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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Angeli di formaldeide | Digressione su "Mimi wo sumaseba" e l'immaginario trionfante

Aggiornamento: 19 set 2020


Scrivendo di Ride your wave qualche tempo fa ho trascurato di menzionare Mimi wo sumaseba (Ghibli 1995), che alla riflessione di quell’articolo poteva contribuire grandemente. I due film si assomigliano sotto molti aspetti, al punto che del secondo si può dire che il titolo dello studio Ghibli sia quasi l’archetipo. In esso la maestria tra innamorati si allaccia all’assunzione di responsabilità nella distanza e nella solitudine, connesse entrambe a all’ingiunzione di rendere la propria vita unica e insostituibile – il che è precisamente l’indiarsi laico dell’uomo cui si faceva cenno nell’ultimo articolo. Riflettere su Mimi wo sumaseba può tuttavia accompagnarci più oltre nel discorso intorno alle narrazioni esemplari offerte dall’animazione giapponese, verso una meditazione del ruolo dell’esemplarità mediale nel nostro sviluppo futuro, in quanto membri di un consorzio umano sempre più culturalmente uniformato. Questa volta ci interrogheremo soprattutto sulla possibilità concreta di una “conversione” all’interno dell’inesorabile circuito tracciato intorno alla nostra esistenza dalla medialità.

La storia del film: Shizuko, di quattordici anni, legge molti libri che Seiji, suo coetaneo, prende in prestito dalla biblioteca prima della ragazza, per farsi notare. Lei lo nota, inizia una catena di equivoci – i due frequentano la stessa scuola. Seguendo un gatto grasso, Shizuko capita nel negozio del nonno di Seiji. Il ragazzo deve partire per Cremona, dove vuol studiare da luitaio. Shizuko, ammirata dalla sua determinazione, decide di scrivere un romanzo per mettere alla prova il proprio talento, a imitazione di Seiji: solo così sarà alla sua altezza – similmente a quanto accade in Ride your wave. Il romanzo è scritto, ma è come una pietra grezza, che ancora va lavorata – così nelle parole del nonno di Seiji, primo lettore del racconto. Vien fuori che il romanzo di Shizuko ricalca involontariamente la storia d’amore del nonno e di una donna tedesca, Luisa, che quegli conobbe prima della guerra e mai più rivide. Shizuko piange e mangia il ramen, ascoltando la triste storia. Seiji torna un mattino da Cremona, passa sotto la finestra di Shizuko, lei lo raggiunge e vanno insieme a vedere l’alba. Lui le chiede di sposarlo. Fine.


Non sono mai riuscito a spiegare a nessuno – nemmeno a me stesso – l’impressione di assoluta perfezione che mi trasmette questo film (1). Ciò che in Mimi wo sumaseba è il collante stesso della narrazione – e che manca in Ride your wave, così simile – è la consequenzialità quasi magica, anzi inventivamente banale, dello sviluppo narrativo. Shizuku sceglie di seguire il gatto Moon, che la porta proprio al negozio di nonno di Seiji. La storia del romanzo di Shizuko, inverosimilmente, ricalca quella del nonno di Seiji – perfino il nome dell’amata, Luisa, è lo stesso. La mattina del ritorno del ragazzo, Shizuku si sveglia placidamente nel proprio letto, senza grandi turbamenti, va alla finestra, la apre – e proprio di lì passa Seiji in bicicletta, in quello stesso istante. Tutto avviene per magia, ma discretamente, senza che questa esploda clamorosamente. Questo è probabilmente uno dei difetti del film, secondo i censori: c’è poca inventiva narrativa, a un certo punto si ricorre a espedienti magici “destinali” per coprire i buchi della trama. Oppure, si può pensare, il mondo cospira – che è come dire: “la sceneggiatura cospira” – a compiere l’amore perfetto e indissolubile di Seiji e Shizuko.

Però… perché il loro amore avrebbe diritto al coronamento, mentre quello del nonno e di Luisa no? Questo mi ha sempre turbato, povero nonno. La guerra si è messa in mezzo, certo: il vecchio era tornato in Germania, a un certo punto, ma di Luisa non c’era più traccia – forse morta in un lager, irruzione totale e innominabile del reale storico nell’immaginario narrativo? Non è inutile osservare che la storia di Luisa e del nonno si svolge fuori dallo spazio narrativo del film – e quindi dall’immaginario stesso. Il film ci dice che il mondo cospira perché l’amore si realizzi, ma anche che fuori dal film – fuori dall’immaginario – talvolta l’amore non accade, come ben sappiamo. E tuttavia, se non è accaduto, è perché un altro amore si preparava sopra le ceneri di quello, nell’immaginario offerto allo spettatore. Nulla avviene per caso, nei film – e il lettore presti attenzione: nulla avviene (l’amore non si realizza) fuori dallo spazio narrativo, fuori dall’immagine. Il flashback della storia del nonno è fatto di frame fissi e volti neri, esemplarmente. Che significa tutto ciò?

Girard conosce il potere di seduzione delle narrazioni e lo teme, comprensibilmente. Quando le narrazioni cospirano al disamore, esse sono il motore della Discordia (Zwietracht). Siccome siamo animali imitativi, una narrazione – e più che mai una narrazione fatta di immagini – non può che condizionare il nostro modo di rappresentare il mondo, come già Pasolini intuiva del medium cinematografico e televisivo. Un mondo privo di amore non è un mondo che ha rotto l’incanto illusorio con il lume della ragione materialista: è semplicemente un mondo che ha smesso di raccontare storie d’amore – di creare un’immagine amorosa del mondo. L’illusione, come sapeva Leopardi, è inverata di fede cieca e fanciullesca, di spontaneo accoglimento dell’immagine nel cuore attraverso la porta degli occhi – così, ad esempio, si innamorava Dante nel Medioevo. Il crollo delle illusioni è possibile perché innanzitutto l’uomo pone una petizione di principio dicotomica tra una supposta “realtà” indipendente dalle percezioni e il discorso illusorio che la rivestirebbe (res cogitans vs res extensa). Tale distinzione analitica non era nota ai nostri padri arcaici: il discorso era per loro consorte alla realtà (2).

Noi uomini e donne del XXI secolo, superata la dicotomia tragica dell’intervallo razionalista tra XVII e XX secolo, abbiamo però una posizione di vantaggio rispetto a Leopardi, che di quella dicotomia soffrì allo stremo, e siamo al contempo più vicini di quel che crediamo alla mentalità arcaica – e quindi forse alla salvezza? Viviamo a tal punto alienati nell’immagine, oggi, da non aver più idea di cosa sia l’“arido vero”. Piuttosto che una “dura verità” soggiacente all’illusione, che ne minerebbe la tenuta, esso è per noi, uomini non riflessivi del terzo millennio, l’evento della rottura nel continuum del godimento assicuratoci dalla società dei consumi mediali. Incontrarlo pure, nella vita reale, non significa mettere in crisi la struttura illusoria del mondo di colore e zucchero in cui siamo immersi: la ri-totalizzazione immediata del trauma nell’immagine del trauma (analizzabile, manipolabile, godibile) è il rimedio farmaceutico che ci ha gradualmente e stabilmente traslocati nei cieli dell’immaginario. L’immagine è subito terapia post-traumatica: l’onda di risacca della rappresentazione si chiude immediatamente come un cerotto sullo strappo aperto nel mare dell’emotività.

Non c’è dunque “arido vero” che batta alle porte della nostra illusione, a favorire crolli o traumi di ingresso all'adultità ideologica. Non c’è principio di realtà che irrompa nel fluido piacere in cui siamo immersi, se non come “calo di tensione”, black-out temporaneo cui siamo sicuri che l’amministrazione comunale provvederà in tempi brevi. Non c’è un “dietro reale” dell’immaginario distillato nell’athanor socio-mediale, una base di dis-illusione che possa rimettere in questione tutta la struttura dell’illusione. I vestiti sono la pelle. I filtri inseguono le ragazze al di fuori dello schermo, quasi s’agganciano automaticamente alla nostra visione rammemorante di loro, quando le incontriamo dal vivo. Verità vs menzogna è tanto falso quanto bellezza vs bruttezza – e si veda a titolo di esempio il caso della modella armena Armine Harutyunyan. L’immaginario funziona come la moda, l’unica matrice del valore dei suoi attori è l’esposizione; nemmeno più una nozione astratta di gusto, bon ton o “sprezzatura”. Tutto è bello perché tutto è osceno – finché è in scena. E non c’è dietro-le-quinte dove ritirarsi e prender fiato.


L’immaginario è il reale (3). Siamo venuti a coscienza disillusi così presto da non avere nemmeno idea, innocentemente, di cosa sia un amore illusorio. Questa dimidiazione (l’abolizione della dicotomia reale-immaginario) fa di noi i dannati perfetti – vittime passive dell’immaginario, tenie della società dei consumi, vergini di volontà – ma al contempo i perfetti salvabili. Totalmente alienati, siamo al contempo in pieno potere dell’immaginario, di cui siamo anche gli artefici singolari e collettivi a un tempo. Date queste premesse, è lecito domandarsi se una moda di immaginario meno orientata al nichilismo produrrebbe una revisione istantanea o quasi del nostro rapporto alla realtà. In assenza di un’ipostasi di reale che all’immaginario si contrapponga come contravveleno, non è ragionevole ipotizzare che, in presenza di una cospicua sovversione del discorso egemone, assisteremmo a una perfetta, istantanea, universale conversione degli “spettatori” alla nuova fattura “buona” dell’immaginario? Il farmaco impregnerebbe all’istante tutto il corpo dissanguato. Diverremmo angeli di formaldeide? Aver versato tutto il sangue vuol dire essere già morti – siamo morti, dunque? Se siamo morti, dobbiamo risorgere: così dicono le profezie.

Il problema, però, è il dove della resurrezione. Perché una revisione dell’immaginario ci tratterrebbe ancora, comunque, al di qua del suo regime totalitario – al di qua di una verità in senso classico, intesa come dis-velamento. Saremmo angeli per condizionamento immaginale-imitativo – come oggi siamo demoni per lo stesso motivo, entro un orizzonte perfettamente immanente al regime dell’immaginario. L’amore rivalorizzato a scapito delle narrazioni nichilistiche che l’hanno accompagnato finora diverrebbe nuova “moda”, lasciando sostanzialmente immutata la struttura ameboide della nostra volontà alienata, oppressa, contagiata dal medium. Angeli di formaldeide, appunto: non morti e risorti, non salvati, non messi in salvo nel luogo della verità.

È uno scenario auspicabile, questa salvezza-non-salvezza, transumanismo strumentale e modaiolo? Verrebbe da dire di no, date le premesse, ma non saprei davvero. Ho una qualche esperienza diretta di quanto disfunzionale possa essere una bontà indotta dal condizionamento dell’immaginario, ma non fatico a proiettarla su scala globale come auspicabile succedaneo, mej-che-niènt. Il “buonismo” di cui spesso si sente parlare, credo, è precisamente questa prassi della bontà per immagine, nemmeno più volontaristica – non ce la immaginiamo nascere da un dostoevskiano “Voglio essere buono!” pronunciato tra i singhiozzi – né condizionata da un itinerario spirituale di morte e resurrezione come sono le autentiche conversioni – dicono – ma puramente imitativa, influenzata dal discorso egemone dei giusti. Subire il condizionamento buonista della narrativa edificante, in quest’epoca di schizofrenia e scissione radicale della soggettività, potrebbe indurre una sorta di assoluzione consolatoria di sé che paralizzerebbe ancor di più il percorso della salvezza: perché almeno, se anche buoni non si è, si sta per lo meno dalla parte buona del discorso, si sa cos’è il bene. Ma d’altronde, possiamo ancora credere alla prospettiva della conversione autentica? Alla rottura dello “schermo d’immagini”, alla folgorazione che rompe tutte le rappresentazioni? Forse solo certi nostri vecchi ne sono stati, a loro tempo, capaci.

Oltre una certa misura di comprensione del nostro mondo – portando la cultura all’estremo, parafrasando Girard – non c’è nulla in cui non potremmo credere, dato il potere di condizionamento mimetico dei nostri media. Nemmeno in un mondo pieno d’amore: ecco la tesi. Ma sarebbe, questo mondo affatturato dall’industria del valore immaginale, un mondo di salvati, un mondo salubre, un mondo salvo? O non invece un mondo di massima Zwietracht, perché i buoni per figura e i cattivi per figura – identicamente buoni e cattivi nella figura, che li affratella nella forma umana destinale di veline, di tigri di carta, di copie di copie di copie – sarebbero i nuovi protagonisti di una estenuante, comica e demenziale guerra degli identici? Che è forse già qui mentre scriviamo, e me ne convinco ogni volta che apro un social e leggo di buoni che gridano contro i cattivi – quando l’unica vera reazione aggregante e salvante per il nostro futuro sarebbe il perdono anche volgare, esibito, la pietà identica per le vittime e i carnefici. È una cosa così vera per me che non capisco come si faccia a non capirlo.

La mia paura di fronte a questa fattura sottile dell’immaginario, fuori dal quale non esiste nulla, mi appare in tutta la sua nuda verità quando leggo storie come quella del povero Willy e istintivamente provo pietà anche per i fratelli Bianchi. Non è nemmeno più colpa del mio girardismo automatico, che mi fa prendere sempre le parti della vittima – che per definizione è solo e unicamente colei che in quel momento è oppressa dal linciaggio, e quindi ora è Willy, ora sono i fratelli Bianchi – ma la convinzione che l’abolizione della distinzione tra buoni e cattivi nasce e prolifera nell’immaginario, non nel nichilismo o nel relativismo o nel girardismo. È in un film che tutti sono uguali – mentre nella vita reale Mario mi fa schifo e Luigi lo amo, senza necessariamente un perché. Il perdono divino può essere concesso dalla posizione arrogante dello spettatore – o del narratore – ma è solo Dio che può essere così magnanimo ed equanime con i suoi figli, mentre noi, creature incarnate, odiamo ed amiamo… fintantoché siamo incarnate. Disincarnarci nel prossimo futuro significherà farsi dèi, osservare tutto con il distacco dello spettatore? Perdonare, dunque? Ma dalla posizione di spettatori indifferenti o di uomini finalmente fatti dèi? Raggiungere questo grado di illuminazione significherà anche non sentire la vicinanza con niente e con nessuno, non essere più sedotti dall’umano nella sua forma particolare, sporca e irragionevole? Questo mi affascina e mi terrorizza enormemente.

Uomini e donne pacati, privi di passione, buoni per posizione (socio-economica, certo, ma soprattutto culturale) che considerano tutto con una tolleranza piena di modesta e umile saccenza. Non sentire la frattura con l’altro (perché lo capisco), non subire la crudeltà mai, perché ci hanno insegnato ad approfondire le ragioni dell’altro, a identificarci – a immaginarcelo, l’altro. Certo, quello che dici è comprensibile e io lo accetto, è simile a quell’altro caso, è lo stesso che è successo a mio cugino… e nell’immagine che prolifera, tra i doppioni (nemmeno veri “doppi”) e le analogie, la passione per l’umano si spegne sempre più. A quanti miei coetanei ragionevoli ho sentito fare di questi discorsi. Alme sdegnose ridotte a una mitezza non santa, ma esausta, di spegnimento e non di conversione. Sarà questa la fattura futura del genere umano “salvato”? Uomini e donne buoni, ma di una bontà priva di passione, che guardano la vita da spettatori, sorridenti ancora ma annoiati, come dopo la ventesima visione dello stesso film.


Mimi wo sumaseba è il film che, se fossi condannato a riuscire questa specie di adulto – che ancora non mi sento, sebbene tutto sembri dirmi che già lo sono – non mi stancherei mai di rivedere. Esso è davvero per me l’eccezione, sebbene ancora perfettamente inerente all’immaginario. Non me ne so spiegare la ragione, se non con qualche ipotesi magico-destinale che mi colleghi ad esso, come ad un talismano assegnatomi da uno spirito-guida in vista della mia salvezza. Ecco la ragione per cui ho ingannato il lettore, partendo da questo anime che non si fa sistema nel mio discorso, per un ragionamento più… disincarnato, appunto, ma che denuncia per difetto il rapporto profondamente carnale che ho con questo film.

Immagine o non immagine, teniamoci cari questi talismani, se ci capita di riceverne. Un talismano è certo immagine di noi per altri, ma per chi lo porta al collo è una presenza-assenza quasi invisibile, che solo ogni tanto, quando vi si inciampa o ci si strozza quasi, torna a bucare la realtà della sua presenza – e allora lo vediamo veramente, fuori dalla sua immagine per noi e per gli altri.

Non so se mi sono spiegato. Comunque, guardate assolutamente Mimi wo sumaseba.


* * *


(1) Il regista, Kondo Yushifumi, muore di aneurisma tre anni dopo l’uscita – è il suo esordio di quarantenne alla regia. Dio ha fatto di lui quello che non ha avuto cuore di fare con Hideaki Anno – spero, perché si attende di lui qualcosa di più grande ancora di Evangelion. Rivedo questo film a ritmi alterni da molti anni ormai. Mi permetto di evocare di seguito alcune enormità connesse alle molte visioni e revisioni – il che devia solo in parte dall’intenzione dell’articolo, come spero si capirà. Quasi in tutte le classi di scuola media in cui ho insegnato ho fatto vedere il film – e dove non l’ho fatto è perché non ne ho avuto la possibilità. Le reazioni sono state sempre, direi, interessanti. Le ragazze erano mediamente più colpite, e sembra quasi banale dirlo. Una pianse molto, sebbene cercasse di nasconderlo. Una mi ringraziò per averglielo fatto conoscere, e al termine della mia supplenza di allora mi regalò una pallina di das che rappresentava me come una pietra grezza, secondo l’insegnamento del nonno di Seiji: mi scrisse, quella ragazzina di undici anni, che se mi fosse mai capitato di dubitare di me stesso avrei dovuto rivolgermi a quell’oggetto come a un memento del mio stato di incompiutezza, condizione che condividevo con quei ragazzi cui volevo insegnare di coltivare sé stessi. Il messaggio fu dunque restituito al mittente con un sovrappiù di senso che ancor oggi, al ricordo, mi scuote di commozione. Un’altra ragazza ne condivise anni dopo un fotogramma su un social: questo dettaglio me lo fece tornare in mente – non lo rivedevo da parecchio – e mi indusse a mostrarlo di recente a una persona che ne fu letteralmente sconvolta, come accadde a me la prima volta. Non dubitai che tali coincidenze costituissero quasi una catena di segnali del destino, analoghi al tragitto del gatto Moon, randomico eppure perfettamente funzionale allo sviluppo della storia di Shizuku e Seiji. Discussi parecchio con quella persona sui personaggi e sulla trama, e sostenni di identificarmi soprattutto con il nonno di Seiji, intento a guardare i ragazzi che si innamorano. La meraviglia del mio lavoro di insegnante sta pressoché tutta in questa possibilità che mi è offerta quotidianamente – sebbene ciò comporti, come contropartita, l’impossibilità di identificarsi con Seiji.

(2) Illuminante, sebbene molto complessa, l’analisi di Foucault in Le parole e le cose (cito dall’edizione Rizzoli, Milano 2016). L’identico pletorico, proprio dell’epistéme del XVI secolo cede il passo al pensiero “classico” del XVII secolo, che è all’origine del fenomeno di cui si sta parlando: «A partire dal XVII secolo ci si domanderà in qual modo un segno può essere legato a ciò che esso significa. […] La profonda inerenza reciproca di mondo e linguaggio si trova in tal modo disfatta. Viene conseguentemente a mancare lo strato uniforme in cui s’intrecciavano senza tregua il veduto e il letto, il visibile e l’enunciabile. Cose e parole si separeranno. […] Il discorso avrà bensì per compito di dire ciò che è, ma non sarà nulla più di ciò che dice.» (op cit., p. 58).

(3) È questa una delle profezie di Jean Baudrillard, che al trionfo dell’immaginario dedica saggi illuminanti. Il tema è, anche lì, l’«indifferenza profonda al principio di realtà conseguente alla perdita di ogni illusione». L’immaginario è l’indecidibile, perché la dicotomia reale-virtuale è spezzata. Non c’è realtà che funga da cartina di tornasole della menzogna, «perché non c’è più un universo di riferimento. Perché l’illusione è morta, o perché è totale» (Le strategie fatali, SE, Milano 2007, p. 80). Da questa trovano dignità storica, per lo meno come sintomi veridici, movimenti come quelli dei Terrapiattisti. Non diciamolo in giro, però.

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