo di imperdonabile surrogato di bibliografia, il link della giornata di studi sul tema organizzata nel 2012.

(3) K. Nishitani, La relazione io-tu nel buddhsimo zen e altri saggi, L’Epos, Palermo 2005, p.117.

(4) Ibid., pp. 117-119. Su questo, si veda anche il video della conferenza tenuta da me e Matteo Bisoni al Lucca Comics 2019, che concludevamo, appunto, con la stessa citazione di Keiji Nishitani sul campo fiorito e con uno spezzone della serie Boku no Hero Academia, bellissima.

(5) Un koan è un breve racconto di carattere esemplare, spesso adoperato come ausilio alla meditazione da chi pratica il buddhismo zen. A beneficio del lettore, riporto il koan stesso: «Kyozan Ejaku chiese a Sansho Enen: “Come ti chiami?”. Sansho rispose: “Ejaku”. Kyozan disse allora: “Ma Ejaku sono io!”. E Sansho: “Ebbene, allora il mio nome è Enen”. Kyozan scoppiò allora in una grossa risata».

(6) Più avanti, nel meraviglioso episodio 19, lo scontro tra Hanzo e Gon confermerà la profonda intesa del nesso che sussiste tra riso e pace delle differenze nella sensibilità dell’autore. La tensione, nel duello tra i due personaggi, è alle stelle: Hanzo sta per annientare Gon, gli amici di questo vorrebbero intervenire, fare a pezzi il violento avversario – ma poi tutto si risolve in una risata, che gli stessi astanti accolgono con sorpresa. Sarà Hanzo, il carnefice, a spiegare il miracolo: negli occhi del suo avversario sottomesso e umiliato non mai ha visto l’odio, la feroce brama di annientare il nemico che non ha niente a che fare con il desiderio di vincere – e che in Gon è intatto e stellare, e lo porta addirittura a mettere rischio la propria vita pur di non concedere la vittoria a Hanzo. Gli occhi rivelano la vera sostanza del duello: troppo fieri di sé per cedere come sconfitti, ma anche troppo saldi nella loro identità per desiderare la morte del prossimo, i gialli e i porpora che fanno a gara, gli uni e gli altri conserti nel proprio splendore, non sono capaci nemmeno di concepire – sono semplici fiori! – la possibilità che un serpente desideri mangiare l’altro, il suo simile…

(7) Più avanti si scoprirà che anche Leorio era mosso da nobili motivi, ma per ora la contrapposizione tra i due “tipi ideali” è netta e irrisolvibile.

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