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Animescatologica | Biopolitica o libertà

Aggiornamento: 11 gen 2022



Parlare di biopolitica oggi è come parlare di spread nel 2012: si rischia di dire un sacco di scemenze, e lo fanno già in tanti. Parliamo allora di biopolitica domani, con il supporto di qualche bell’anime. Me ne vengono in mente due, entrambi molto recenti: il film Harmony (2015), tratto dal romanzo di Project Itoh, e la serie Babylon (2019). Il primo è un racconto di fantascienza ambientato in un Giappone nel quale vige un totalitarismo biopolitico perfetto: i cittadini sono sorvegliati quanto alla loro salute fisica e guariti istantaneamente da dispositivi biomedici impiantati nel loro corpo. Il secondo è un thriller politico distopico nel quale un’ipotetica autorità nazionale giapponese ha reso legale non solo l’eutanasia ma il suicidio stesso, causando grande confusione nel dibattito pubblico del pianeta. In entrambe le opere sono in questione la legittimità e la bontà di un governo biopolitico degli esseri umani, cioè l’ammissibilità di un controllo più o meno diretto, sia attraverso la forza costrittiva della legge che quella persuasiva della norma, di un’autorità statale o di una qualunque potenza-principato sulla vita delle persone. Una questione che oggi è all’ordine del giorno a causa del covid, e che organizza il dibattito pubblico – almeno quello italiano, per quanto ne so – in una maggioranza disposta a rinunciare ad alcune libertà per rimettere ai poteri costituiti la gestione delle salute pubblica e una minoranza che si oppone a questa scelta per i più diversi motivi, dal complottismo a un’irriducibile fede liberale.


Dal punto di vista futuristico e distopico dei due anime suddetti, il covid e i problemi che pone appaiono ben poca cosa. In Babylon, l’ammissione del suicidio come pratica consentita e regolamentata ha i caratteri di un superamento apocalittico, che traghetterebbe l’umanità verso una “nuova era”, nella quale i concetti stessi di bene e male sarebbero rimessi in gioco e le ragioni della morte, cioè del male, verrebbero riproposte in una luce positiva; in Harmony, per contro, il dispositivo biomedico chiamato “WatchMe”, che guarisce istantaneamente qualsiasi alterazione della salute degli individui, avrebbe risolto la pandemia in mezz’ora, con buona pace sia dei virologi che dei complottisti. L’esercizio di immaginarsi personaggi di queste narrazioni distopiche guadagna allo spettatore – sia detto di sfuggita – quella quiete che riesce dalla relativizzazione dei drammi epocali che crediamo di vivere, e che sono invece semplici tappe, e spesso ingloriose, della storia umana. Verrà un giorno in cui il covid sarà sconfitto e la medicina avrà raggiunto il suo massimo sviluppo? Probabilmente sì. Sarà quindi esaurito il problema sollevato dai critici dello “stato di emergenza perpetuo”, come Agamben e Cacciari, che cercano di riportare l’attenzione di tutti sul problema cruciale delle libertà che, per una causa giusta o meno che si creda, sono revocate in questo frangente storico?

La mitezza del regime di sorveglianza cui siamo condannati a causa del covid, dicono molti, dovrebbe bastare a rassicurare gli animi dei più libertari: basta vaccinarsi, uno, e i benefici sono maggiori dei rischi, due. C’è da far tanto chiasso, paventando la soppressione delle libertà costituzionali? Va bene, ma quando finirà questo regime?, domandano i paranoici. Esiste una fine dello “stato d’emergenza”? E poi: andando indietro nel tempo, non notate anche voi filogovernativi una certa continuità ovvero una ricorsività di stati emergenziali che rendono necessarie misure di controllo sempre più stringenti sui cittadini? Dagli anni di piombo alle guerre di mafia all’undici settembre al terrorismo islamico al covid… le emergenze si susseguono senza sosta e determinano uno stato crescente di agitazione e panico generalizzato i cui effetti sono evidenti a chiunque, se confrontiamo la paura episodica che avevamo dei voli aerei nei primi duemila, la sorda inquietudine che ci assaliva in metropolitana a metà degli anni dieci e l’assoluto terrore dei luoghi pubblici che ha generato il covid.

Per come sono poste nel presente storico che stiamo vivendo – e qui dico la mia – queste questioni sono irrisolvibili. In noi la norma biopolitica di tutela della salute come somma istanza di interesse pubblico è troppo radicata e autoevidente perché qualsiasi legittima rivendicazione storico-giuridica, come quelle di Agamben e Cacciari, induca a una revisione o a una relativizzazione della bontà dell’operato governativo. Per questa ragione penso che sia meglio parlare del futuro, ovvero di come questo è stato immaginato da certi anime giapponesi prima che il covid esistesse – sia il romanzo da cui è tratta la serie Babylon che il film Harmony sono del 2015.



Caliamoci innanzitutto nel vivo della questione posta in Babylon: il suicidio è un bene ammissibile giuridicamente?, si domandano i personaggi della serie, e in particolare il presidente immaginario degli Stati Uniti, chiamato a rispondere in prima persona. Detto altrimenti, ma con le parole e i concetti stessi dell’anime: è possibile ammettere in quanto autorità politica un gesto come il suicidio, che viola la naturale intesa che noi tutti abbiamo di cosa sia bene – cioè “continuare ad esistere” – e male – cioè “smettere di esistere”? Tale ammissione avrebbe una ricaduta sull’orientamento generale dell’opinione pubblica, che unanimemente considera la morte come un male. Allo stesso tempo, una legge sul suicidio restituirebbe ai cittadini la completa libertà di autogestione del corpo, e si configurerebbe dunque come un’iniziativa massimamente liberale, anzi proprio anarchica, da compiuta Età dello Spirito. Non si parla qui di suicidi commessi per disperazione o infermità, ma di una scelta liberamente perseguita, cui lo stato e la società civile garantirebbero non solo il loro assenso, ma anche mezzi assistenziali e facilitazioni. Il promotore dell’iniziativa, il sindaco Itsuki, parla a buon diritto di un provvedimento rivoluzionario, paragonando la legge sul suicidio all’invenzione del fuoco: uno strumento di cui gli esseri umani imparerebbero a servirsi per cambiare completamente il volto del pianeta. Ha ragione: riusciamo a immaginarci che aspetto avrebbe una società nella quale la morte non fosse più considerata come un male? E nella quale questa non fosse ovviamente inflitta dal potere violento, ma garantita come diritto costituzionale all’individuo libero non solo dalla legge, ma persino dalla norma, dalla soppressione del tabù morale che orienta il giudizio delle persone circa la negatività della morte?

In Babylon la rivalutazione del suicidio è associata all’incredibile potere di un personaggio femminile, Ai Magase, che riesce a sedurre gli uomini alla morte come incitandoli verso un orgasmo a lungo trattenuto. In questa associazione di morte e godimento è evidente l’influenza di tutta una letteratura europea che culmina in Bataille. Ai Magase, per giunta, è presentata come la “meretrice di Babilonia” di cui si legge nell’Apocalisse giovannea, come “donna malvagia” e tentatrice satanica. Ai giapponesi l’antropologia cristiana piace, si sa. Tale associazione di morte e godimento potrebbe indurre i più a considerare la storia di Babylon come una sorta di epopea gnostica, che concepisce la dolce morte, lo scioglimento nell’LCL, come unica prospettiva di redenzione per gli esseri umani e il mondo, ma tale lettura non è esatta. In questione, nella tentazione di Ai Magase, c’è altro, ovvero la petizione di principio su cui si fonda la nostra civiltà, prima cristiana e poi borghese: che la vita sia un bene assoluto e che vada difesa ad ogni costo; che la morte ne sia il contrario, dunque vada rigettata e sepolta sotto le fondamenta della civiltà. Un pensiero molto semplice, automatico, quasi oggettivo. Il presidente degli Stati Uniti, quando giunge alla formulazione della semplicissima idea che “bene” equivalga a “continuare” e “male” a “finire”, è entusiasta e vorrebbe comunicarlo subito a tutto il mondo – ma è intercettato da Magase, che con una sola parola lo induce a suicidarsi, eccitandolo all’inverosimile. La consapevolezza che “finire” equivale a “male” non è intaccata da questa eccitazione, e però il presidente non può fare a meno di correre verso il tetto della Casa bianca per suicidarsi. Un’analoga contraddizione logica era sovvenuta anche a Freud, nel misterioso e inquietante Al di là del principio di piacere, di cui non a caso si nutre tutta la mistica gnostica novecentesca. Ma di nuovo, non è di questo che si sta parlando…



Passiamo a Harmony, film ambientato in un futuro lontano nel quale lo stato giapponese ha letteralmente la salute dei cittadini nelle proprie mani e le malattie sono scomparse. In questo Eden terreno, prodigio – questo sì – di ingegneria gnostica, si verificano improvvisamente dei comportamenti anomali: suicidi di massa indotti da quello stesso dispositivo biomedico – il “WatchMe” – che serviva a controllare e assicurare la salute dei cittadini. Cos’è successo? Un’improbabile bioterrorista molto kawaii di nome Miach – anche lei donna: sarà un caso? – lettrice di Foucault e non digiuna di pratiche di controllo sociale, ha messo in atto un’ingegnosa strategia della tensione, provocando i suicidi di massa per indurre l’OMS e i signori del totalitarismo biopolitico ad attivare un dispositivo di emergenza, il progetto Harmony, che priverà gli esseri umani del libero arbitrio e li asservirà definitivamente alla dittatura della vita e della salute, estirpando la radice stessa della volontà umana che ancora residuava come ultima barriera da abbattere per garantire la salus perfetta – la salute-salvezza – al genere umano.

La statura intellettuale di Miach è molto più complessa di quello che può sembrare da questo breve e manchevole riassunto. Così presentata, superficialmente, ella può apparire niente più che un’avventuriera gnostica, molto affine al Gendo Ikari di Evangelion, che per risolvere il problema della sofferenza umana sogna di sciogliere le individualità conflittuali delle persone in un pastone armonico nel quale le “mura dell’animo”, foriere di tanto dolore, siano finalmente abolite. C’è di più, però.



Miach è ultima erede di un’etnia di origine cecena nella quale la coscienza emozionale è sopita o spenta, i cui membri compiono sempre scelte razionali e ponderate, come fossero agiti da un elaborato sistema di calcolo costi-benefici. Subendo indicibili torture durante la fanciullezza, però, ella avrebbe sviluppato qualcosa di molto simile alla coscienza: la facoltà di provare dolore e desiderio – proprio ciò che ci rende, ancora oggi, umani, e diversi da un calcolatore elettronico. Così traumatizzata, l’adolescente Miach ha opposto un netto rifiuto nei confronti della dittatura biopolitica del Giappone in cui è cresciuta, adottata da una famiglia locale. Ella infatti, avendo compreso cosa sono la coscienza e la libertà, disprezza l’imposizione governativa della vita-salute come alienazione di ciò che rende umano l’umano – appunto la libertà-coscienza – e rivendica la sovranità sul proprio corpo tentando il suicidio insieme a due compagne di classe. Una di queste è l’altra protagonista del film: Tuan. Istruita dalla filosofia di Miach, la giovane amica della futura bioterrorista sviluppa un analogo disgusto per il Giappone che l’ha cresciuta in una simulazione di bontà e felicità, nella quale le persone non perseguono il bene e la vita per libera scelta, ma perché indotte da un sistema che le ricompensa dei comportamenti virtuosi assegnando loro un punteggio sociale verificabile attraverso dei dispositivi di realtà aumentata, grazie ai quali la collocazione di ciascuno nella scala sociale dei cittadini virtuosi è immediatamente apprezzabile. Tuan avanza per le strade del Giappone dal quale vorrebbe fuggire il prima possibile mentre le “schede personaggio” dei cittadini che incontra le rimbalzano caoticamente sulla retina. Il suo disgusto raggiunge l’apice quando, di fronte a un suo malore, una brava cittadina con punteggio sociale 79 le offre il suo posto in metropolitana, con un sorriso falso e imposturato che dà la misura immediata di quanto il bene che quella società dispensa a larghe mani non sia prodotto di una libera scelta, ma risultato di un calcolo interessato alimentato dal conformismo sociale. Come si può vivere in un mondo del genere?



A queste condizioni, dice la giovane Miach, il suicidio è un gesto politico che rivendica immediatamente libertà e sovranità sul proprio corpo, e Tuan non può che approvare. Come si giunge, dunque, a una Miach poco meno che trentenne che sceglie di abolire la coscienza delle singole persone attivando il progetto Harmony con un’elaborata strategia della tensione su scala globale? Non è dato saperlo, ma qualche indizio ci potrebbe portare nella giusta direzione. Parlando della sua infanzia in Cecenia, vittima dei peggiori abusi da parte dei soldati russi, Miach paragona i territori di guerra ai regimi biopolitici più sviluppati, luoghi in cui l’umano è identicamente oppresso ed eliminato: là si è uccisi dalla crudeltà, qua dalla gentilezza. In Cecenia come in Giappone l’umano, cioè la libertà che coincide con l’esposizione alla violenza d’altri, è oppresso e abolito. Ma l’umano è appunto dolore ed esposizione: così ha appreso venendo stuprata in Cecenia, così ha compreso in Giappone quando le hanno impiantato il “WatchMe”. In questo inferno a due facce, nel quale alle persone è concesso di esistere solo sotto il magistero di un potere, violento o benevolo che sia, non si dà luogo dove l’umano possa essere difeso e coltivato – e allora meglio una servitù perfetta, piuttosto che una libertà costantemente revocata o violata. La scelta gnostica, in Miach, è il risultato di un percorso di parziale risveglio, elaborazione del lutto e finale disperazione. Ella è verosimilmente il personaggio intellettualmente e filosoficamente più complesso che sia mai apparso in un anime.


Nella scena finale del film, Tuan confronta Miach per l’ultima volta, accettando la sua scelta di consegnare il mondo a un oltrepassamento gnostico, sottomettendo gli esseri umani a un meccanismo biopolitico perfetto che spegnerà gli ultimi barlumi di sovranità individuale nel pastone dell’Eden terreno. Tuttavia, colpo di scena, poco prima di vedere annullata la propria individualità e quella di tutti gli altri esseri umani, Tuan spara a Miach, uccidendola. La spiegazione del gesto emerge dalle stesse parole dell’assassina: avendo sempre amato Miach, Tuan non può tollerare che quella singolarità irripetibile, sporca e irragionevole che è la vera Miach sia sciolta e ricomposta dal perfezionamento che il sistema Harmony opererà sulla sua anima. La Miach anestetizzata e irregimentata dall’Harmony non sarebbe la Miach che lei ha sempre amato – “e allora morte”, ma in un senso affatto diverso da quello che queste parole avevano nella risoluzione di Shinji di abbracciare il perfezionamento in Evangelion. Uccidere Miach, per Tuan, equivale a restituirle paradossalmente la libertà, a preservare la sua identità contro la tentazione gnostica che consentirebbe alle due amiche di ritrovarsi nell’Harmony, ma irrimediabilmente compromesse quanto alla loro identità, ingegnerizzate e spente, allacciate come ingranaggi della grande macchina biopolitica. Solo in un caso consimile, al di là di ogni facile romanticismo, la morte inflitta può avere effettivamente la stessa qualità dell’amore.



Tutto questo per dire…? Torniamo all’origine di questo articolo: parlare di biopolitica e libertà – biopolitica o libertà – come questioni della massima urgenza. L’emergenza covid, è vero, non costituisce ancora uno scenario apocalittico, per quanto concerne la libertà degli individui e la sopravvivenza della loro sporca e irragionevole umanità – quella libertà radicale che riveste di dignità e prestigio anche la più "impresentabile" rivendicazione di un no-vax. Uno sguardo profetico al nostro futuro, tuttavia, può aiutarci a mantenere vigile la coscienza – che ancora sussiste, per quanto oppressa – su ciò che conta veramente pensare oggi. Lo dirò finalmente nella maniera più esplicita: biopolitica o libertà? Cosa preferiamo – a mente lucida, ragionandoci bene, come il presidente degli Stati Uniti interrogato su cosa siano il bene e il male? Forse per ora non è ancora necessario dare una risposta, ma non è detto che, nell’arco della vita che ci rimane, non ci troveremo prima o poi al cospetto della nostra Miach, costretti alla risibile, miserabile alternativa tra una morte dolce e una semplicemente folle.


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