Il lunghissimo excursus dedicato alla ricostruzione genealogica della sovranità moderna e al significato del cambio di paradigma generato dalla Rivoluzione francese aveva il preciso obiettivo di gettare definitivamente luce sul perché, per ciò che concerne la guerra e l’evoluzione del diritto internazionale, l’epoca rivoluzionaria rappresentasse effettivamente un punto di non ritorno, l’insorgere di un’intensificazione dei conflitti che traduce una nuova forma di ostilità e squalifica radicale del nemico: la Francia rivoluzionaria, dichiarandosi custode della Costituzione del genere umano, riconoscendosi quindi potere costituente dell’indefinita moltitudine chiamata a rinnovare le coscienze dell’uomo rischiarato dai Lumi e a realizzare storicamente l’utopia di un governo mondiale della Ragione, condusse guerra nella convinzione che tale missione morale di civilizzazione e liberazione dell’uomo ancora incatenato ai ceppi del defunto Ancien Régime conferisse alla sua violenza un plusvalore giuridico e che, correlatamente, il nemico dall’altra parte della barricata fosse non solo ingiusto ma, letteralmente, un ostacolo alla piena realizzazione di un’ecumenica pace mondiale.
Gli strumenti concettuali raccolti durante il percorso che dalla dittatura commissaria ci ha condotto alla dittatura sovrana, sono inoltre risultati determinanti per comprendere e giustificare l’interpretazione che abbiamo precedentemente dedicato al Contratto sociale di Rousseau(1), in particolare per spiegare la specularità e la consequenzialità che connette militarizzazione dell’apparato giuridico-amministrativo nella strategia di definizione e liquidazione del nemico interno alla riabilitazione della justa causa utilizzata in modo discriminatorio contro il nemico esterno, il quale non viene riconosciuto da un punto di vista giuridico-politico ma squalificato e sanzionato moralmente.
Per archiviare definitivamente la questione del nemico interno (dopo averne argomentato l’imprescindibilità nel processo che porta il potere costituente della Nazione a rappresentazione ed esecuzione della decisione politica), non resta che ripercorrere, anche se solo sommariamente e per puro scopo indicativo, l’evoluzione che dalla prassi dei commissari del popolo durante la Rivoluzione francese avrebbe poi condotto alla creazione di una fictio giuridica e di una cornice legale funzionale all’utilizzo politico della legge marziale e dello stato d’assedio come forma di liquidazione di ogni contro-potere resistente.
All’inizio del periodo rivoluzionario tanto l’Assemblea costituente che la legislativa esprimevano la propria dittatura attraverso l’attività dei commissari, inviati direttamente dalla rappresentanza del popolo, i quali operavano parallelamente ai funzionari ordinari e ai numerosissimi commissari di servizio dell’amministrazione (commissari di polizia, commissari per le finanze e le imposte, per l’amministrazione militare ecc.). In occasione di disordini sul suolo patrio o nelle colonie, l’Assemblea nazionale legislativa, faceva richiesta formale al re di inviare commissari speciali, dotati di ampi poteri, con facoltà di intervento per ristabilire l’ordine.
Ma con la fuga del re del giugno 1791, l’Assemblea nazionale si trova ad esercitare un’attività amministrativa totalmente autonoma: per prima cosa dichiara che i suoi decreti hanno vigore indipendentemente dalla sanzione del re; viene quindi istituita la Guardia nazionale e al suo comandante l’Assemblea chiede rendiconto delle misure adottate per il mantenimento della sicurezza pubblica; vengono poi nominati tre commissari straordinari dotati di enormi poteri e autorizzati a rendere esecutive misure atte al mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato, impartendo ordini tanto ai funzionari amministrativi quanto direttamente alle truppe (l’obiettivo era, in quel caso, la protezione del re e della famiglia reale ma, al contempo, cautelarsi da un loro eventuale espatrio, con annessi i beni della corona); l’Assemblea nazionale affida ad un tribunale parigino anch’esso di nomina commissaria di condurre un’inchiesta sui fatti concernenti la fuga del re mentre la Guardia nazionale può destituire ogni ufficiale dell’esercito che rifiuti di prestare giuramento alla Costituzione.
Proiettandosi verso il 1792, l’Assemblea legislativa invita esplicitamente i commissari nominati per decreto ed inviati in caso di disordini nelle città o nelle colonie ad avocare a sé la forza pubblica, emanazione puntuale del potere costituente dell’Assemblea: non solo sono autorizzati a predisporre nuove elezioni, ad insediare nuovi magistrati giudiziari, ad arrestare i colpevoli dei disordini pubblici, a requisire parte delle truppe fornite dal re, a riorganizzare l’amministrazione nei singoli distretti, ma, soprattutto, dopo la sospensione dell’esecutivo dell’agosto 1792, proprio come fece la Costituente nel 1791, è la stessa Assemblea legislativa ad adottare misure straordinarie a partire da una valutazione dell’eccezionalità delle circostanze secondo la formula “nell’interesse della sicurezza interna ed esterna dello Stato”. Una morsa dell’esecutivo che si fa più stringente proprio nel momento in cui, per il cittadino, si fa sempre più sensibile l’erosione della differenza tra pubblico e privato: l’Assemblea, infatti, «dispone che i cittadini si procurino un attestato del loro lealismo politico, del loro civisme; le autorità municipali vengono autorizzate a impedire la diffusione di scritti controrivoluzionari; (…) tutti gli ufficiali civili e militari come pure i cittadini che non ottemperano alle richieste di questi commissari sono dichiarati infami e traditori della patria»(2).
Con l’agosto 1792 vengono gettate le fondamenta del futuro esercizio del potere dello Stato mediante commissari della rappresentanza popolare; in particolare, nella loro nomina e delega alle funzioni amministrative più delicate e strategiche, è già riconoscibile lo slittamento verso la centralizzazione dell’esecutivo in clausole che suggeriscono a tutte le persone dotate di autorità di soddisfare, cioè non ostacolare, le richieste di questi commissari, i quali hanno per l’appunto il diritto di prendere misure necessarie per silenziare ogni resistenza.
Sotto la pressione della guerra civile all’interno e dell’invasione nemica che premeva ai confini, tra il 1792 e il 1793 è la Convenzione nazionale che sviluppa un intero sistema di governo e di amministrazione commissaria: cervello e membra di tale organismo sono espressione della stessa Convenzione che, in una moltiplicazione esponenziale del numero dei commissari, innervano il corpo dello Stato dedicandosi in particolare agli affari che concernono il reclutamento, l’approvvigionamento e l’organizzazione delle truppe.
Quando poi, nell’aprile 1793, questi commissari speciali vennero posti alle dipendenze del Comitato di salute pubblica, appena istituito, cominciò a strutturarsi in maniera ancora più inequivocabile un’organizzazione unitaria del potere che segna un nuovo stadio dell’onnipervasività della dittatura sovrana del potere costituente. I compiti svolti da questi dipendenti del Comitato di salute pubblica erano molteplici: il processo di sostituzione delle autorità costituite era dapprima giustificato da motivazioni di “controllo” delle attività svolte, mansioni dunque puramente ispettive, che in realtà rappresentava solo la veste legale di un più diretta e spietata azione diretta ad eliminare ogni forma di opposizione politica. Ovviamente, l’attività dei commissari era prima di tutto rivolta verso l’esercito: l’obiettivo, infatti, era quello di integrare Stato ed esercito in un’unica grande macchina in grado di immagazzinare e mettere a frutto tutta l’energia e le risorse della Nazione; proprio per questo alla militarizzazione della politica e dell’apparato giuridico-amministrativo doveva corrispondere un analogo processo di politicizzazione integrale dell’esercito(3).
In effetti, gli anni della Convenzione e del Comitato di salute pubblica, rispetto all’organizzazione e alla razionalizzazione delle risorse della Nazione finalizzate alla guerra, possono facilmente essere interpretati come una prima manifestazione del fenomeno novecentesco della guerra totale tematizzato da Ludendorff: la messa a punto, cioè, di un sistema che rendesse lo Stato in grado di sostenere una leva in massa della popolazione e che, nella tensione che conduce, secondo le parole di Schmitt, alla triplice equivalenza di nemico totale, Stato totale e guerra totale, inaugurasse un assottigliamento e una permeabilità che avrebbe poi condotto alla definitiva indistinzione di fronte interno e fronte esterno, con ovvie conseguenze sul piano militare e giuridico.
Il repentino passaggio dal compito puramente ispettivo alla politicizzazione integrale dell’amministrazione, era concretamente percepibile anche nella gestione delle attività dipartimentali, snodi attraverso i quali dovevano esprimersi senza ostacolo alcuno le decisioni della Comitato di salute pubblica, in un clima che privilegiava la delazione come giusta denuncia del cittadino privo di convinto civismo e dell’epurazione dell’elemento controrivoluzionario in quanto traditore e nemico della patria: tutti opportunamente rimpiazzati da repubblicani fidati, altamente politicizzati e partecipanti ai clubs o alle società giacobine della provincia secondo uno sforzo che cercava di corresponsabilizzare integralmente e attivamente la società civile nell’azione politica dello Stato(4).
Un’ulteriore ma decisiva sfumatura progressivamente acquistata dall’attività dei commissari della Convenzione nazionale, coordinati dal Comitato di salute pubblica, si sarebbe poi manifestata nel decidere la modalità dello svolgimento dei compiti ispettivi e di controllo non sulla base di leggi o regolamenti ma sulla base delle circostanze: un chiaro segno che indicava tanto il trasferimento del reale potere esecutivo direttamente ai commissari ma, al contempo, un tracimare del potere esecutivo rispetto al legislativo, che significava la possibilità di modificare le norme secondo le circostanze in un contesto di estensione indiscriminata dell’evocazione dello stato d’emergenza: «I mezzi con cui procedevano nei singoli casi differivano da circostanza a circostanza: richieste formali alle autorità, avocazione a sé della force publique o della force armée, cioè della gendarmeria, della guardia nazionale, dei battaglioni di volontari o anche di una parte delle truppe regolari che si fossero trovate di stanza nelle vicinanze. In caso di disordini si rivolgevano alle autorità amministrative perché prendessero le misure necessarie o intervenivano personalmente con truppe che avevano avocato ai propri ordini oppure si facevano consegnare dalle autorità municipali un comando della guardia nazionale, al quale impartivano poi ulteriori ordini»(5).
Il cambio di paradigma che dalla dittatura commissaria ha condotto alla dittatura sovrana trova qui la propria concreta e inaugurale realizzazione storica: non è tanto il trasferimento del potere esecutivo nelle mani dei commissari della Convenzione quanto piuttosto lo sgretolarsi della cornice costituzionale concepita per limitare e trattenere l’esercizio del potere delle autorità costituite; venendo meno il riferimento del quadro istituzionale che sospende la Costituzione per riaffermarla risolvendo la situazione d’emergenza e abbandonandosi quindi al flusso sempre diveniente del potere costituente, il potere esecutivo esercitato dai commissari divenne effettivamente illimitato e indiscriminato, con l’aggravante di richiamare dietro ogni risoluzione tecnico-militare-amministrativa la polarizzazione contro il nemico interno correlata alla decisione politica ed insieme il fantasma sacrificale della moltitudine che conferisce legittimità al potere costituente della Nazione.
E dunque, nonostante non potessero intervenire nella sfera della libertà personale o della proprietà privata al di fuori di ciò che la legge consentiva, «i loro poteri si estesero fino a comprendere l’arresto di tutte le persone sospette, che anche solo potessero minacciare la quiete pubblica. Il fatto che i poteri commissari avessero come unica limitazione la loro funzionalità a un certo scopo (…) portò alla creazione di un potere in pratica illimitato secondo le circostanze»(6).
È chiaramente percepibile in questo frangente la corrispondenza di una doppia evocazione a fondamento del dispositivo di sovranità: al fantasma del nemico potenziale risponde il fantasma della moltitudine come fondamento della legittimità politica. La legittimità di un ordinamento non consiste nel fatto che le sue norme siano effettivamente accettate da tutti, piuttosto è solo quel potere che porta dentro di sé l’opacità della sua origine (il fatto, cioè, che l’omogeneità va costantemente creata mediante l’espulsione dell’elemento che minaccia la tenuta dell’ordine, in cui la decisione dirimente tra amico e nemico rappresenta concretamente la chiave di volta per orientare l’ordinamento giuridico) il più adatto a dominare mettendo a punto strategie politico-discorsive atte ad identificare e neutralizzare la minaccia del nemico, tanto interno quanto esterno, potenziale.
«Dopo l’istituzione del Comité de salut public, l’esistenza di un’organizzazione meglio centralizzata consentì un controllo dell’attività dei singoli commissari molto più efficace di quanto non fosse stato possibile prima con i cento e più membri della Convenzione nazionale»(7). Chi è il legittimo custode del potere costituente? Rispondere a questa domanda significa dare vita ogni volta ad uno Stato dentro lo Stato che, in nome di una pretesa ma, in fondo, sempre asintotica purezza, può avocare a sé la forza pubblica e costituire un’avanguardia sempre più ristretta in cui identificare, cioè rappresentare puntualmente, il potere costituente della nazione. Questo è, in sostanza, il vettore di senso che dall’assemblea legislativa conduce a Napoleone imperatore. Nel ricercare costantemente la strategia per difendere la purezza del potere costituente da ogni elemento impuro è, inevitabilmente, la politica ad essere bandita, in quanto traccia che ricorda la necessità della mediazione razionale tra parti avversarie, una evidente resistenza all’immediatezza della realizzazione storica dell’utopia della Ragione. Utopia nella quale al concetto di unità è intrecciato dunque anche quello di totalità, una pienezza che non presenta eterogeneità alcuna.
Sussiste però un elemento problematico: la rivendicazione di legittima custodia del potere costituente può sorgere da ogni organo, arto o nervo che articola il corpo mistico della Nazione. È importante sottolineare non solo che, in virtù della legislazione rivoluzionaria e della completa sospensione dei diritti e delle libertà civili, il potere dei commissari era diventato in molti casi realmente illimitato tanto verso le autorità ordinarie quanto verso i cittadini, ma anche il fatto che, nell’esercizio concreto del suo potere, il commissario si trovava tuttavia costretto ad appoggiarsi alle organizzazioni locali di partito, ai comitati rivoluzionari che esercitavano una sorta di “dittatura locale”, in una proliferazione ed insieme una scissione schizofrenica dei nuclei di potere che costituiva in fondo una nuova potenziale minaccia all’unità razionale e centralizzata concentrata intorno al Comitato di salute pubblica.
È chiaro dunque che, in linea con i moniti e le argomentazioni di Tocqueville (che guarderà retrospettivamente al collasso dell’Antico Regime e denuncerà profeticamente i rischi del mito dell’eguaglianza democratica a fondamento di un’amministrazione iper-centralizzata), il razionalismo assoluto della dittatura del potere costituente squalifica non solo ogni potere intermedio ma anche qualsiasi prospettiva federalista e di valorizzazione delle autonomie dipartimentali perché chiaramente avvertite come ostacolo concreto e freno all’impulso dirigistico proveniente dal “centro” del dispositivo sovrano.
Ovviamente, la conseguenza più flagrante e, nella nostra prospettiva, più importante è la militarizzazione dell’apparato giuridico-amministrativo, perché, in essa, è riconoscibile un parallelismo fondamentale tra la giustificazione giuridica per reprimere l’insorgere della guerra civile all’interno dello Stato con la squalifica giuridica e morale del nemico all’esterno dello Stato, nemico esterno contro il quale verrà concettualmente ed esistenzialmente combattuta una guerra discriminante come solo la guerra civile può essere. La neutralizzazione annichilente del nemico interno coincide con la fluidificazione, con la diffusione capillare, della decisione sovrana del potere costituente, nel tentativo di realizzare immediatamente, cioè in un’unica azione e una volta per tutte, la volontà della forza rivoluzionaria per poi lasciare che il nuovo impianto statale si amministri da sé grazie all’impersonale forza di un apparato burocratico-amministrativo generalizzato in grado di ripristinare una oliata regolarità, nascondendo l’opacità della decisione politica.
Così Schmitt: «La guerra e le ribellioni interne avevano creato diverse situazioni in cui i comuni si costituivano in leghe autonome e inviavano propri commissari. In questi casi il rappresentante della Convenzione in quanto esponente dell’unità centrale, interveniva contro le autonomie e le forme di autogoverno locale sopprimendo, insieme con esse, ogni altro esercizio “intermedio” della sovranità statuale come se si trattasse di nemici della repubblica. (…) Non solo i nobili, i membri del clero che rifiutavano di prestare giuramento e i loro seguaci, la gente che praticava il mercato nero di generi alimentari o alzava abusivamente i prezzi, i diffusori di notizie false, ma in genere tutti coloro che favorivano la corruption des citoyens e la subversion des pouvoirs et de l’esprit publique venivano dichiarati nemici della patria e puniti con la pena capitale. Con questa dichiarazione venivano privati di ogni protezione giuridica ed esposti ad un’azione esecutiva guidata da finalità puramente politiche. Il 16 agosto 1793 la Convenzione dichiarò come attentato ai rappresentanti del popolo la deliberazione di una amministrazione dipartimentale, che sospendeva l’esecuzione di una disposizione dei rappresentanti, e minacciò con la pena di dieci anni alle catene ogni funzionario che avesse dilazionato l’esecuzione di una loro disposizione (…). In tal modo tutte le autorità esistenti erano ridotte a puro strumento dell’azione dei rappresentanti. Ciò equivaleva a un vero e proprio trasferimento di tutti i poteri costituiti, al quale si associava l’ancor più ampia facoltà dei rappresentanti di adottare tutte le misure richieste dalle circostanze secondo la legislazione rivoluzionaria, il rispetto per eventuali diritti dell’avversario politico (ed era avversario politico chiunque frapponesse ostacoli) non costituiva ormai più un impedimento. Su questi due elementi poggiava dunque la dittatura dei rappresentanti, una dittatura commissaria nel quadro della dittatura sovrana della Convenzione nazionale. Un complemento estremamente efficace era offerto dai tribunali rivoluzionari, che intervenivano nel caso in cui le circostanze consentissero almeno l’apparenza di un procedimento giudiziario regolare, quando cioè l’avversario politico era stato arrestato e c’era tempo sufficiente per imbastire un’azione giudiziaria funzionale di una certa durata pur rimanendo il carattere sommario del procedimento. La condanna diventava allora un mezzo funzionale allo scopo rivoluzionario: da un lato neutralizzava l’avversario e dall’altro infliggeva una pena “esemplare”, che doveva fungere da deterrente e intimidazione per ogni altro avversario»(8).
Che il rappresentante disponesse unicamente di un mandato imperativo e che avesse l’obbligo di attenersi rigorosamente alle indicazioni direttive del Comitato di salute pubblica è una conseguenza, per così dire, naturale, ma è opportuno mettere in evidenza come la direzione fosse progressivamente quella di ribaltare l’assoluta dipendenza del commissario rispetto al nucleo centrale del potere nella più totale indipendenza della dittatura sovrana del potere costituente dalla dittatura commissaria dei suoi rappresentanti (i quali potevano rivelarsi un ostacolo in futuro): alla persona doveva, infatti, sopravvivere la funzione, così che l’integrazione di varie funzioni potesse dare vita ad un apparato organizzativo e amministrativo astratto, in cui la decisione politica scorresse senza resistenza alcuna in maniera perfettamente integrata al dispositivo di esercizio della sovranità. Tale organizzazione, avendo raggiunto tra il 1793 e il 1794 una certa stabilizzazione, sopravvisse alla caduta di Robespierre e alla riorganizzazione avvenuta nel 1795, in cui il Direttorio venne instaurato in quanto nuova emanazione della dittatura sovrana del potere costituente, con l’unica differenza che la nuova figura del prefetto, perfettamente integrata nel sistema burocratico, sostituì quella del commissario/rappresentante della Convenzione (ma fu un semplice cambio di nomenclatura, non di sostanza).
«Mentre i commissari della Convenzione nazionale operavano essenzialmente per far scomparire l’organizzazione dello Stato preesistente, si andava sviluppando tutta una serie di istituzioni intese a impedire il rovesciamento dell’ordine costituito»(9). Esisteva, infatti, una zona grigia, una soglia in cui la giurisdizione rivelava l’intreccio indistinguibile tra diritto e intervento di natura tecnico-militare: la lotta contro disordini, sedizioni e ribellioni che minacciavano l’ordine costituito era condotta principalmente per via giurisdizionale ma, nei fatti, il potere di procedere sommariamente trovava espressione nell’attività di commissari giudiziari provvisti di poteri straordinari e, in ultima istanza, nell’intervento di una gendarmeria organizzata militarmente.
Come giustificare allora, dal punto di vista giuridico, l’intervento militare rivolto contro la persona e le proprietà tanto dei ribelli quanto dei terzi presenti ma estranei agli eventi? In altre parole, nei confronti delle proteste o delle rivolte che possono esplodere dentro lo Stato, esiste un conflitto di autorità rispetto al soggetto che effettivamente ha il diritto di decidere la risoluzione della crisi, nella misura in cui, in una situazione di questo tipo, la giustizia che viene fatta valere dallo Stato equivale all’ordine militare di abbattere il nemico: «Si crea così una specie di situazione senza legge in cui l’esecutivo, cioè l’esercito che interviene può procedere senza rispetto dei limiti legali secondo le necessità imposte dalle circostanze per la repressione dell’avversario»(10).
L’istituto giuridico che dona un’ambigua e problematica veste legale all’intervento militare contro il nemico interno è la Martial Law (loi martiale), concepita nello sforzo di separarla e distinguerla nettamente dal diritto statario militare. Nel paradossale cortocircuito legale generato dalla presenza perturbante del nemico interno (secondo uno spettro di intensità della violenza che si estende dall’organizzazione di milizie con una precisa strategia contro l’ordine costituito, a rivolte o sommosse spontanee generate dall’insofferenza, a specifiche inosservanze della legge od ostacoli alla sua applicazione che non possono semplicemente essere risolti dalla giurisdizione ordinaria), il ricorso ad un modus operandi tipico del diritto di guerra indica che, in prima istanza, la questione cruciale è la necessità di conseguire un determinato scopo.
Quando nel nulla di norme generato dallo stato d’eccezione i tribunali non sono più in grado di funzionare e lo Stato perde la capacità di rendere esecutive le leggi, entra in azione l’esercito come unico potere efficace rimasto allo Stato per congiungere in un solo intervento giudizio ed esecuzione. La Martial Law, se riferita ad un contesto di Stato di diritto in cui vige la divisione dei poteri come per esempio quello anglosassone, significa allora la pura e semplice soppressione della divisione dei poteri e l’accentramento decisionale nel comando dell’autorità militare, posta una valutazione sull’esistenza di un effettivo pericolo per la sicurezza pubblica dello Stato, in un contesto in cui la regolarità dei procedimenti giudiziari gestiti dai tribunali ordinari è ormai divenuta una chimera e con l’esecutivo, invece, sprofondato nella più completa inefficienza. «La Martial Law crea dunque uno spazio libero per l’esecuzione di un’operazione militare secondo criteri tecnico-pratici, spazio nel quale è ammesso che si intervenga nella maniera che le circostanze impongono. (…) La sostanza della Martial Law si rivela nel caso di emergenza. Si tratta di un’azione di fatto, libera da considerazioni di ordine giuridico, ma funzionale unicamente al conseguimento di uno scopo in nome dello Stato. Questa azione, nella sua fattualità e cioè nella sua intima sostanza, non può accedere alla forma del diritto»(11).
Nonostante la forma positivistica del diritto rimanga in tale frangente totalmente inattingibile, è comunque fondamentale crearne l’apparenza per velare quanto più possibile la sostanziale sovrapposizione tra diritto e risoluzione della minaccia del nemico interno determinata invece da criteri tecnico-pratici: vi è allora il richiamo alla natura sommaria del procedimento legale o la necessità di richiedere tutta una serie di accertamenti da eseguire attraverso itinera di consultazioni e trattative per conferire al dispositivo della Martial Law la veste di una formalità legale. Quasi fosse un maldestro tentativo di esorcismo, di rimozione, del criterio del “politico” dal piano giuridico; maldestro perché ogni tentativo di neutralizzazione tecnica del “politico” registra e rende, al contrario, iterabili le sue tracce: la positivizzazione del diritto a difesa dell’ordine costituito ha infatti l’obiettivo di rendere tecnicamente invisibile la presenza inquietante del “politico”, orienta, cioè, verso una spoliticizzazione integrale del diritto e dell’ordinamento giuridico, in modo da velare il funzionamento del dispositivo tanto per i governanti quanto per i governati ed insieme obliare la risoluzione violenta della crisi che ha orientato e continua ad orientare l’ordinamento, secondo uno schema del tutto analogo al funzionamento del mito e del rito nel passaggio dalla crisi d’indifferenziazione alle differenze simboliche che indirizzano la cultura come dispositivo di protezione comunitaria(12).
In altre parole, la positivizzazione del diritto neutralizza progressivamente quella violenza sorgiva che è stata in grado di generare una prima forma dal caos del caso d’eccezione mettendo a frutto il plusvalore legale che quella decisione politica ai danni del nemico interno ha comportato: un istituto giuridico come la Martial Law è interessante proprio in quanto si presenta come un ponte che cerca di discernere e separare precisamente ciò che tiene in collegamento, permettendoci quindi di vedere ma al contempo di transitare dalla riva dell’elemento giuridico a quella della decisione politica e militare. Infatti «Quando un tribunale rivoluzionario condanna a morte un avversario politico e prima valuta se si tratti effettivamente di un avversario politico e se sia politicamente opportuno eliminarlo, si può parlare di giustizia soltanto secondo un concetto formale, per il quale è amministrazione della giustizia tutto quello che fa un tribunale. In realtà questa giustizia non è che una parte dell’azione rivoluzionaria»(13).
Occorre comunque tenere sempre presente che, nello sviluppo della nostra argomentazione, la questione della giuridificazione dell’azione esecutiva presenta una piega interna: alla funzionalizzazione della violenza ai danni del nemico interno nel processo di neutralizzazione giuridica del “politico” (che, al limite, può significare l’utilizzo di un istituto giuridico per finalità politiche, burocratizzando organizzando e rendendo sistematica una violenza che rischia di essere endemica) corrisponde, al contempo, l’effetto trattenente e limitante che ogni disciplina giuridica costituisce rispetto ad un’azione ispirata a criteri esclusivamente funzionali.
Questo aspetto è particolarmente significativo in riferimento alla guerra che lo Stato conduce contro il nemico esterno: «La restrizione che il diritto internazionale di guerra impone all’uso di mezzi tecnico-militari, come per esempio la proibizione di certe armi, rivela nella maniera più lampante il dissidio fra disciplina giuridica e funzionalità tecnica»(14). Regolare per via giuridica l’impiego della forza contro i cittadini del proprio Stato serve quindi a creare garanzie sempre più ampie a favore dei cittadini: tale processo di normalizzazione e spoliticizzazione giuridica deve però essere interpretato come un cumulo di cenere che copre, soffoca ma, al contempo, mantiene vive braci sempre pronte a riaccendersi con l’evocazione di un caso d’emergenza, con la ricomparsa dell’eccezione. Una volta che l’eccezione ricompare, infatti, le garanzie fissate dalla disciplina giuridica crollano: torna a prevalere lo scopo e l’efficacia a discapito della forma.
La legge dovrà quindi limitarsi a definire con assoluta precisione le condizioni che prevedono la dichiarazione del caso d’emergenza: la posta in gioco infatti è, ancora una volta e in maniera tanto più drammatica, stabilire chi sia chiamato a decidere effettivamente in tale situazione. Quando l’ordinamento giuridico assorbe integralmente ed esaurisce nella norma positiva la decisione che salvaguarda l’opacità del “politico” (una sovranità, quindi, ormai dimentica della propria origine), risulterà ancora più problematica, al riaffiorare del caso d’emergenza, l’avocazione del monopolio della violenza legale, ossia la giustificazione della sopravvivenza della legge davanti al suo collasso, eventualmente davanti alla disobbedienza o all’effrazione. Che tale risoluzione possa rivelarsi unicamente nella soglia che unisce il sintagma forza-di-legge, che la legge cioè non possa recuperarsi se non in virtù dell’utilizzo di una certa forza, è dato ormai acquisito. Ma la modalità e, soprattutto, la responsabilità dell’esercizio di quella forza in grado di ripristinare la normalità e il regolare funzionamento della legge rimane questione aperta. La decisione spetta all’autorità militare, cioè dovrà essere affidata a chi deve eseguire l’azione risolutiva, oppure la valutazione sulle condizioni del caso di emergenza è compito dell’autorità politica?
Analogamente a quanto visto discutendo dell’evoluzione dei commissari (prima emanazione dell’Assemblea legislativa e della Convenzione nazionale, poi funzionari dotati di mandato revocabile in mano al Comitato di salute pubblica, infine prefetti in una burocrazia integrata nel periodo del Direttorio prima e confermato quindi da Napoleone imperatore), anche per ciò che concerne il rapporto con la loi martiale è rilevabile una tendenza ben definita sin dall’inizio della Rivoluzione.
Circoscrivendo il ragionamento all’utilizzo della forza militare all’interno del territorio statale contro i propri cittadini ed escludendo quindi il caso della guerra esterna, in cui l’azione militare rappresenta la norma e si estende ben oltre i limiti di una data situazione d’emergenza, Schmitt dice che: «Nei suoi primi anni (…) la Rivoluzione francese cercò costantemente di tenere l’esercito lontano da ogni facoltà di deliberare e decidere in senso giuridico, limitandone la funzione (…) all’agire effettivo. In altre parole, il comandante militare dev’essere sempre e soltanto strumento di un’istanza civile che lo dirige»(15); addirittura, in una bozza di dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino redatta da Sieyès, è previsto un articolo in cui «in nessuna circostanza l’esercito dev’essere impiegato contro i cittadini del proprio Stato»(16).
Quando però dall’universalismo dei diritti dell’uomo si piomba nella dura contingenza storica, gli eventi e quindi le contromisure prendono tutt’altra piega: già nel 1789, in occasione di tumulti e disordini scoppiati a Parigi per la scarsità dei viveri, l’Assemblea nazionale optò per autorizzare le autorità civili, in caso di pericolo per la quiete pubblica, alla dichiarazione della loi martiale con l’obiettivo di ristabilire l’ordine pubblico attraverso l’intervento militare. In questa seminale forma di esecuzione del dispositivo della loi martiale, dovevano verificarsi una serie di fattispecie prima che i capi della Guardia nazionale, cioè della difesa civile, la gendarmeria o le truppe regolari diventassero legalmente autorizzati a muovere violenza contro la folla. Tale minuzioso regolamento «muove dal principio che ogni iniziativa e direzione compete alle autorità comunali (elette dai cittadini), mentre il comandante militare altro non è che un organo esecutivo tenuto all’ubbidienza»(17).
Nel 1790 l’Assemblea nazionale costituente emanò un decreto in cui, di nuovo, autorizzava le autorità comunali a dichiarare la legge marziale ogni volta che l’ordine pubblico fosse minacciato. In che cosa è misurabile un cambiamento rispetto alla legislazione dell’anno precedente? Sono tre le variazioni interessanti da tenere in considerazione: «la gente per bene (…) dovrà prestare la propria collaborazione e neutralizzare i perturbatori dell’ordine pubblico, che vengono dichiarati nemici della costituzione dell’Assemblea nazionale»; compaiono poi «dei tribunali speciali, ai quali è dato mandato in via commissaria di giudicare il reato di sedizione e altri simili» (esautorando sostanzialmente l’autorità del re, perché già da questo momento commissari e comandanti di truppa collaborano in quanto emanazione della medesima volontà, quella dell’Assemblea nazionale costituente); «quando i disordini presero ad aumentare, la loi martiale venne integrata dalla clausola che, laddove si fossero verificati ripetuti turbamenti dell’ordine pubblico, la legge marziale rimaneva in vigore senza interruzione per tutto un dato periodo di tempo»(18).
Responsabilizzazione della cittadinanza nell’attività di repressione del nemico interno, giustizia politica straordinaria gestita da commissari parallela all’apparato giudiziario ordinario, sospensione indefinita della normale legislazione attribuita alla discrezione della stessa autorità che rende esecutiva la misura repressiva. In una situazione via via sempre più drammatica e intricata, era inevitabile giungere alle estreme conseguenze del diritto di emergenza, soprattutto perché chi esercitava effettivamente il potere (i commissari ‒ anche se la normativa prevedeva che fossero le autorità comunali ad avocare a sé il potere funzionale alla risoluzione dell’emergenza ‒ che potevano requisire e mettere al proprio servizio le truppe, la guardia nazionale o la gendarmeria) era lo stesso che aveva il potere di giudicare se esistevano le condizioni effettive per dichiarare lo stato d’emergenza.
Dati questi presupposti l’eccezione divenne la norma, o meglio, la norma dipendeva dalla valutazione della situazione, diventava puramente occasionale, con l’aggravante che, in questo caso, era la stessa emanazione politica del potere costituente a sospendere il potere costituito, ad avere cioè la legittimità politica di definire, posta la valutazione rispetto al rischio per la pubblica sicurezza, la legalità giuridica, ricordando che, se fossero state rispettate le condizioni previste dai termini stessi della legge, l’uso della forza armata per reprimere i disordini poteva scatenarsi liberamente in quanto non sussistevano responsabilità per le conseguenze che ne sarebbero derivate.
«I giacobini avversavano fino in fondo la loi martiale, innanzitutto perché vedevano in essa un ostacolo al libero manifestarsi della massa disorganizzata del popolo cui tanto dovevano della loro forza politica. Ma il timore che in questa maniera ogni opposizione politica potesse apparire come atto di inimicizia verso le istituzioni preposte al mantenimento dell’ordine esistente, non era la unica ragione della avversione dei giacobini; essi temevano anche che la loi martiale concedesse alle autorità comunali, provviste di ampie autonomie secondo la Costituzione del 1791, un potere di disporre della forza armata che esse avrebbero potuto utilizzare ai fini delle loro aspirazioni federalistiche per reprimere il movimento rivoluzionario di stampo radicale e centralizzatore che aveva il suo centro in Parigi. La Convenzione nazionale abolì con una semplice frase la loi martiale il 23 giugno 1793. Per liquidare gli avversari salvando le forme giudiziarie, la Convenzione disponeva dei suoi commissari, della legislazione e dei tribunali rivoluzionari»(19).
L’ultimo elemento da tenere in considerazione è quello che attiene allo stato d’assedio che, fino al 1793, era presente nell’ordinamento come istituto puramente militare. Quando il tema viene discusso all’interno di una legge nel 1791, esso viene elaborato secondo criteri puramente tecnico-militari. Ciò che, tuttavia, risulta interessante è la modalità con la quale lo stato d’assedio compare nel contesto in cui vengono regolati i rapporti tra esercito e autorità civili nelle piazze fortificate (senza però fare esplicito riferimento ai casi di lotta contro i disordini, attacchi del nemico interno o azioni militari finalizzate al ristabilimento dell’ordine pubblico).
Riassume Schmitt: «Sono distinti tre «états» nei quali possono venire a trovarsi le suddette piazze fortificate: état de paix, état de guerre e état de siege. Nello stato di pace l’autorità militare ha competenze esclusivamente per le truppe e per le questioni di diretta attinenza militare (…). Nello stato di guerra le autorità civili conservano i loro compiti di polizia, ma il comandante militare può pretendere da esse determinate misure di ordine pubblico e di polizia quando è questione della sicurezza militare della piazza. (…) Nello stato d’assedio, infine, tutte le facoltà giuridiche dell’autorità civile, nella misura in cui toccano il mantenimento dell’ordine e la polizia, passano al comandante militare, che le esercita sotto sua personale responsabilità. Non si parla qui soltanto di facoltà esecutive, ma del passaggio di tutte le facoltà costituzionali di tutte le autorità civili. Il comandante deve avere le medesime possibilità giuridiche di qualsiasi autorità civile che abbia competenza in materia di sicurezza e di ordine pubblico»(20).
Ad ogni modo, in un primo momento, stabilito il reale stato di grave emergenza che lo stato d’assedio impone, il comandante militare è semplicemente chiamato a sostituire temporaneamente le autorità civili nell’esercizio delle funzioni, limitatamente alle condizioni prescritte dalla legge, senza quindi svolgere quell’azione di ingerenza nelle competenze e nelle facoltà giuridiche operata invece dai commissari della Convenzione nazionale. Il termine “stato”, che definisce tanto lo stato d’assedio quanto lo stato di guerra, è indice del riconoscimento di una situazione puramente fattuale che implica una serie di conseguenze stabilite dalla disciplina giuridica; una volta dichiarato lo stato d’assedio o lo stato di guerra, la legge accorda al comandante il potere di trovare quelle soluzioni tecnico-militari concretamente in grado di risolvere e normalizzare la situazione che il diritto si limita a convalidare.
Ma il carattere puramente militare di questo concetto giuridico subisce una radicale svolta quando diviene strumento per una finzione da utilizzare per produrre determinate conseguenza sul piano del diritto. Il primo significativo momento di questa transizione consiste nell’estensione spaziale dello stato d’assedio oltre i confini delle piazze fortificate. Il secondo e decisivo passaggio prevede che lo stato d’assedio non venga definito dal riconoscimento di una situazione di fatto ma dipenda da una dichiarazione dell’autorità politica con il preciso scopo di dare fondamento ad una finzione giuridica, pur mantenendo intatti tutti i criteri tecnico-militari di risoluzione della crisi.
Una prima sperimentazione in tal senso avviene nel periodo ruotante intorno al colpo di Stato attuato dai membri radicali del Direttorio nel settembre 1797: è interessante notare come ancora la legge del 27 agosto 1797 semplicemente «estende l’applicazione dello stato di guerra e di assedio ai comuni «nell’interesse del paese». Il Direttorio, su autorizzazione dell’Assemblea legislativa, può dichiarare lo stato di guerra (non lo stato d’assedio). Con questa legge in pratica il comandante militare diventa capo commissario del comune sul quale è stato dichiarato lo stato di guerra e non è più soggetto, come lo era nella disciplina della loi martiale, all’autorità civile. Lo stato d’assedio è invece ancora considerato come una condizione di fatto: i comuni sono di fatto in stato d’assedio quando sono tagliati fuori da truppe o da ribelli (compare qui il «nemico interno»)»(21). Ma, una volta portato a termine il colpo di Stato, il Direttorio, usurpando le facoltà del potere legislativo, «acquista la possibilità di imporre lo stato d’assedio ogni volta che lo ritenga necessario. Al posto del reale stato di necessità subentra l’atto formale della dichiarazione governativa. Il concetto acquista un significato politico, il procedimento tecnico-militare viene posto al servizio della politica interna»(22).
Dall’evoluzione di questo tipo di istituti giuridici, e vale tanto per la legge marziale quanto per lo stato d’assedio, che fuoriescono dall’ambito militare per dare corso a nuovi dispositivi di sovranità che si consolidano nel diritto interno, è possibile evincere con facilità il processo di militarizzazione dello Stato, che significa, tra le altre cose, un uso politico della situazione d’emergenza perché, solo in essa, una soluzione tecnico-militare può godere ed insieme produrre un plusvalore legale. Il fatto poi che il regime politico sia emanazione di un potere costituente conferisce all’evoluzione degli istituti giuridici una virtualità imprevedibile ed un’estensione mai precisamente definita, perché costruita sempre in risposta alla presenza sempre risorgente del nemico interno(23).
Infatti, già con la Costituzione del dicembre 1799, si assiste ad un ulteriore sviluppo con la possibilità di dichiarare sospesa la Costituzione in tutte quelle regioni in cui sedizioni armate minacciavano la sicurezza dello Stato: «Il comandante inviato per reprimere i disordini era autorizzato a dichiarare fuori della Costituzione (…) i comuni in agitazione, a emanare ordinanze in cui si comminava la pena di morte, a riscuotere tributi straordinari come ammende ecc. Il governo istituiva tribunali eccezionali»(24). La combinazione tra sospensione della Costituzione e dichiarazione dello stato d’assedio diviene la cifra definitiva della cattura del diritto nella trappola della sua utilizzabilità politica: la Costituzione, infatti, non viene più sospesa per essere protetta ma, dipendendo dalla costitutiva illimitatezza del potere costituente, ogni volta rifondata e riscritta in funzione di una ricalibrata espulsione preventiva della minaccia potenziale, liberando così una violenza che trova forza legale precisamente nel punto in cui il diritto piomba nel silenzio e che finisce quindi per colpire indifferentemente innocenti e colpevoli secondo una modalità puramente dispositiva(25).
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(1) In particolare, cfr. capitolo 3.3 Ricomprendere Rousseau attraverso Hegel.
(2) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 196.
(3) Tra i compiti dei commissari, tra l’ispettivo e il politico, proprio a sottolineare il progressivo assorbimento dell’elemento politico nell’amministrazione, Schmitt, studiando i bollettini delle leggi e gli archivi parlamentari dell’epoca, parla di: «fornire informazioni su tutte le questioni concernenti l’esercito, sul morale delle truppe, su fatti e avvenimenti militari, sul lealismo politico degli ufficiali, sulle condizioni, l’equipaggiamento e il vettovagliamento dell’esercito; tenere alto il morale e la disciplina dei soldati con appelli, proclami, propaganda, distribuendo il bollettino della Convenzione; eliminare le insegne di sovranità del passato regime; (…) sorvegliare gli ufficiali e in specie i generali; ispezionare le fortificazioni, le frontiere, gli arsenali, i depositi, le fabbriche di pezzi di artiglieria, gli impianti di difesa costiera, i lazzaretti; (…) assicurare i rinforzi e sopperire al fabbisogno dell’esercito mediante richieste formali alle autorità amministrative; provvedere al buono stato delle vie di comunicazione; accertare le indebite appropriazioni da parte dei fornitori dell’esercito, che non di rado agivano in combutta con i commissari dell’amministrazione militare», Ivi, cit. pp. 198-199. Si intravede qui la creazione di uno Stato dentro lo Stato: ai commissari ancora legati alle autorità costituite e alle vestigia del passato regime si sostituiscono commissari speciali legati al potere costituente, che si impossessano reinventando politicamente la struttura dello Stato come le erbacce farebbero con un orto lasciato all’incuria e al lavorio del tempo.
(4) «Informare la Convenzione sullo stato d’animo delle autorità e della popolazione nonché sull’esecuzione delle leggi; accogliere le rimostranze e le denunce della popolazione; fare propaganda rivoluzionaria con proclami (…); in caso di necessità, avevano mandato di fare eseguire immediatamente le leggi, soprattutto quando si trattava del reclutamento militare, di garantire il fabbisogno dell’esercito, di combattere la controrivoluzione l’usura (la scarsità dei generi alimentari veniva imputata a intrighi controrivoluzionari); dovevano inoltre occuparsi del ristabilimento dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza facendo innanzitutto opera di chiarimento tra la popolazione quando si creavano disordini causati dalla scarsità di generi alimentari, assicurare il libero accesso alle granaglie, impedire l’usuraia accumulazione di scorte, organizzare l’assistenza alla popolazione disagiata, trattare con i proprietari di fabbriche per l’impiego dei disoccupati e con i lavoratori per la ripresa del lavoro trattare con i rivoltosi nella misura in cui si trattava soltanto di sviati», Ivi, pp. 199-200.
(5) Ivi, p. 201.
(6) Ivi, p. 201.
(7) Ivi, p. 202.
(8) Ivi pp. 204-205.
(9) Ivi, p. 211.
(10) Ivi, p. 212.
(11) Ivi, pp. 214-215.
(12) Così Francesco Garritano, ragionando tra Derrida e Benjamin: «Se la polizia «incarna» esemplarmente il momento in cui la violenza fondatrice si dispone come conservatrice, ebbene essa mette in atto una pratica di traduzione. Sembra che la fondazione desti scandalo e susciti una sensazione oscena, nel senso etimologico del termine, sicché emerge l’esigenza di offuscarla, di mascherarla. Il passaggio/traduzione dalla fondazione alla conservazione consente di occultare la forza, di trasformarla in qualcosa di corrispondente in toto all’ordine del tempo, a un ordine armonico, definito, stabile, eterno. Si potrebbe dire che la forza pecca di eternità, è una sorta di traduzione affrettata, impropria, violenta, in cui un termine prende il sopravvento sull’altro e lo schiaccia. Saremmo di fronte a una pessima traduzione, nel senso che il traduttore non si curerebbe minimamente di ridestare «l’eco dell’originale»», Francesco Garritano, «In nome della legge», introduzione contenuta in Jacques Derrida, Forza di legge ‒ Il «fondamento mistico dell’autorità», trad. di A. Di Natale, Bollati Boringhieri, Torino, 2016 (ed. or. Jacques Derrida, Force de loi. Le «Fondement mystique de l’autorité», Èditions Galilée, Paris, 1994).
(13) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 215.
(14) Ivi, p. 219.
(15) Ivi, p. 220.
(16) Ivi, p. 220.
(17) Ivi, p. 221.
(18) Le tre citazioni sono ricavate da Carl Schmitt, La dittatura, cit. pp. 222-223.
(19) Ivi, pp. 226-227.
(20) Ivi, p. 224.
(21) Ivi, pp. 227-228.
(22) Ivi, p. 228.
(23) Per estendere i poteri del comandante militare rispetto alle autorità civili «il regime del Direttorio seppe coniare un concetto che, se non ha avuto la medesima fortuna di quello di «stato d’assedio», rappresenta nondimeno una delle trovate più notevoli per la lotta contro l’avversario politico: l’état de troubles civils. (…) Una volta dichiarato, erano ammesse le seguenti misure: i familiari di espatriati o di ex-nobili, i parenti di «rapinatori e capibanda» (sia donne che uomini) venivano considerati come responsabili per ogni caso di omicidio e di saccheggio e presi in ostaggio; per ogni patriota ucciso venivano deportati quattro ostaggi, agli altri venivano imposte pene varie ecc.; capibanda notori, dei quali dovevano essere esposte delle liste, erano portati davanti a tribunali militari (…) e potevano essere condannati a morte seduta stante», Ivi, p. 228.
(24) Ivi, p. 229.
(25) «La sospensione della costituzione (…) significa privare un determinato territorio delle garanzie costituzionali per lasciare mano libera al commissario d’azione nell’adottare tutte le misure necessarie per il conseguimento del proprio obiettivo. La sospensione sgombra dunque il campo a quest’azione da una serie di riguardi giuridici, la cui osservanza si risolverebbe in concreto in intralcio inopportuno. Mentre la dichiarazione di uno o più come nemici, la proscrizione, la dichiarazione di hors-la-loi, la definizione di uno o più come felon comporta una sospensione delle garanzie del diritto soltanto per chi è l’oggetto dell’azione esecutiva, la sospensione in tutto un territorio colpisce insieme innocenti e colpevoli.», Ivi. p. 231.
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