top of page
Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

La guerra dei Rohirrim | Focus… sul tema della guerra



Innanzitutto del lungometraggio animato La guerra dei Rohirrim va detto che è incentrato su ciò che il titolo promette. La prima stagione della serie televisiva Gli Anelli del Potere ha insegnato in maniera emblematica che non è scontato. Al di là dei precedenti è il caso di sottolinearlo, perché con buona pace del dibattito se il protagonista sia Helm oppure la figlia Héra, il titolo non è dedicato a nessuno di loro due e la storia coerentemente con ciò effettivamente si focalizza sulla guerra, i cui attori normalmente sono tanti (anche se Hollywood ha abituato all’idea che le guerre vengono risolte da un eroe da solo. Ribadiamo: Hollywood, non Tolkien). Per questo motivo ci concentreremo unicamente sul tema della guerra. Sugli aspetti tecnici ed estetici già tanto si è detto, quindi aggiungere l’opinione personale di un’incompetente su questi argomenti al già stracolmo calderone delle opinioni sarebbe puro e narcisistico spreco di tempo.

Ma prima di approfondire questa storia è utile una premessa. Chi di Tolkien conosce solo Il Signore degli Anelli ha esplorato soltanto una parte delle descrizioni, ma soprattutto della sua visione complessiva sul fenomeno bellico. Chi ha letto Il Silmarillion sa (o dovrebbe sapere) che la questione è ben più complessa (sul tema della guerra dei Noldor abbiamo già dedicato un articolo). Si potrebbe sintetizzare il tutto con l’idea che per lo scrittore inglese c’è una profonda differenza tra la lotta per la difesa di sé e degli altri, degna di essere glorificata e descritta in toni epici, e lo scontro in nome del proprio orgoglio e della vendetta contro gli altri, la cui descrizione assume tinte ben più cupe (del problema che questa distinzione non è valida per Girard, il critico letterario a cui è dedicato questo blog, si è occupato Matteo Bisoni in un suo articolo). Basta che il conflitto sia tra individui della stessa “razza” (Elfi contro Elfi per esempio), senza che neanche appartengano allo stesso popolo o alla stessa stirpe, e Tolkien non ha scrupoli a definirlo un fratricidio, termine evidentemente molto forte e inequivocabile.



Passiamo quindi alla guerra dei Rohirrim e già il fatto che sia tra Uomini è un indizio non secondario. Ma ancora più importante è naturalmente vedere le ragioni che la fanno scoppiare. Molto apprezzabile è che su questo punto così fondamentale la trasposizione segue abbastanza pedissequamente l’Appendice di Tolkien. La proposta di matrimonio e il suo rifiuto sono semplici pretesti: sia nel testo scritto sia nel lungometraggio animato lo scontro tra Helm e Freca è chiaramente frutto dell’orgoglio di entrambi, che si esprime peraltro in maniera particolarmente vile nella forma degli insulti reciproci. La trasposizione è attenta riportare persino le esatte modalità con cui si sminuiscono a vicenda, Helm che dà del grassone a Freca e lui che risponde dandogli del vecchiaccio. Bisogna addirittura dire che se non c’è fedeltà assoluta, è solo per offrire un’immagine meno cupa proprio di Helm: Tolkien non specifica che la figlia del re di Rohan è contraria al matrimonio – e con l’aggiunta di questo particolare Héra sembra fare un favore al padre e al patriarcato invece che dimostrarsi un’oppositrice –, né scrive che Freca è il primo ad alzare le mani, anzi al contrario egli è “costretto” – questo è il termine dell’Appendice nella traduzione italiana – a uscire dalla reggia di Edoras e quello che lo uccide sembra essere l’unico pugno a volare, di fatto è l’unico riportato. All’orgoglio dei padri segue la sete di vendetta dei figli: in entrambe le versioni Wulf viene bandito e diventa il nemico.

Si arriva alla guerra vera e propria. Per tutto quanto è emerso finora è semplicemente assurdo volere nella trasposizione i toni epici de Il Signore degli Anelli. Le tinte sono molto cupe ed è molto corretto che lo siano. Rohan viene sconfitta, «Wulf s’impadronì di Edoras e s’installò a Meduseld, facendosi chiamare re», Helm perde entrambi i due figli maschi. A ribadire con quali tinte dobbiamo rappresentarci questa storia arriva il Lungo Inverno, che non ha niente di fantasioso, al contrario è un chiaro richiamo alla (è proprio il caso di dirlo) nuda e cruda realtà della guerra. A questo proposito è molto apprezzabile che il lungometraggio non dimentichi che anche i nemici «soffrirono duramente il freddo e la lunga carestia», perché è il caso di ricordarlo, anche loro sono Uomini. Non fosse ancora chiaro, questa non è la Guerra dell’Anello. E non deve esserlo.



Se nella fase finale della vita del re di Rohan l’Appendice presenta un certo eroismo nel suo tentativo di rompere da solo l’assedio intorno a quello che poi sarà ricordato come il Fosso di Helm in suo onore, si tratta però di un eroismo dai tratti anche mostruosi (Girard e altri studiosi di miti hanno osservato che spesso gli eroi hanno curiose somiglianze con i mostri): «soleva […] attraversare come un Troll delle nevi il campo dei nemici, uccidendone molti con le proprie mani» e loro sostenevano «che in mancanza di altro cibo egli si nutrisse di carne umana». La sua morte è all’insegna di un congelato orgoglio, che di fatto non salva il suo popolo. Ancora una volta nella trasposizione la presenza di Héra fa più comodo che scomodo al vecchio sovrano, che con lei ha un momento di riconciliazione: alla sua morte viene aggiunto un elemento di cura nei confronti della figlia completamente assente nella versione originale.

Per quanto riguarda Wulf l’Appendice non offre molti spunti per approfondire il personaggio, ma è interessante notare come nella trasposizione sembra che si sia presa a modello la fase finale della vita di Fëanor (a cui è stato dedicato un altro articolo), i cui ultimi atti nell’ordine sono il fratricidio dei Teleri, l’abbandono di una parte dei Noldor che lo avevano seguito, fino all’apice della follia in cui egli si getta da solo contro i Balrog contro cui muore. L’elemento profondamente tolkeniano nel lungometraggio animato è proprio la sempre più evidente insensatezza della guerra, della vendetta, di ciò a cui spinge l’orgoglio. Emblematico è il momento in cui come unico motivo per protrarre ancora l’assedio dopo la morte di Helm, dopo aver sperperato tutto (“a piene mani” verrebbe da dire pensando a Melkor), Wulf adduce il fatto che non vuole mostrarsi debole agli occhi di colei che lo ha respinto come sposo. Non c’è niente di più cavalleresco di un duello spinto al di là di ogni logica razionalistica ed economicistica in nome dell’onore e dell’orgoglio, non c’è niente di più tolkeniano (e autenticamente cattolico) che denunciare il peccato originale dei più ideologici e assurdi fratricidi tra gli Uomini.

Vera e propria figura del cavaliere errante che concepisce la propria libertà come assenza di legami e costituisce il proprio sé nel desiderio continuo dell’avventura, cioè dell’ostacolo da superare, è anche Héra. In questo senso lei e il suo rivale Wulf sono a tutti gli effetti due che Girard definirebbe doppi mimetici. Il fatto che la narrazione “modernamente” presenti un cavaliere errante di sesso femminile non fa altro che confermare l’ipotesi del critico letterario medievale De Rougemont (punto di riferimento per Girard, per Lewis e forse anche per il suo amico Tolkien), secondo cui è proprio in una certa ideologia medievale che si ritrovano le radici di un’altra contemporanea, che pure si crede così distante. Héra avrebbe legittimamente posto in una trasposizione del mondo tolkeniano se mostrasse che la sua posizione non tanto è anti-cattolica in quanto contraria al dovere del matrimonio, ma che lo è in quanto celebra un desiderio per l’ostacolo, che in ultima istanza è un desiderio per l’ostacolo supremo, cioè la morte. Ed effettivamente anche per lei c’è un momento emblematico, in cui è massimamente dichiarativa, quando afferma di aver indossato un vestito da sposa per sposarsi proprio con la morte.

Il duello conclusivo tra i due cavalieri dovrebbe avere un solo esito, ma nel finale il lungometraggio tradisce se stesso a causa probabilmente della necessità imposta dal contesto contemporaneo (scandalizzato dalle radici delle sue ideologie) di un lieto fine, che nulla ha a che fare con il concetto tolkeniano. Se è lecito esprimere un’opinione personale, la morte di entrambi i due rivali (come nel film The Northman, tanto per citare un esempio recente), lasciando libero il campo a Fréaláf, unico personaggio realmente positivo, sarebbe stata la degna conclusione di un’opera tragica davvero cavalleresca in maniera correttamente critica e profondamente tolkeniana. Ma forse era pretendere troppo persino da una che si è spinta fino a sfidare l’aspettativa di tutti gli appassionati delle guerre epiche e dalle motivazioni “intelligenti”. Così i due cavalieri diventano due sempliciotti, lui il solito cattivo meschino, lei la solita buona costretta all’autodifesa, e il lungometraggio animato per quanto riguarda il sottoscritto non ha più nulla di interessante da dire.



24 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page