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È tale sistema che viene quindi ereditato da Napoleone con il colpo di Stato del 18 brumaio(1): lo Stato figlio della Rivoluzione era un’opera di ingegneria giuridico-amministrativa certamente plasmata nelle fucine del razionalismo illuminista ma che ricavava energia politica donando forma all’irrazionalità del risentimento contro il secolare nemico interno; attraverso le convinzioni e gli entusiasmi dei programmi utopisti, tale immenso dispositivo di razionalizzazione delle risorse della Nazione divenne una sconvolgente macchina da guerra direttamente opposta al pluriverso di relazioni interstatali definito dallo Jus Publicum Europaeum, a disposizione di quel soggetto che, nell’acclamazione plebiscitaria della “vera” totalità della Nazione, fosse finalmente riuscito a trasformare l’inimicizia contingente e governabile ‒ perché informata dal criterio del “politico” (l’idea, cioè, che la presenza del nemico e il suo costringere a stare in relazione con un elemento di resistenza definisca concretamente i limiti e orienti l’esistenza stessa del soggetto statale) ‒, in un’ostilità assoluta teleologicamente assunta come missione storica e, al contempo, destinale.
Una delle figure che riuscì sin da subito a comprendere lo statuto, le ragioni e le peculiarità della stravolgente novità che, entrando nella storia, veniva ad informare la natura della politica internazionale e la forma delle relazioni internazionali fu proprio Clausewitz. Le sue furono riflessioni al contempo diagnostiche e profetiche; pensieri che, certamente, furono in parte alimentati dall’umiliazione generata dalla sconfitta contro Napoleone ma anche dal dolore causato da un’incomprensione di fondo da parte di un mondo, quello prussiano, cristallizzato in un tradizionalismo che avrebbe immediatamente recepito come rischiose le soluzioni militari, in risposta alla catastrofe politica cui andava incontro lo Stato che avrebbe voluto difendere ad oltranza, proposte dall’ufficiale prussiano.
A conclusione del lunghissimo detour, tracciato precisamente al fine di illuminare, secondo una differente prospettiva genealogica, la questione del nemico esterno proprio nel momento in cui origina la prima tematizzazione della figura del partigiano (e da cui prende piede anche Teoria del partigiano di Schmitt), è giusto riportare a compendio un brano tratto dal Libro VIII del Vom Kriege, il Libro, cioè, nel quale il pensiero di Clausewitz definisce con ineludibile chiarezza l’inscindibilità di politica e guerra e, in particolare, rivela che il carattere assoluto di quest’ultima deriva, nella sua realizzazione storica (l’incarnazione fenomenica della sua essenza noumenica), dal carattere assoluto della prima, soprattutto quando essa dimentica il carattere relativizzante del “politico” e trova massima intensità e totalità in un’ostilità che giunge a squalificare il nemico da tutti i punti di vista.
Così Clausewitz: «Alla fine del secolo scorso, quando l’arte militare europea subì una trasformazione così notevole che i migliori eserciti videro bruscamente annientare una parte della loro arte, e furono spettatori di successi militari della cui grandiosità non si aveva fino allora alcuna idea, dovette sembrar naturale l’imputare all’arte di guerra il biasimo per tutti i calcoli falliti. Era evidente che quest’arte (…) era stata sorpresa dalla potenza dei nuovi fattori.
(…) Gli osservatori dalle vedute più ampie attribuirono il fenomeno all’influenza generale che la politica esercitava da secoli sull’arte della guerra, in senso dannoso per quest’arte.
(…) In altri termini il disastro risultò dall’influenza della politica sulla guerra o dall’errata politica? Gli effetti immensi che produsse la Rivoluzione francese verso l’esterno sono dovuti evidentemente assai meno ai nuovi mezzi e alle nuove vedute della condotta di guerra francese, che non al mutamento completo avvenuto nell’arte politica e amministrativa statale, al carattere del governo, alle condizioni della nazione ecc.
Gli altri governi non seppero valutare tutto ciò, e vollero con mezzi ordinari tener testa a forze nuove e travolgenti, e cioè, commisero errori politici.
(…) Si può dire, quindi, che i venti anni di vittorie del periodo rivoluzionario sono principalmente una conseguenza degli errori politici dei governi avversari. È vero che questi errori non si sono manifestati che nella guerra, nel senso che gli avvenimenti militari non hanno risposto alle aspettazioni della politica: ma ciò non proviene dal fatto che la politica abbia omesso di consultare l’arte militare. L’arte della guerra, alla quale un uomo politico poteva credere allora, e cioè l’arte della guerra corrispondente alla politica dell’epoca (…) era impregnato degli stessi pregiudizi e non poteva certo riformare le idee della politica. È vero che la guerra ha anch’essa subito modificazioni profonde nella sua essenza e nelle sue forme, sì da ravvicinarle al carattere assoluto. Ma queste trasformazioni non provengono dal fatto che il governo francese si fosse emancipato, per così dire, dalle pastoie della politica: esse sono nate, invece, dal cambiamento di politica che la Rivoluzione francese ha provocato sia in Francia sia nel resto dell’Europa»(2).
Quando l’utopia entra nella storia, la realtà storica gli è inevitabilmente di scandalo. Assiomi che, ritenuti precipitato della Ragione, sono immaginati come universalmente applicabili, finiscono per scadere al rango di leggi condannate ad un’instabilità e ad un relativismo che solo la politica può gestire, proprio perché da essa costitutivamente incarnati. L’utopia fa dunque la sua apparizione nella realtà con l’idea di instaurare un governo della Ragione a garanzia di uno stato di pace perpetua per l’intero genere umano finalmente emancipato e moralmente degno; ma la realtà non si lascia modellare senza resistenze e nemmeno riflette l’ingenuo immaginario concepito privatamente o nell’attività filosofico-letteraria di ristretti salotti. Non solo infatti, infangando le galosce nella congiuntura storica, abbiamo visto come la Rivoluzione abbia raffinato, come mai in precedenza, strategie politiche e tattiche che intrecciano l’ambito militare e quello giuridico-amministrativo ai fini della liquidazione dell’opposizione interna e della razionalizzazione delle risorse in vista di una “difesa ad oltranza” dalla reazione del nemico esterno (il quale, secondo un’applicazione di categorie psicanalitiche alla filosofia della storia, sarebbe da concepire come quell’alterità simbolicamente strutturata, in quanto costruita su consuetudini e sedimentazioni storiche assolutamente eterogenee, che, con la sua semplice attestazione d’esistenza, si oppone, limita e castra l’attività inglobante-specchiante dell’immaginario dell’utopia); ma, poiché una pace concepita in modo ideologico e con fini escatologici non può che tradursi storicamente in una pace belligena, cioè generatrice e portatrice di guerre tanto più violente quanto più ambizioso è la missione storica da realizzare, non resta alla Rivoluzione che violare i fondamenti giuridici del diritto internazionale informante l’epoca postvestfaliana per aggiungere plusvalore morale alla liquidazione politico-militare del nemico esterno, secondo un processo che, ad ogni modo, presuppone di fondo l’assenza di un riconoscimento politico-giuridico di quest’ultimo.
Affermandosi nella politica francese le idee della Rivoluzione divennero un dato politico ineludibile, una realtà con la quale il consesso internazionale delle monarchie europee avrebbe dovuto inevitabilmente scontrarsi: in una congerie storica nella quale solo la più raffinata arte politica avrebbe potuto trovare la chiave per raggiungere una mediazione razionale tra le parti, diventava drammaticamente manifesto come, nella prospettiva dell’utopia e dell’astrazione filosofica, proprio quest’arte del compromesso e dell’equilibrio fosse la prima ad essere bandita dall’ordine del discorso e, correlatamente, come il modello costituzionale della monarchia, scaturita dalle guerre civili di religione come forma di neutralizzazione delle opposizioni settarie in funzione di una stabile trascendenza giuridica, non godesse più di una piena legittimazione politica e simbolica, di modo che gli stessi presupposti filosofico-giuridici dello Jus Publicum Europaeum rischiavano il collasso. L’assalto rivoluzionario al modello costituzionale condiviso eliminava, tout court, la possibilità politica di una mediazione, finendo anzi per polarizzare in una lotta tra doppi mimetici l’inconciliabilità teorica tra il vecchio ordine e il nuovo ma, soprattutto, rendendo totalmente ineffettuale il dispositivo storico di regolamentazione e giuridificazione del conflitto che ne sarebbe scaturito.
«Il conflitto doveva diventare inevitabile nel momento in cui il nuovo e l’antico si fronteggiavano senza rinunciare ad alcuno dei loro rispettivi principi. (…) Se l’introduzione della monarchia costituzionale in Francia avrebbe ancora potuto, guardando le cose in prospettiva, essere accettata, era da escludere che le potenze dell’antico regime accettassero in pieno le rivendicazioni dell’utopia a prezzo della propria liquidazione. (…) Si poteva evitare il conflitto soltanto se l’utopia rinunciava a rivoluzionare il modello costituzionale interstatale dello «Jus Publicum Europaeum»»(3). Co-essenziale alla forma di pensiero e alla progettualità dell’utopia è dunque un’idea di purezza, di luminoso nitore e liscia realizzazione che non prevede la presenza di ombre o screpolature nel suo storico svolgimento: ogni opposizione esterna o interferenza interna viene percepita come una contaminazione contro la quale occorre immunizzarsi.
Il sogno dell’utopia è quello della compartimentazione e della separazione assoluta delle differenze costitutive della realtà storica; più radicalmente: il richiamo escatologico che cala dalle vertiginose altezze dell’utopia pretende che la realtà politico-istituzionale sedimentata nei secoli lo riconosca per tale, ossia come quell’evento in grado di porre, nel suo stesso realizzarsi, fine alla storia e alle sue contraddizioni. Nel suo palesarsi sul palcoscenico della storia ecco tuttavia delinearsi una figura dalla postura umana, troppo umana: simile ad un sovrano orgoglioso che concepisce ogni privata decretazione come un destino per l’umanità tutta, l’utopia desidera, in verità, un mondo che sia già disposto ad accogliere l’inedita signoria della libertà e dell’uguaglianza, un mondo docile e in qualche modo già prostrato dall’implicita richiesta di una consapevole rinuncia alla propria autonomia e alla propria soggettività espressa nei modi di un’alterità resistente (del resto, che senso avrebbe resistere ai dettami della Ragione?). Se una tale rinuncia, se una tale disposizione autosacrificale, non s’avvera (ossia se non ne viene riconosciuta la sua implicita necessità), lo scandalo sarà massimo e la reazione smisurata: una dismisura che rivela quanto il semplice star-di-fronte e non abbassare lo sguardo, proprio di ogni resistenza, finisca per irrigidire e minacciare le fondamenta programmatiche su cui l’utopia ha costruito la sua stessa identità, la sua stessa integrità(4).
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Rivelandosi naturalmente impossibile la pretesa dell’utopia rivoluzionaria di un’integrale autoliquidazione dell’Ancien Régime (pretesa peraltro indicativa del grado di de-realizzazione raggiungibile da un soggetto storico che desidera instaurarsi come egemonico ed insieme modello per nuove de-realizzazioni a venire), essa riversa la delegittimazione sul prodotto storico da esso creato(5): in un’operazione concettuale analoga ad un lancio di dadi cui viene tolta la plancia per raccoglierli, l’utopia rivoluzionaria liquida nella sua totalità, in quanto frutto di un passato retrogrado ostacolante l’emancipazione dell’umano e in cui la guerra rimaneva una realtà perché frutto della volontà di potenza dei tiranni, il sistema di regole che aveva miracolosamente stabilizzato il gioco delle relazioni internazionali, in particolare il concetto di justus hostis e la possibilità stessa di stabilire, in caso di conflitto, chi lo avesse effettivamente iniziato (senza, peraltro, attribuire un significato morale alla dichiarazione o ad azioni di guerra che, nei secoli successivi, verranno rubricati come aggressioni diventando la perfetta scusa per indiscriminate rappresaglie).
In sostanza, utilizzando le parole di Portinaro come sintesi del percorso fin qui imbastito: «L’elemento fondamentale di novità introdotto dalla Rivoluzione francese sulla scena politica europea ‒ ciò per cui essa segna una scansione di primaria importanza nella storia dello Jus Publicum Europaeum, è comunque proprio l’internazionalizzazione della guerra civile. Con essa ha inizio un processo che sembra trovare il suo coronamento proprio nel XX secolo: l’idea di guerra civile mondiale si sviluppa infatti in funzione di un’ideologia che mira a mettere “fuori legge” ogni guerra tra Stati e assume un senso concreto solo in correlazione all’ipotesi di avvento di uno Stato mondiale»(6). L’orizzonte dell’utopia rivoluzionaria, rivolgendosi al concerto delle relazioni internazionali dopo aver militarizzato l’apparato giuridico-amministrativo all’interno per identificare, realizzare e mobilitare il corpo mistico della Nazione, è allora quello di una guerra in grado di prevenire ogni guerra futura, eliminare cioè la possibilità stessa della guerra dall’orizzonte della realtà; a rigore, se ne deve dedurre, però, un significativo corollario: l’eliminazione di ogni nemico, interno od esterno, attuale o potenziale.
La reintroduzione nel panorama europeo del paradigma della guerra civile risulta, con la crisi scatenata dalla Rivoluzione, particolarmente drammatica perché, da un lato, ripropone la stessa intensità e l’indiscriminata violenza delle guerre di religione sebbene in una forma rinnovata (i massacri perpetrati con l’obiettivo di ottenere il monopolio sull’interpretazione, quale contenuto autentico della trascendenza, della parola di Dio, ossia della Legge regolante tanto il culto quanto la dimensione civile, sono direttamente trasposti in un conflitto schiacciato e rivolto unicamente all’immanenza al fine di esercitare un’egemonia decisiva rispetto alla realizzazione storica, coincidente cioè con la creazione di un nuovo diritto, dei contenuti della ragione); dall’altro, funge da modello per ogni futura delegittimazione del diritto internazionale (che può significare tanto la percezione del diritto internazionale come impedimento alla realizzazione di un’idea di perpetua pace corrispondente ad una certa idea di ordine e dominio; ma al contempo, e occorre dire che le due posizioni non si manifestano necessariamente come alternative, può significare criminalizzazione della guerra unita però ad una problematica giustificazione di guerre preventive allo scopo di creare condizioni minime per il diffondersi di valori ritenuti automaticamente latori di pace), tema che dominerà l’intero corso del XX secolo e che tutt’oggi lascia in eredità frutti guasti di difficile gestione.
Vi sono significative conseguenze legate al riemergere della guerra civile quale paradigma cui ricondurre l’ostilità: in primo luogo il concetto di nemico, perdendo il suo significato tecnico(7) e venendo travolto dal flusso di un’ostilità assoluta, diviene una chimera giuridica producendo una serie di ambiguità che saranno tanto più drammatiche e indistricabili quanto più il lessico giuridico-politico verrà sostituito da quello morale.
In secondo luogo, costitutiva della guerra civile è una dinamica che tende in ogni caso alla polarizzazione massima degli schieramenti avversari secondo lo schema, già diffusamente tematizzato e criticato, della progressione fino agli estremi figurata da Clausewitz quando definisce la guerra nella sua forma più assoluta e astratta (e proprio l’autore del Vom Kriege sottolinea come l’albeggiare dell’assoluto nella storia scaturisca proprio dalla tensione generata dall’impostazione politico-discorsiva della Rivoluzione, che arriva a squalificare non la singola monarchia ma il principio monarchico in sé, vale a dire la totalità della realtà politica a lei contemporanea, per poi evolvere nella contraddittoria esperienza napoleonica); dopo aver illustrato la funzione eminentemente schematica che la logica della guerra assoluta svolge nel pensiero del militare prussiano, ci preme aggiungere un ulteriore fattore che caratterizza l’esplodere e il diffondersi endemico della guerra civile: una spiccata allergia verso ogni elemento terzo in grado di reinserire nel computo tanto una dimensione politica in grado di relativizzare e rendere contingente il tipo di inimicizia che condiziona il conflitto, quanto una dimensione giuridica di modo che il riconoscimento del nemico diventi la condizione per rimettere al centro non un’idea quanto uno sforzo o un’azione di pace, sempre da concertare, pensare, discutere o negoziare, generando così un decisivo calo di tensione tra i due schieramenti.
In terzo luogo, quando un’ostilità assoluta dispone la realtà secondo una precisa pre-comprensione ontologica ed etica, il nemico non viene più identificato in base alle sue azioni ma in base alla sua stessa esistenza. Da cui possiamo dedurre un corollario utile per interpretare lo slittamento concettuale, già segnalato da Schmitt, che dal vero nemico(8) conduce al nemico assoluto: l’esistenza relativa e contingente del soldato al fronte, già resa più fragile da una evoluzione tecnologica che con vertiginosa rapidità avrebbe moltiplicato natura e potenza delle minacce, non è più l’unica ad essere inchiodata al concetto che rappresenta, alla totalità di cui è parte; anche il civile vede, progressivamente, erose le proprie barriere giuridiche, questo perché il concetto di nemico assoluto (precipitato di un sentimento ostile che trascende ogni calibrata intenzione ostile, perdendo quindi di vista il fine politico dietro il quadro strategico e l’iniziativa tattica) rende sempre più indifferenziato il confine tra fronte e interno del paese, procedendo nella direzione di una integrale spersonalizzazione quale emblema della mobilitazione generale; il diritto, davanti a questa progressiva perdita di definizione e consistenza personale, non trova più modo di attecchire e tutelare i corpi, producendo come conseguenza la riduzione a nuda vita del soldato come del civile, resti che, in quanto sacrificabili, risultano poi impunemente uccidibili.
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Dice Freund: «È inutile chiudere gli occhi: da circa due secoli, esattamente dalla Rivoluzione Francese, la politica viene esercitata nel nome di quelle ideologie che, con il pretesto di sopprimere il nemico politico nel nome di una concezione pretesamente più umana, snaturano l’inimicizia e la rendono più crudele, occupate come sono a scoprire i colpevoli. Da questo punto di vista la lettura degli scritti di coloro che passano per autorità rivoluzionarie è assai significativa e istruttiva. Prendiamo soltanto l’esempio di Robespierre e scorriamo i suoi discorsi. Egli non parla quasi mai del nemico senza aggiungervi epiteti quali scellerato, criminale, brigante e assassino o senza trattarlo da corrotto, da vizioso, da immorale ecc. Con quale scopo? (…) «Vogliamo, in una parola, adempiere alle promesse della natura, realizzare i destini dell’umanità, mantenere le promesse della filosofia, assolvere la provvidenza dal lungo regno del crimine e della tirannia». Non si tratta più di combattere il nemico semplicemente perché potente, ma in quanto colpevole di appartenere ad una collettività, ad una classe o ad un gruppo malvagio in sé. Noi, moderni, dobbiamo alla diffusione di questa ideologia rivoluzionaria, contraddittoriamente umanitarista e terroristica, l’incapacità di comprendere chiaramente l’essenza del politico»(9).
Lo jus in bello perde di significato ed effettualità parallelamente alla totale confusione concettuale in cui la Rivoluzione getta lo jus ad bellum. Ma l’azione della libertà universale come «furia del dileguare» non trova espressione unicamente nell’ala giacobina della Convenzione nazionale (più attenta, come si sa, al consolidamento della Rivoluzione all’interno dei confini francesi, organizzando quindi una lotta spietata contro il nemico interno): anche i Girondini rappresentati, tra gli altri, da Brissot contribuiscono ad avvelenare una polemologia centrata sull’eterna possibilità ma insieme relativizzazione e non-persistenza dei conflitti, formulando quei concetti che permettono di trasformare in guerra assoluta ogni guerra reale e fornendo, al contempo, quelle definizioni che, intrinsecamente belligene, aprono lo spazio per una indiscriminata intensificazione ed estensione del dominio della violenza. Quando la libertà astratta pone, come proprio fine, un fine universale, Io e non-Io, coscienza e realtà (storico-politico-sociale), si trovano a scontrarsi al loro massimo grado di polarizzazione. In questo modo la realtà soccombe e subisce un processo di astrazione teso ad una semplificazione massimalistica: in tale desertificazione del reale, negli anni che precedono l’avvento napoleonico, dietro ogni singola monarchia che costella il sistema europeo campeggia il principio monarchico assunto nella sua più vaga e compatta astrattezza, così che il vero nemico con cui si battaglia al fronte è tuttalpiù pensato quale scaduta ipostasi di un nemico assoluto previamente delegittimato e a cui non si concede, prima di tutto concettualmente, nemmeno il diritto all’esistenza. L’esistenza stessa della realtà acquista dunque, agli occhi del pensiero utopico, cioè della libertà astratta come autocoscienza che vorrebbe immediatamente ritrovare nella realtà la propria immagine, il senso di una presenza minacciosa e ostile: il semplice fatto di non lasciarsi ammansire e dileguare dal pensiero è indice di una resistenza che assume valore politico.
«Come giustamente riconosce Brissot, l’utopia non è affatto libera di volere o non volere la guerra: anche se l’avversario non attacca, la sua sola esistenza produce il pericolo della guerra. Perciò Brissot considera in ogni caso la guerra contro le monarchie come una necessità, che non si lascia influenzare dall’agire umano. (…) Argomentando nel quadro, sancito dalla Costituzione francese, della dottrina che proibisce la guerra offensiva, l’utopia ha perciò subito a portata di mano la definizione dell’aggressore: l’Altro è in quanto Altro aggressore, prove ulteriori dell’aggressione non sono necessarie, dal momento che quel che conta non sono le azioni bensì l’esistenza dell’Altro (…). Secondo una tale concezione, di conseguenza, può esserci sempre e soltanto difesa, mentre è per principio impossibile che ci si chieda se una propria azione rappresenti un’aggressione proibita»(10). In questo frammento di Rivoluzione e guerra civile Schnur salda due temi, quello della necessità e quello dell’impossibilità di discriminare e riconoscere l’aggressione militare nell’orizzonte delle relazioni politiche interstatali (abbiamo visto come Girard era stato in tal senso lapidario asserendo che, applicando la dinamica della reciprocità mimetica alla politica internazionale, a rigore non possa esistere qualcosa come l’aggressione, e ciò nella misura in cui è sempre, in fondo, il difensore a volere la guerra).
Il tema della necessità ci aveva condotto a riprendere e rileggere, secondo un’ermeneutica non acriticamente aderente alle indicazioni comunque imprescindibili del realismo politico, alcune pagine tucididee, riconoscendo nell’esemplare dialogo tra melii e ateniesi ‒ e ciò è particolarmente significativo perché ritroviamo la medesima questione riproposta in maniera identica a quest’altezza del percorso ‒ l’esistenza di una doppia necessità che sembrerebbe dominare i due raggruppamenti politici in conflitto: la necessità della potenza imperialistica è tuttavia di ben altra natura rispetto alla necessità che, come un nodo scorsoio, stringe la gola degli abitanti della piccola isola colpevole di voler mantenere la propria neutralità. Per essere ancora più precisi, la necessità che domina l’azione politico-militare della grande potenza implica e determina la necessità a cui la piccola realtà resistente deve soccombere (nella catena di necessità che, di fatto, vanifica l’azione della politica come arte della mediazione razionale, potremmo parlare di una necessità di primo livello da cui scaturisce una necessità di secondo livello).
Tornando al crocevia rivoluzionario, in cui al cambio di paradigma della sovranità succede il cambio di paradigma della violenza politico-militare che si traduce nella delegittimazione del nemico politico e in una nuova moralizzazione (non più, come ai tempi delle guerre di religione, teologizzazione) della guerra, alla necessità che determina e condiziona l’azione storica della Francia, prima repubblicana poi imperiale, secondo cui, originariamente, «lo scoppio della guerra non era da ricondursi alle macchinazioni belliche della monarchia ma piuttosto allo scarico di tensioni (…) dell’utopia»(11), segue una necessità di secondo livello dipendente dalla violenza con la quale l’idealismo rivoluzionario e post rivoluzionario si scaglia contro la realtà che, resistendo, diviene supremo scandalo(12).
È possibile, in effetti, immaginare una “impersonale” azione della necessità quando l’energia endemica della guerra civile (emblematicamente rappresentata dal susseguirsi delle rivolte vandeane) viene trasferita al di fuori dei confini statali, attraverso una nuova polarizzazione che cambia verso ma non direzione alla violenza, semplicemente dal nemico interno massacrato come fuorilegge e nemico della patria essa si riversa contro un nemico esterno che, in quanto monarchico, è immediatamente denunciato come nemico dell’umanità: ciò significherebbe però adombrare la responsabilità della decisione politica che dalla crisi interna produce la bipolarizzazione del conflitto(13). Ma, anche sforzandosi di obliare siffatta responsabilità, non si può ignorare il fatto che tale necessità strutturale risulti essenzialmente diversa rispetto a quella che si ritrova ad affrontare colui che deve, necessariamente appunto, rispondere con uno sforzo bellico di resistenza perché minacciato nella sua stessa esistenza e integrità: il che, ad ogni modo, non significa assenza di responsabilità in quanto, come suggerisce Schmitt, solo chi prende parte nello scontro «può decidere se l’alterità dello straniero nel conflitto concretamente esistente significhi la negazione del proprio modo di esistere e perciò sia necessario difendersi e combattere, per preservare il proprio, peculiare, modo di vita»(14). E nemmeno si può sottovalutare il fatto che l’intenzione ostile, misurabile non tanto nel tentativo di discernere azione e reazione nella dinamica conflittuale quanto invece dalla declinazione universalistica ideologica ed espansionistica in cui attualizza storicamente il sentimento ostile, si rivela dirimente nella differenziazione di questi due ordini della necessità, proprio perché, fissando un inizio e introducendo il fattore temporale nell’equazione della reciprocità mimetica (che prevede invece la simultaneità di attacco e difesa sul piano strategico e l’istantaneità come unica temporalità adeguata ad una risoluzione “mistica” del conflitto), rende possibile la distinzione di un prima e un dopo (perché se è vero, come sostiene Clausewitz, che, dal punto di vista tattico, attacco e difesa si alternano costantemente, non così avviene dal punto di vista strategico, piano nel quale si traduce in termini operativi e militari una decisione precedentemente presa a livello politico): il tempo, il differimento e tutti quegli elementi che generano attrito e resistenza (distanze, fatica, rallentamenti) ma che solo nella durata trovano compiuta espressione sono, nella nostra lettura, tra i fattori decisivi per permettere alla politica e alla mediazione di rientrare in gioco.
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Rispetto, però, al tema che possiamo sintetizzare nella formula “passione della necessità”, risulta decisamente più traumatico e generativo di nefaste conseguenze il tema dell’estensione indiscriminata della guerra difensiva unito alla doppia idea che il diritto bellico abbia visto collassare il proprio fondamento giuridico ed insieme che un diritto non sia più l’oggetto, cioè il fine, del conflitto(15). Estensione indiscriminata della guerra difensiva, infatti, non significa, come si potrebbe pensare seguendo i teoremi girardiani, che sia sempre il difensore a volere la guerra, quanto piuttosto una giustificazione in vista di un illimitato ricorso allo strumento della guerra preventiva come strategia d’espansione: ogni aggressione proibita potrà quindi essere occultata rivendicando da un lato una giustizia di natura morale più che politica che comprova non solo le idee e i valori di cui ci si fa portatori ma anche e soprattutto le concrete azioni militari, dall’altro rivendicando invece, sempre preventivamente, la propria posizione di vittima, e facendo di questo elemento un fattore politico decisivo, si potrà più facilmente soffiare sulle braci di un risentimento che andrà ad intensificare il livello di ostilità latente nella popolazione e che si tradurrà in un’intenzione ostile altrettanto sproporzionata e tesa all’annichilimento dell’avversario, colpevole di essere portatore di idee e valori opposti, resistenti.
In una argomentazione contenuta in Pace e guerra tra le nazioni, Raymond Aron parla della politica internazionale degli americani come condizionata da una certa inesperienza, dovuta soprattutto al fatto, secondo l’analisi del sociologo e politologo francese, che essi concepiscono la pace sul modello della capitolazione senza condizioni che ha logicamente concluso la guerra di Secessione. In quest’ultimo particolare, certo traslato temporalmente e geograficamente, possiamo intravvedere, ciò che, nella nostra lettura, si rivela essere lo snodo più importante, proprio perché modello di diverse evoluzioni a venire, nel percorso genealogico tracciato per rendere conto delle trasformazioni dei paradigmi di ostilità e delle loro implicazioni giuridico-politiche di poco precedenti all’avvento della figura del partigiano: nel suo sfogo continentale la Rivoluzione ha infatti trasposto nella politica internazionale un principio determinante della politica interna e caratterizzante l’inimicizia della guerra civile, quello della liquidazione del nemico politico interno come principio costitutivo della nozione di Stato. Cambiano solamente i parametri di riferimento, da cui dipendono le intensità dei conflitti: dallo Stato francese si passa alla Repubblica del genere umano.
L’estensione del dominio della guerra civile nello scacchiere internazionale sancisce l’impossibilità di una distinzione formale tra amico e nemico. Assecondando poi l’assurdità concettuale secondo la quale, minando le basi del diritto bellico dello «Jus Publicum Europaeum», si sarebbe potuto liberare d’un colpo l’umanità dalla tragedia della guerra per poi educarla ad una eternamente pacifica convivenza, in realtà si è semplicemente prodotto il paesaggio filosofico-politico per la ricomparsa in forma secolarizzata della guerra come crociata: dalla teologizzazione della guerra che aveva di mira il monopolio dell’interpretazione della trascendenza, si passa alla sua moralizzazione per il controllo dell’ordine discorsivo informante l’immanenza. La guerra civile mondiale «non conosce la lotta di Stati contro Stati, bensì quella fra partiti globali, nella fattispecie degli amanti della libertà contro i repressori, anzi persino della morale pubblica contro tutti i vizi, in breve, del Bene contro il Male. Dal momento che qui è l’idea che lotta, entrano in azione non soltanto le armi ma anche la propaganda»(16). La rinnovata teoria della guerra giusta riprende schemi e linguaggio presenti nelle riflessioni dei pensatori monarcomachi precedentemente analizzate: di nuovo, il cambio di parametro produce semplicemente una proporzionale intensificazione della violenza. Lo slittamento dal teismo al deismo rende invece i proclama di personaggi come Brissot o Anacharsis Cloots simulacri privi della scintilla generata dall’ordine della trascendenza, vaniloqui che, in maniera beffarda e caricaturale, producono precisamente il contrario di ciò che promettono. Essi sostengono infatti che questa nuova forma della guerra, la quale necessita di un nuovo diritto internazionale, è sì una crociata ma «essa ha un oggetto più nobile e più sacro delle crociate del Medioevo, in quanto è la crociata dei popoli già liberati contro i tiranni, per liberare anche gli altri popoli»(17). La parola della Rivoluzione è, a tutti gli effetti, il nuovo Vangelo, pertanto dovrà essere esportata nel mondo, se necessario manu militari, da un nuovo tipo di missionari: gesuiti della Libertà che, armati di una Costituzione finalmente universale, potranno finalmente educare l’umanità emancipata ad una nuova religione civile all’ombra del tempio laico dedicato alla Ragione.
Ma, proprio attraverso la reintroduzione della teoria della guerra giusta (ricordando che, tra le argomentazioni che giustificano sempre lo jus ad bellum, primeggia lo scopo difensivo della guerra che si sta per combattere) all’interno di un quadro concettuale in cui i dettami della ragione naturale sono finalmente prescritti come universali e auto-evidenti, le guerre rivoluzionarie divengono il modello per ogni universalismo a venire che ponga come proprio fine una certa idea di emancipazione dell’essere umano e che tuttavia, disgraziatamente, finisce sempre per tradursi storicamente in un imperialismo tanto più aggressivo quanto più si pretende egemonico.
Alla perdita della distinzione formale di amico e nemico(18), traccia che rimanda all’esistenza e alla resistenza di un soggetto politico che difende la propria differenza e indipendenza quale elemento costitutivo ed essenziale del pluriverso, segue la trasformazione del nemico politico in criminale: «nella crociata per la pace perpetua le limitazioni della guerra perdono il loro significato, perché qui è l’avversario del genere umano, della verità e della morale che deve essere annientato o, ancor più precisamente: le limitazioni della guerra erano per l’uomo, la crociata della rivoluzione è per il principio, che non conosce limitazioni; se anche nel suo corso vengono uccisi uomini, questo accade solo per liquidare il falso principio, la situazione superata; e infatti gli uomini vengono annientati solo in quanto portatori di idee. (…) pertanto non esiste più ora alcun «justus hostis» né alcuna «aequalitas» nella qualità del nemico. La differenza tra nemico e criminale viene soppressa (…) Ma si va ancora oltre: il nemico non merita di essere trattato come uomo; perciò Cloots pretende che si debbano far scomparire gli aristocratici (…). Solo cancellando questo nemico del genere umano il combattente per la pace si rivela nella sua qualità di filantropo, vero promotore dell’umanità ‒ soltanto mediante la totale liquidazione dei non-eguali viene istituita la totale eguaglianza e l’autocoscienza assoluta può trovare la sua libertà e la sua pace perpetua»(19).
Il dissolversi della distinzione formale tra amico e nemico, la delegittimazione del diritto bellico quale ottuso retaggio della politica dei tiranni e la creazione di uno spazio illimitato e indistinto in cui il nemico politico perde i suoi diritti e viene declassato a criminale non per le azioni compiute ma per i valori che professa: tutto ciò finisce per avere sviluppi quasi grotteschi nella libellistica di un Cloots o nei discorsi pubblici di Brissot. Per esempio, «le annessioni non sono più annessioni di uno Stato ad un altro, si tratta piuttosto di unioni della popolazione liberata al finora unico rappresentante del genere umano, la nazione francese. Di conseguenza i successi della missione per la pace perpetua non sono per Cloots conquiste vecchio stile, bensì applicazione quotidiana delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, conquiste dunque nelle quali sconfitti sono solo i tiranni e vincitrice è soltanto la libertà, che non soggiace ad alcuna valutazione morale o giuridica, giacché è essa stessa la morale e il diritto»(20). Ecco quindi che «Il riconoscimento della guerra come stato giuridico non può aver luogo, perché la guerra nel senso corrente era uno strumento della politica di potenza dei tiranni, cioè dei monarchi, e ciò non può essere mai diritto. Nient’altro che questo appare al pensiero utopico il senso delle limitazioni della guerra, le quali permettevano ai monarchi di condurre sempre nuove guerre, dal momento che essi volevano evitare l’annientamento dell’avversario»(21).
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Nella prospettiva del presente saggio, abbiamo visto come il “politico” non debba solamente essere inteso quale elemento ineludibile che determina esistenzialmente la vita degli individui e delle comunità politiche: esso è la cifra che indica come e in quale misura l’essere in relazione precorra e definisca sempre la propria costituzione, è il segno che rimanda all’esistenza dell’Altro in rapporto al quale la propria identità emerge come problema, è il criterio formale cui rimanere fedele se si vuole proteggere un pluriverso in cui due o più soggetti nemici possano riconoscersi e coesistere. Sottolineo con forza il formalismo che definisce il “politico” proprio per segnalare la sua strutturale fragilità, la tensione che comporta, la responsabilità che reclama e pretende, per non scadere in tentativi di ipostatizzazione, tanto del nemico quanto dell’amico. Quando la tensione polare indotta dal “politico” diviene, per uno specifico soggetto politico, insostenibile, quando cioè la relazione con il nemico si sclerotizza e produce un’immagine ideologica ed escatologica, seppur terrena, della pace come regno dei fini da realizzare, da intendersi precisamente come una via di fuga dalla problematica presenza del nemico, si spalanca, quale diretta conseguenza, il baratro della guerra totale, in cui, necessariamente, la pluralità perde di consistenza e dissolve nell’unità.
Al contrario, il corollario più importante, seppur paradossale e controintuitivo, al criterio del “politico” dice che l’atto di conclusione della pace presuppone sempre l’esistenza e il reciproco riconoscimento di due nemici. È bene ribadirlo: non esiste possibilità di pace senza il riconoscimento del nemico(22).
Lo sconvolgimento rivoluzionario ha ridotto ad un cumulo di macerie lo spirito e i principi di quel diritto internazionale che fu in grado di stabilizzare la modernità europea dopo il terremoto delle guerre civili di religione. È proprio da tale palude extragiuridica, cioè dal margine della discriminazione del nemico, prodotta dalla Rivoluzione, che emerge per la prima volta la figura del partigiano. Clausewitz, intuendo le conseguenze di lungo periodo che il cambio di paradigma della sovranità politica elaborato dalla Rivoluzione avrebbe prodotto tanto sul fronte militare quanto su quello della possibilità di un contenimento giuridico dei conflitti, fu il primo a comprendere e a teorizzare l’importanza della figura del partigiano dal punto di vista strategico, una volta assunta l’inedita intensificazione dell’ostilità e la correlativa e integrale criminalizzazione del nemico. L’iper-politicizzazione di cui viene accusato il combattente partigiano (e che dovremo approfondire) è l’unica risposta adeguata alla nuova moralizzazione di una guerra che si concepisce sempre come ultima guerra. Come a dire che, davanti ad un’inimicizia assoluta, occorre una risposta una resistenza eccezionale, una testimonianza d’integrità e difesa della propria indipendente identità politica che, insieme ad altri fattori, può ridonare centralità al “politico” in quanto costringe il nemico, ossessionandolo con una resistenza ubiqua e sempre risorgente, ad accorgersi della negazione discriminante che implicitamente agisce nell’ostilità assoluta di cui diventa semplice funzione e, in questa dilatazione temporale che espone il nemico alla forma più traumatica dello stare in relazione, contribuire alla creazione delle condizioni politiche per la pace.
Sbaglia quindi Schmitt, nella sua Teoria del partigiano, ad attribuire a Clausewitz e alla sua teorizzazione l’origine di una filiazione concettuale che dal partigiano avrebbe condotto al rivoluzionario di professione leninista: nel pensiero del prussiano troviamo piuttosto la risposta strategica ed insieme esistenziale alla brutalità di una forma di guerra inedita che traduceva per la prima volta nella storia un nuovo e più comprensivo dispositivo di sovranità e governo (più comprensivo perché i criteri di discriminazione ed esclusione riflettevano l’auto-evidenza di una ragione finalmente universale). Ma, in merito al partigiano, renderemo giustizia a Clausewitz nell’ultima parte dello scritto. Preferisco ora congedarmi dalla violenza rivoluzionaria, tema centrale della presente parte in via di conclusione, lasciando la parola a Raymond Aron che, ritraendo Clausewitz, mette in rilievo alcune meno appariscenti, seppur significative, sfumature che ci permettono sin da subito di ribadire quanto l’interpretazione girardiana fosse quantomeno riduttiva (interpretazione che riconduce l’evoluzione tanto psicologico-politica quanto teoretica del militare prussiano unicamente alla fissazione scandalizzata verso il proprio modello-ostacolo Napoleone): «Permettetemi invece di concludere con due considerazioni che svelano l’uomo al di là del patriota ardente di passione, al di là del teorico volutamente distaccato. In una nota, rinvenuta fra le sue carte, Clausewitz esprime un giudizio sui metodi raccomandati dal terribile Barère al Comitato di salute pubblica per vincere la controrivoluzione vandeana: "metodi potenti, ma così crudeli, così privi di sensibilità, così contrari alla dignità degli uomini e all’umanità che i vandeani disperati si gettarono con tutte le forze e l’odio possibili nella lotta costringendo i repubblicani alla moderazione […]. La crudeltà abbandonata a se stessa dà fiato alla lotta a morte".
(…) Clausewitz aveva detestato i francesi durante tutti gli anni di avvilimento della Prussia. Quando tornò in Francia come vincitore e non come prigioniero, giudicò senza indulgenze la condotta dei suoi compatrioti, si oppose a Blücher che voleva far saltare il ponte di Jena, litigò con Gneisenau che auspicava l’esecuzione di Napoleone; non provava gioia alcuna allo spettacolo di un popolo calpestato dall’occupante. Forse fu in quel momento che afferrò la verità, sovente fraintesa, che l’autorità suprema appartiene al capo di Stato e non ai generali»(23).
***
(1) Con Napoleone la militarizzazione del diritto interno si traduce in uno dei dispositivi-chiave per trasformare la Francia in una macchina-da-guerra senza precedenti: la ridefinizione estensiva dell’istituto giuridico dello stato d’assedio poteva tradursi, per esempio, in misura preparatoria di una determinata campagna militare, per esempio la campagna di Russia e, soprattutto, al momento della sua emanazione, già si teneva conto della possibilità di agitazioni delle popolazioni nei territori annessi, a sottolineare quindi la simmetria e la permeabilità di sfera militare e sfera giuridica nel passaggio da nemico esterno a nemico interno e viceversa.
«Le norme riguardano principalmente l’organizzazione e il servizio nelle piazze fortificate grosso modo come la legge del 1791, dalla quale è mutuata anche la tripartizione in stato di pace, stato di guerra e stato d’assedio. Lo stato di guerra viene dichiarato con decreto imperiale se le circostanze richiedono che vengano affidate alla polizia più estese facoltà d’intervento. Lo stato d’assedio viene determinato (…) da un decreto dell’imperatore oppure (!) da un assedio o ancora da una aggressione improvvisa, o da una sedizione interna o infine da assembramenti illeciti entro il territorio fortificato. (…) In conseguenza della dichiarazione dello stato di guerra, secondo l’art. 92, i corpi di difesa civili locali e nazionali passano agli ordini del comandante militare (…), l’autorità civile non può emanare nessuna ordinanza senza previa intesa con il comandante, infine l’autorità civile deve emanare tutte quelle misure di polizia che il comandante militare ritiene indispensabili per la sicurezza della piazza e la quiete pubblica. A tutto questo si aggiungono ampie facoltà che il comandante militare può esercitare senza ostacoli: reclutare gente per i lavori di difesa, espellere stranieri, persone sospette e «bouches inutiles» e infine, come corollario generale, l’autorizzazione generale ad adottare tutte le misure che sono funzionali alla difesa e a rimuovere tutto quanto impedisce i liberi movimenti delle truppe o può danneggiare la difesa (…). Tutto è ispirato qui all’idea che la buona riuscita dell’operazione militare legittimi qualsiasi intervento sui diritti civili di libertà, ance senza che vengano sospese le disposizioni costituzionali. Con lo stato d’assedio (…) il comandante militare diventa superiore di tutte le autorità civili preposte al mantenimento dell’ordine pubblico e alla polizia e inoltre ottiene tutta l’autorità ad esse propria. (…) viene data quindi per presupposta l’esistenza di un diritto proprio del comandante militare, non dedotto, poniamo, da una attribuzione di facoltà civili e non riducibile quindi a una somma delle competenza delle autorità civili preposte al mantenimento della sicurezza e dell’ordine pubblico», Carl Schmitt, La dittatura, pp. 229-230.
(2) Karl Von Clausewitz, Della guerra, cit. pp. 817-818.
(3) Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, cit. p. 75.
(4) «All’utopia non interessa intraprendere con piccoli provvedimenti la via della propria realizzazione (…) per lei nessuna via al paradiso terrestre è troppo corta. Qui non può esistere nessuna regolamentazione della condotta, dunque nessuna procedura, ma soltanto il modello di uno stato idilliaco estraneo all’azione; e se questo non s’instaura da sé, l’unica procedura è la procedura apparente, mediante la quale il nemico privo di ogni diritto deve essere messo a morte.
Se, riguardo a tale pensiero, si vuol dare un giudizio d’insieme sulla situazione politica, allora importa mettere a fuoco il punto in cui l’utopia entra in collisione con la realtà fino a minacciare l’esplosione. A questo proposito si deve osservare che il pericolo dell’esplosione diventa tanto più grande quanto più l’utopia è costretta a riconoscere che l’ideale della pace perpetua cozza contro la resistenza dell’esistente», Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, cit. p. 80.
Declinando tale affresco nell’ermeneutica girardiana è immediatamente riconoscibile la tirannia esercitata dall’ideale, autentico modello-ostacolo, nei confronti del soggetto storico che deve orientare la propria azione politica in un senso profondamente trasformativo: la purezza dell’ideale è quel limite noumenico cui viene assegnato supremo valore assiologico e che, tuttavia, si traduce storicamente e simbolicamente in un altare presso cui l’esistente viene sacrificato in quanto portatore, al contempo, di segni che attestano consistenza e resistenza (interpretati inevitabilmente come affronto e rivalità) e di segni vittimari contro i quali scaricare impunemente la violenza intestina generata dalla frustrazione per il fatto di non riuscire ad adempiere l’immagine ideale che l’utopia ha prodotto e imposto a modello.
(5) Resta comunque fondamentale non scordare mai il fatto che la possibilità di una giuridificazione dello spazio continentale europeo è sorta parallelamente all’apertura di nuovi orizzonti marittimi ed esplorazione di terre selvagge in cui proliferava anarchia ed esercizio indiscriminato della violenza, a rinnovata testimonianza di quanto essa sia elemento non eliminabile dalla realtà politica.
(6) Cfr. Introduzione di Pier Paolo Portinaro, contenuta in Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, cit. p. 35.
(7) «Nel suo primo significato il nemico è ‒ dice Vattel ‒ «colui con il quale si è in guerra aperta». La nozione di nemico è dunque immediatamente legata a quella di guerra. Fare la guerra è dunque indicare un nemico e cercare, secondo la formulazione di Clausewitz, di costringerlo con la violenza armata a fare la nostra volontà», Julien Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto ‒ Materiali per una teoria del Politico, cit. p. 292.
(8) «Il nemico è la messa in questione di noi come figure. (…) Il nemico non è qualcosa che si debba eliminare per un qualsiasi motivo, o che si debba annientare per il suo disvalore. Il nemico si situa sul mio stesso piano. Per questa ragione mi devo scontrare con lui: per acquisire la mia misura, il mio limite, la mia figura.», Carl Schmitt, Teoria del partigiano, cit. p. 119; «Nella teoria della guerra si tratta sempre di distinguere esattamente l’inimicizia (…) Ogni tentativo di limitare o circoscrivere la guerra deve essere sostenuto dalla convinzione che, relativamente al concetto di guerra, inimicizia è concetto primario, e che una distinzione fra diversi tipi di inimicizia precede quella fra diversi tipi di guerra. Altrimenti tutti gli sforzi per limitare e circoscrivere la guerra restano solo un gioco, che non resiste all’esplosione di una vera inimicizia», Carl Schmitt, Ivi, cit. p. 125.
(9) Julien Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto ‒ Materiali per una teoria del Politico, cit. p. 127.
(10) Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, cit. pp. 77-78-79.
(11) Ivi, cit. p. 77.
(12) La definizione di violenza di Freund si rivela in tal senso particolarmente funzionale: «la violenza consiste in un rapporto di potenza e non semplicemente di forza, che si sviluppa tra più esseri (almeno due) o gruppi umani, di dimensione variabile, che rinunciano ad altri modi di intrattenere relazioni reciproche per forzare direttamente o indirettamente gli altri ad agire contro la loro volontà e a eseguire i disegni di una volontà esterna sotto la minaccia dell’intimidazione, di mezzi aggressivi o repressivi, capaci di attentare all’integrità fisica o morale dell’altro, ai suoi beni materiali o al suo sistema di valori, a costo di annientarlo fisicamente in caso di resistenza supposta, deliberata o persistente», Julien Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto ‒ Materiali per una teoria del Politico, cit. pp. 185-186.
(13) «Poiché la crisi non evolve da sola verso il conflitto, è all’intervento della volontà ‒ consapevole o no ‒ degli agenti della crisi che bisogna imputare il passaggio allo stato conflittuale. Il momento culminante concerne l’apparizione o l’introduzione premeditata dell’intenzione ostile. Questa ha l’effetto di bipolarizzare le relazioni attraverso l’opposizione amico-nemico. Il conflitto appare così come una soluzione della crisi, o almeno come un mezzo per porvi fine; fissando un nemico, esso introduce di nuovo una certezza, un’assicurazione, quella di un’idea e di uomini da combattere, che esso rende responsabili della situazione equivoca. (…) La designazione di un nemico appare quasi come una liberazione; a partire da questo momento, la lotta da condurre assume un senso concreto e diventa possibile mobilitare le energie», Ivi, cit. pp. 277-278.
(14) Carl Schmitt, Le categorie del ʻpoliticoʼ, cit. p. 109.
(15) «Si deve intendere per conflitto, nel senso proprio del termine, lo scontro di due o più volontà (individuali o collettive), che manifestano l’una rispetto all’altra un’intenzione ostile a causa di un diritto, e che, per mantenere o ristabilire questo diritto, tentano di spezzare la resistenza dell’altro, eventualmente ricorrendo alla violenza.
(…) L’oggetto del conflitto è in generale un diritto, messo in questione, leso, misconosciuto o schernito per esempio nel corso di una crisi. Il conflitto occasionato da una violenza puramente gratuita è raro. Il più delle volte i protagonisti difendono un diritto sullo spazio (appezzamento di terra presso il contadino, territorio organizzato politicamente nel caso di una guerra di indipendenza, libero accesso, ecc.), il diritto a migliori condizioni di vita o a rapporti più giusti, ecc. Proprio perché è al centro del conflitto, il diritto può fornire la soluzione che altrimenti resterebbe precaria, come appiccicata dall’esterno. La situazione evolve verso il conflitto se le altre soluzioni appaiono inoperanti e non rispettano certi limiti tollerabili, si tratti dell’arbitrato, della mediazione, del negoziato, ecc. D’altronde, finché dura un conflitto gli avversari non cessano di far valere i loro diritti, ripetendo continuamente i torti degli altri. Un conflitto si conclude o con il trionfo di una delle parti che impone i suoi diritti all’altra, o con il riconoscimento reciproco dei rispettivi diritti, o a seguito di una decisione giudiziaria o in virtù di un accordo consensuale», Julien Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto ‒ Materiali per la teoria del Politico, cit. pp. 272-273-274.
(16) Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, cit. p. 82.
(17) Ivi, cit. p. 82.
(18) «Il problema del rapporto amico-nemico viene risolto da una teoria che ipostatizza l’amico sopprimendo il nemico», Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, cit. p. 87.
(19) Ivi, cit. p. 85. In aggiunta: «Proprio come il pacifista scopre immediatamente il nemico in colui che non caldeggia la sua stessa concezione della pace, le ideologie della società senza nemico (per esempio il marxismo) maledicono la guerra, ma preconizzano la rivoluzione, ed esigono inoltre che gli uomini si uccidano l’un l’altro in attesa di mettere la guerra fuorilegge. (…) La cosa più grave consiste tuttavia nel risentimento che la buona coscienza dei partigiani di queste ideologie inevitabilmente genera: essendo scontato che il loro fine è buono e altamente umano, i loro nemici non possono essere che dei criminali o magari l’incarnazione del male (…). È così che si giustifica, nel nome dell’umanità, lo sterminio inumano dei nemici, giacché tutto è permesso per liberare il mondo da questi ʻfuori leggeʼ e ʻfuori dell’umanitàʼ che per ciò stesso sono colpevoli. (…) La nozione di pace perde, in queste condizioni, qualunque significato, o meglio diviene impossibile. Come potrebbe essere diversamente, dal momento che qualunque azione del nemico, fosse anche disinteressata e nobile, diviene automaticamente perversa, immorale e criminale, mentre ogni azione, anche la più scellerata ed atroce, di un rivoluzionario diventa santa, giusta e irreprensibile?», Julien Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto ‒ Materiali per la teoria del Politico, cit. pp. 117-118.
(20) Roman Schnur, Rivoluzione e guerra civile, cit. p. 83.
(21) Ivi, cit. p. 84.
(22) Nessuno meglio di Freund chiarisce il gran numero di implicazioni che tale corollario comporta; è allora opportuno riportare per esteso le sue parole: «Il riconoscimento del nemico sta ad indicare che le parti opposte riconoscono, scambievolmente, di avere ogni diritto – un diritto vitale ‒ a un’esistenza indipendente, quale che sia il regime interno che ciascuno si dà. In fondo non c’è un diritto internazionale possibile senza questo reciproco riconoscimento degli Stati o unità politiche, che siano amici o nemici.
(…) Il riconoscimento del nemico in quest’accezione significa diverse cose:
1- Che una guerra può concludersi in due modi: con la vittoria di uno dei due contendenti, dopo negoziati o senza; oppure con un compromesso, se i nemici a confronto stimano che nessuna delle due parti ha l’opportunità di riportare una vittoria decisiva in tempi prevedibili, a motivo del quadro politico generale, o dei contrapposti rapporti di forza o a causa delle condizioni geopolitiche esistenti o, ancora, per la pressione del terzo. Va da sé che il riconoscimento del nemico è una soluzione solo nel caso della seconda ipotesi.
2- Che la pace è, come la guerra, una questione politica; entrambe sono basate su rapporti di forze. Ne consegue che coloro che sono in grado di fare la guerra sono anche in grado di fare la pace. (…) La pace escatologica o ideale del regno dei fini resta a-spaziale e a-temporale, in quanto non tiene conto dell’inevitabile rivalità tra gli interessi, le aspirazioni divergenti e la potenza degli uomini e delle collettività. Il problema è scegliere tra una pace fatalmente precaria per l’usura del tempo, condizionata dalla variazione di forze, ma possibile, e una pace ideale, corrispondente alle nostre aspirazioni a un’immacolata perfezione e ad un’umanità per sempre innocente, ma empiricamente impossibile. (…) Il riconoscimento del nemico parte dal principio che, in determinate condizioni, una pace fragile, che tuttavia salvaguardi gli interessi fondamentali dei campi opposti, è preferibile a uno scontro senza via d’uscita alla ricerca dell’idealistica pace immaginaria sognata dai due avversari. Nessuna pace potrà mai garantire una totale sicurezza (…) il riconoscimento del nemico è una scommessa sulla relativa buona fede tra quanti s’impegnano su questa strada.
3- Che la pace deve realizzarsi tra nemici in guerra che a questa guerra rinunciano, e non tra amici, in quanto, per definizione, l’amicizia implica uno stato di pace, nonostante qualche possibile controversia. La pace del pacifismo teorico, di solito, presuppone teoricamente condizioni amichevoli tali che ci si potrebbe domandare per quale ragione essa non si sia ancora realizzata. In politica la pace si stabilisce fra quanti si combattono e non fra coloro che già da prima concordano sulla maggior parte degli obiettivi comuni. Vale a dire che la pace non deriva da un’idea morale, religiosa o giuridica posta a priori, ma si conclude tra avversari in lotta, che non sono d’accorso sull’essenziale, ma tuttavia accettano di trovare un modus vivendi attraverso negoziati pazienti e laboriosi, talvolta anche penosi per l’amor proprio di ciascuno. (…) La conclusione della pace costa cara ai belligeranti, perché devono rinunciare ad alcune delle loro pretese, mentre è gratuita la pace di quanti pensano di stabilirla a prescindere da qualsiasi ostilità e da qualunque contenzioso.
4- Che la pace non è perpetua, così come la guerra non è permanente. (…) Bisogna evitare un doppio errore: per un verso prendere in considerazione la pace da un punto di vista esclusivamente militare, dall’altro eliminare del tutto questo problema. La realtà militare deve essere presa in considerazione in pace come in guerra, dal momento che la pace deve realizzarsi tra nemici che possono farsi la guerra. L’esercito è l’ultima, eccezionale, risorsa in caso di conflitto: ragione di più per non trascurarlo nelle circostanze ordinarie della politica del tempo di pace, poiché tale carenza, a una certo punto, potrebbe provocare proprio una situazione eccezionale e motivo di guerra. Il nemico è appunto una collettività che mette in discussione la sopravvivenza di un’altra collettività (…) Solo nel caso di una vittoria schiacciante e totale uno Stato può imporre integralmente la sua pace. E non si tratterebbe in realtà di una pace, ma di un asservimento, della pura sottomissione dell’avversario, perché, per sua intima essenza, la pace implica l’Altro. Non la si fa con se stessi, ma con il nemico, il che vuol dire che bisogna tener conto dei suoi interessi, dei bisogni e delle aspirazioni che sono condizione della sua sopravvivenza.
5- Infine che si è disposti a lasciar posto al negoziato in luogo della guerra aperta proprio perché si riconosce il diritto vitale dell’altro a un’esistenza indipendente. (…) In fondo il riconoscimento del nemico significa riconoscimento di determinati limiti. La differenza tra la guerra e la pace sta nel fatto che la prima rifiuta, appunto, questi limiti e cerca di infrangerli (…) mentre la pace li ristabilisce (…). Una pace senza limiti, perché senza condizioni, senza regole e senza trattati è, a sua volta, una pace belligena. Tale è la pace enfatica dell’escatologia e dell’ideologia. È questo il paradosso della pace: non si può concepirla come assenza del nemico.», Julien Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto ‒ Materiali per una teoria del Politico, cit. pp. 206-207-208-209-210.
(23) Raymond Aron, Clausewitz e la guerra di popolo, contenuto in Raymond Aron, Clausewitz, cit. p. 66-67.
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