A cura di Marco Stucchi
M.S.: Nell’ultimo anno il Gruppo Studi Girard si è dedicato a un’accurata analisi del Decameron di Boccaccio. Studiare questo straordinario classico mi ha dato l’opportunità di conoscere diversi studiosi del certaldese. Uno degli incontri più curiosi e interessanti è stato quello con Antonio Fatigati. Nelle mie ricerche online mi è capitato infatti di imbattermi in una pubblicazione recente, Boccaccio teologo. Per una rilettura del Decameron (Mauro Pagliai Editore). Poiché non è stato facile trovare lavori con cui far dialogare le nostre analisi girardiane [1], questo titolo catturò immediatamente la mia attenzione, e il libro scalò rapidamente le pile di testi su Boccaccio che si formavano nella libreria. Informandomi più tardi sull’autore, scopro con sorpresa che abita a poche centinaia di metri da casa mia. Sospettando di trovarmi davanti a un segno della Provvidenza, mi sono quindi fatto avanti, chiedendo un’intervista, che è stata cordialmente concessa. Il Dottor Fatigati, diacono permanente della Diocesi di Milano, ha di recente conseguito un dottorato in teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. La sua tesi consiste in un tentativo di lettura teologica del Decameron. Boccaccio teologo intende riassumere gli esiti del suo lavoro, rivolgendosi anche a un pubblico non specialista.
Partiamo proprio dal titolo, certamente efficace in quanto inaspettato. Sembra infatti che già dai tempi della circolazione delle prime novelle ci sia stata una certa riluttanza ad ammettere l’esistenza di un complesso messaggio teologico nel Decameron. Come spiega la storia secolare di questa reticenza, che dura fino ai giorni nostri? Visto che il suo testo, rispetto a questo punto, rema decisamente contro corrente, può raccontarci la sua esperienza (di ricerca e di pubblicazione) a tal proposito?
A.F.: Credo che la comprensione del Decameron si sia modificata fin dal XIV secolo raggiungendo l’apice nel secolo successivo. Non a caso il testo entra subito nel primo indice dei libri proibiti nel 1559. Evidentemente il testo ha cessato presto di avere valenza teologica e pastorale ed è sopravvissuto come documento fondamentale di congiunzione tra medioevo e umanesimo oltre che capostipite dell’arte narrativa in prosa. Così, quello che era un testo che in modo complesso proponeva visione teologica, descrizione della realtà quotidiana degli uomini e intenti pastorali con forti riferimenti all’etica aristotelica secondo la rivisitazione di Tommaso, ha finito per essere considerato una raccolta di racconti superbamente scritti, capolavoro di ironia e spregiudicatezza. La messa all’indice del libro nel XVI secolo ha di fatto precluso la possibilità di studiare quel testo sotto un aspetto religioso ed ecclesiale. Ancora oggi è possibile ascoltare la testimonianza di sacerdoti anziani che raccontano come fosse loro vietata, negli anni del seminario, la lettura del Decameron…
Personalmente ho scoperto casualmente che l’atteggiamento di una parte (non di tutta, ovviamente e per fortuna) della critica letteraria ha prodotto proposte alterate dell’opera di Boccaccio arrivando persino a tagliare le parti finali della prima novella per giustificare una ipotetica intenzione dell’Autore di voler rappresentare l’astuzia di Cappelletto, capace di ingannare chiunque, simbolo elogiato dell’uomo che per superare ogni problema non ha remore a rappresentarsi diverso da come egli effettivamente è.
Proprio la scoperta di questa alterazione mi ha incuriosito e spinto ad approfondimenti che sono sfociati nella ricostruzione del pensiero teologico di Boccaccio così come lo si può ricostruire attraverso i suoi studi, le sue lettere, la sua biblioteca, le sue novelle.
M.S.: Eppure in diverse sue opere Boccaccio è stato assai esplicito sull’unitarietà di teologia, filosofia e poesia. A suo parere la moderna specializzazione del sapere può aver rappresentato un ostacolo per la comprensione di questo autore? E dove risiede, secondo lei, l’unità del Decameron?
A.F.: Mi pare che, grazie soprattutto alla lezione di Bloch e dei suoi Annales, a partire dagli anni Venti del secolo scorso si sia assistito a un recupero della necessità di uno sguardo d’insieme il più ampio possibile quando si affronti qualsiasi tema storico, letterario, politico, etc. Purtroppo, per quanto riguarda il Decameron e anche il suo Autore, ritengo di non sbagliarmi nell’affermare che per l’ostilità del mondo religioso verso le sue novelle e l’indifferenza del mondo non religioso verso la teologia, essi siano stati consegnati nelle sole mani della critica letteraria che ne ha correttamente valorizzato la dimensione narrativa riconoscendo la paternità della narrazione moderna. Così facendo sono state però trascurate molte ulteriori percezioni. Probabilmente l’esempio più eclatante in questo senso è la valutazione di Auerbach che nel suo Mimesis sostiene che nel Decameron << […] si sviluppa un’etica definita, che posa sul diritto dell’amore, una morale del tutto pratica e terrena, che è essenzialmente anticristiana>>. Ora, immaginare che uno scrittore del XIV secolo potesse essere anticristiano in una società che neppure immaginava tale orientamento, è quanto meno antistorico. Soprattutto, viene trascurata la palese dichiarazione di fede che Boccaccio affida ai capitoli XIV e XV del suo De genealogie deorum gentilium, dove, per esempio, scrive: <<Io infatti, fin dall’utero di mia madre, portato e lavato al fonte della nostra rigenerazione, fino ad oggi – come è possibile all’umana fragilità – ho conservato quello che per me catecumeno, promisero quelli che mi sollevarono dal fonte, e sempre ho avuto per vero quello che si canta nelle assemblee di uomini giusti: che esiste un Dio solo, nella distinzione delle tre persone, e che questo è vero ed eterno e di tutte le cose ugualmente creatore; e inoltre, che per opera mirabile e mai udita dallo stesso Dio, accadde che il suo Verbo eterno, adombrato dallo Spirito santo, per cancellare la colpa del genere umano, contratta per la disobbedienza dei primi genitori, preannunciato da un angelo, si fece carne nel seno di una vergine onesta; […]>>.
Mi pare dunque che per cercare una unitarietà nel Decameron occorra tenere insieme tre elementi: l’intenzione di Boccaccio di manifestare delle intuizioni teologiche derivate dalla frequentazione con gli agostiniani e dalla teologia tomista; il contesto sociale in cui egli vive con tutte le contraddizioni ecclesiali, sociali, politiche del tempo; la geniale capacità di Boccaccio scrittore e la sua originalità nel ricercare e raccontare storie. Qualsiasi tentativo di separare questi elementi conduce a una appropriazione indebita della sua opera.
M.S.: A tal proposito, ritengo che una comprensione corretta del Decameron non possa prescindere da un confronto con il capolavoro di Dante. Spesso, tuttavia, l’influenza che la Commedia di Dante ha esercitato sul Decameron viene derubricata ad aspetti marginali – si pensi, ad esempio, al ruolo del numero cento nella suddivisione dell’opera. Nel corso dei suoi studi ha rintracciato un’influenza più significativa che intercorre tra queste due colonne portanti della nostra letteratura?
A.F.: Non è una novità per nessuno che Boccaccio amasse profondamente l’opera e il pensiero di Dante e in particolare la Commedia. Dobbiamo peraltro a Boccaccio e al suo Trattatello la prima biografia di Dante. Per rispondere alla sua domanda vorrei però sottolineare che nel XIV secolo prosegue una delle battaglie culturali più interessanti, ovvero quella della difesa della poesia come strumento dello Spirito Santo per agire nel mondo. La difesa che Boccaccio farà nei capitoli XIV e XV del suo De genealogie deorum gentilium risente proprio di questo clima di diffidenza da parte del mondo religioso nei confronti della poesia (che, ricordiamolo, non va’ disgiunta dalla prosa come oggi siamo abituati a fare). Il legame di Boccaccio con Dante, ma anche con Petrarca, deve a mio avviso tenere conto dello schieramento dei tre grandi del pensiero italiano in difesa della classicità, del poetare, del fare teologia senza dover essere accusati di paganesimo. Lei ha già ricordato del riferimento al numero 100, che immediatamente colpisce come coincidenza tra la Commedia e il Decameron, ma altre coincidenze sono sicuramente interessanti: il viaggio ultraterreno di dante e la narrazione del mondo come è e come dovrebbe essere di Boccaccio cominciano quando entrambi sono a metà della loro vita, 35 anni (vale appena la pena ricordare qui, a proposito dei riferimenti biblici disseminati ovunque nella letteratura del ‘300, che l’età dell’uomo fissata in 70 anni deriva dal Salmo 90: “10 Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo”…). Dante immagina di individuare l’ingresso dell’inferno quando giunto nel mezzo del cammino della sua vita si trova perduto in una selva oscura. Boccaccio riconosce nella grande pestilenza del 1348 (quando lui, nato nel 1313 aveva appunto 35 anni…) il punto di svolta per restituire al mondo, attraverso i dieci giovani (tre uomini e sette donne, ed è difficile qui non riconoscere i codici religiosi della trinità e dei sacramenti, oltre all’osservazione che i quindici giorni di permanenza del gruppo fuori da Firenze per il numero dieci porta al simbolico 150, cioè al numero dei salmi che la recita del rosario nei tre misteri equiparava consentendo la sostituzione devozionistica da parte del popolo non in grado di leggere il latino), una nuova speranza e un nuovo modo di vivere che troverà il suo culmine dell’ultima giornata, la decima, quella che più palesemente riprende l’etica aristotelica riletta da Tommaso.
Infine, mi pare molto interessante rilevare che, mentre Dante disegna un aldilà dove trovano posto personaggi di questo mondo che ricevono punizioni o premi, Boccaccio racconta di una umanità viva e vegeta alle prese con le leggi di questo mondo. Due scelte apparentemente opposte ma, mi viene da dire, capaci invece di completare lo sguardo del poeta su cielo e terra.
M.S.: Addentriamoci ora nel testo. Anche la sua attenzione, come quella del Gruppo Studi Girard, è stata catturata in particolare e sin da subito dalla prima novella dell’opera, quella che racconta di ser Ciappelletto. Nel suo testo ha dedicato un intero capitolo all’analisi di quelle pagine memorabili. Le chiederei di presentare per sommi capi la sua interpretazione complessiva e l’interessantissima spiegazione del soprannome del protagonista. Infine, sarebbe stimolante per noi avere un suo commento sull’interpretazione avanzata dal Professor Giuseppe Fornari[2]. Mi ha infatti sorpreso come, pur partendo da premesse molto simili, le vostre letture della I 1 divergono in misura non indifferente.
A.F.: La prima novella rappresenta un esempio perfetto di quella unitarietà a cui si accennava all’inizio: vi si riscontra teologia, realtà politico-storico, abilità narrativa. Cepparello, il peggiore uomo che sia mai esistito, è chiamato in Borgogna da Musciatto Franzesi, al soldo di Carlo di Valois, lo stesso che scendendo in Italia ai primi del ‘300 causò l’esilio della parte politica di Dante e del poeta stesso. Boccaccio ci presenta quindi una realtà storica ben nota in Firenze, dove si conservava ancora una memoria dolorosa della vicenda, e disegna un personaggio moralmente orrendo capace di ingannare un frate violando la confessione sacramentale. È indubbio però che il punto autentico di svolta, la chiave di lettura dell’intera novella non stia nella vicenda narrata ma nella sua conclusione laddove Boccaccio afferma che Dio utilizza ogni mezzo per portare a sé gli uomini e a tal fine si serve anche dei suoi nemici. Dunque, non conta la moralità di chi si presenta, ingannando, come amico di Dio ma l’intenzione di quanti attraverso lui si avvicinano a Dio stesso. Ho quindi ritenuto, in accordo peraltro con alcuni critici del secolo scorso che già avevano riconosciuto in questa novella un intento teologico, che qui Boccaccio intendesse raccontarci come è Dio secondo la teologia a cui aderisce e che è riconoscibile in quella francescana e agostiniana. Per quanto riguarda il nome del protagonista, che transita da Cepparello a Ciappelletto, ho potuto rintracciare questa notizia storica poco nota che ci aiuta a comprendere la scelta di Boccaccio: papa Martino IV nel 1284 inviò in Francia il cardinale Jean Cholet al fine di nominare Carlo di Valois nuovo re di Aragona al posto di Pietro di Aragona, caduto in disgrazia. Quando il Cholet si trovò di fronte al ragazzo e volle procedere all’incoronazione non era disponibile alcuna corona da porgli in capo. Il prelato rimediò allora ponendogli sul capo il suo cappello cardinalizio.
A seguito di questo episodio, e anche perché Pietro di Aragona rimase ben saldo sul trono, Carlo fu ironicamente detto dal popolo roi du chapeau, un soprannome che doveva essere ben noto al tempo in cui la novella divenne pubblica. Boccaccio ci dimostra così la sua vena ironica e la sua intenzione di sbeffeggiare un personaggio, il Valois, da lui ritenuto responsabile dell’esilio di Dante.
Per quanto riguarda l’interessante contributo del prof. Fornari all’interpretazione della prima novella, come lei ha suggerito sono molti i punti in comune con la mia analisi. Le differenze si sostanziano invece per un aspetto determinante: il prof. Fornari mette al centro della sua indagine la figura di Cepparello/Ciappelletto e, ottimamente argomentando, propone una conversione (non necessariamente consapevole) del personaggio capace di restituire una superiore lettura del messaggio cristiano. Mi pare però che tale scelta di porre Ciappelletto al centro della novella sia incoerente con l’intenzione dell’Autore che nella cornice indica senza dubbio nella misericordia divina la questione autentica.
È difficile attribuire a Boccaccio una intenzione diversa, considerando il momento storico ed ecclesiale nel quale egli vive e scrive: per quasi tutto il XIV secolo la disputa tra i fraticelli di ispirazione francescana (e per qualche decennio lo stesso ordine francescano) e la chiesa gerarchica raggiunse livelli di tensione altissimi. Le accuse di eresia verso il papa condussero persino alla minaccia di arresto del generale francescano e di Ockham, figura molto amata ed esaltata da Boccaccio, sia direttamente che attraverso il suo più stretto collaboratore, Adam De Wodeham. Dunque, la situazione religiosa, politica e sociale del tempo conducono a ritenere che intenzione di Boccaccio è indubbiamente quella di dimostrare nelle prime due novelle come i mediatori con Dio (santi e ministri della Chiesa) seppur peccatori o ingenui siano comunque strumenti divini e che lo Spirito Santo abita la Chiesa, malgrado tutto (come dimostra la conversione altrimenti incomprensibile di Abraam nella seconda novella). E ciò appare coerente anche con le tirate antifratesche presenti in alcune novelle del Decameron.
Dunque, seppur molto interessante e ben articolata, credo che l’interpretazione del prof. Fornari esuli dalle intenzioni narrative di Boccaccio. Trovo però straordinario come il testo analizzato offra spunti interpretativi così ampi dimostrandosi capace di anticipare temi e questioni che saranno approfondite solo nei secoli successivi.
M.S.: Rispetto alla sua ricerca, qualcuno potrebbe obiettare che, mentre è corretto e più semplice individuare un messaggio teologico nelle prime tre novelle e nell’ultima giornata – e infatti il suo testo si concentra maggiormente proprio su quelle pagine del Decameron –, non è possibile individuare alcun intento pastorale né alcun significato “alto” in gran parte delle novelle centrali. Prendiamo quindi una novella più leggera e di argomento amoroso, come la VII 10. Potrebbe esercitare la sua esegesi su questo breve racconto?
A.F.: Volentieri. La novella da lei proposta riguarda la vicenda di due amici, Tingoccio e Meuccio, innamorati entrambi della stessa donna che è comare di Tingoccio. Sarà proprio Tingoccio a riuscire a sedurre la comare ma dopo qualche tempo, l’uomo muore. Assolvendo a una antica promessa, Tingoccio dopo il terzo giorno si presenta nottetempo all’amico per raccontargli che non è all’inferno ma che comunque soffre per i peccati commessi in vita e chiede quindi messe, preghiere ed elemosine perché queste sono di gran sollievo alle anime. Alla domanda precisa di Meuccio, ovvero quale pena particolare l’amico stia subendo per aver sedotto la comare, Tingoccio replica che lì dove si trova sedurre una comare non comporta nessun aggravio di pena. Avuta questa notizia, Meuccio uscì dalla sua ignoranza e divenne più saggio.
Già da questo breve riassunto del contenuto della novella è possibile riconoscere sia l’affiorare continuo di temi religiosi (il defunto può andare dall’amico solo dopo il terzo giorno, palese richiamo al tempo di resurrezione delle anime nel solco della resurrezione di Cristo; l’esistenza del purgatorio che, seppur non citato espressamente è riconoscibile – seguendo Dante – sia dal fuoco che tormenta Tinguccio, sia nell’invocazione per messe, preghiere ed elemosine che aiutano le anime defunte) sia un’intenzione pastorale molto ben precisa: la critica al modello di Cognatio spiritualis allora in vigore. Come è noto, la Cognatio spiritualis, che insorge tra padrini/madrine e battezzato/cresimato, ha, fino ai primi anni del secolo scorso, costituito un impedimento canonico in caso di matrimonio. Per la Chiesa, per secoli, la Cognatio spiritualis ha rappresentato un vero e proprio legame superiore persino a quello di sangue e dunque non compatibile con una relazione affettiva e tantomeno sessuale. Lo stesso san Tommaso dedica una parte importante della Summa proprio a tale questione che evidentemente al tempo di Boccaccio doveva aver assunto le dimensioni di un problema serio, considerando che, diversamente da oggi, i padrini e le madrine del battesimo erano in numero ampio, persino otto o dieci. Questo creava, soprattutto nelle piccole comunità, un rapido innescarsi di divieti matrimoniali incrociati con importanti conseguenze sociali. Doveva quindi essere emersa una corrente di contestazione alla questione dell’impedimento e questa novella ne rappresenta, per quanto mi è noto, l’unica testimonianza conosciuta del dissenso. La posizione pastorale/teologica di Boccaccio in proposito è impietosa, al punto da far dichiarare al narratore che <<Meuccio, avendo udito che di lá niuna ragion si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che giá parecchie n’avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio>>.
M.S.: Torniamo a un livello di analisi più generale. Come ricorda nel suo libro, è Boccaccio stesso a dirci che nella poesia agirebbe lo Spirito Santo. Con riferimento in particolare al Decameron, cosa significherebbe questo secondo lei?
A.F.: La questione è determinante: se, come ritengo necessario, si condivide l’esistenza della poesia teologica che accumuna Dante, Petrarca e Boccaccio, consegue il dover riconoscere l’intenzione di Boccaccio di portare con il Decameron donne (soprattutto) e uomini a Dio. Ciò rappresenta anche una delle caratteristiche fondamentali della Terza Persona trinitaria: lo Spirito è il paraclito che Dio concede agli uomini affinché nel vissuto della loro storia essi possano essere soccorsi, guidati, accompagnati, aiutati alla continua conversione e comprensione di Dio stesso.
Il Decameron ha, a mio avviso, la stessa intenzione: racconta di Dio, difende la Chiesa di Cristo, partecipa della vita quotidiana degli uomini, esalta le virtù, insegna. Boccaccio non spiritualizza gli uomini e non distacca Dio dalla terra ma anzi lo rende visibile nelle virtù di alcuni e persino, per contrapposizione, nel peccato di altri.
Infine, vorrei qui far notare come in Boccaccio prende vita una concezione nuova e diversa dell’amore rispetto allo schema dell’amore cortese. Nel Decameron l’amore è quello degli uomini comuni, è la loro passione, le loro debolezze e le loro fragilità. Se l’amore è la cifra nella quale si riconosce l’agire di Dio negli uomini attraverso lo Spirito Santo, è indubbio che per Boccaccio questo amore non sta sopra gli uomini stessi ma profondamente e radicalmente dentro di loro.
M.S.: Mi piacerebbe chiudere questa bella intervista sul Decameron proprio con l’ultima novella, la quale – ho avuto modo di scoprire – appassiona particolarmente entrambi. La storia di Griselda e del marchese di Saluzzo continua a porre ostacoli insidiosi sulla strada degli interpreti. All’interno del nostro gruppo, pur condividendo tra noi un approccio ermeneutico piuttosto caratterizzato in quanto radicato nelle tesi di René Girard, siamo arrivati a posizioni diverse, tra loro non facilmente conciliabili. Visto che nel suo testo si occupa della novella, le chiederei di esporre le sue idee al riguardo.
A.F.: È indubbio che l’ultima novella, alla quale dobbiamo peraltro la diffusione europea della fama di Boccaccio grazie alla traduzione latina di Petrarca, presenti molti problemi interpretativi. All’interno della novella sono riconoscibili riferimenti al libro di Giobbe e anche alla vicenda umana di Maria, scelta a sua insaputa, madre che perde il Figlio per poi riaverlo. È anche evidente che nessuno di questi riferimenti si adatti perfettamente alla vicenda narrata, a meno di voler immaginare la figura divina nella “matta bestialità” del marchese di Saluzzo. Se a ciò aggiungiamo che la novella è inserita nella decima giornata, piena di riferimenti evidenti all’etica nicomachea di Aristotele così come fu riletta da Tommaso, allora il quadro si complica ulteriormente.
Personalmente, tutti questi elementi fin qui accennati e a cui aggiungerei il titolo che Petrarca attribuisce alla novella da lui tradotta (De insigni obedientia et fide uxoria), mi portano a pensare che nell’intenzione di Boccaccio ci fosse la volontà di dimostrare come la nascita nobiliare non garantisse nobiltà d’animo, che vi fosse una ingiustizia sociale nel rifiutare l’idea che anime nobili potessero nascere anche nelle fasce sociali più umili, che soprattutto di fronte all’incomprensibile agire dell’uomo che esercita violenza e prevaricazione occorre mantenere umiltà e dignità.
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[1] Segnaliamo comunque due contributi meritevoli di attenzione in tal senso: C. Lombardi, Rapporti di forza e desiderio mimetico alle origini della storia. La novella di Gige e Candaule (Erodoto, Boccaccio, Moravia), N. 18 (2021): Morphology and Historical Sequence e R. Girardi, Il riso di piazza nel Decameron, in Boccaccio e lo spettacolo della parola. Il Decameron dalla scrittura alla scena, a c. di R. Girardi, Bari, Edd. di Pagina, 2013, pp. 23-49.
[2] G. Fornari, Il volto segreto della conversione: lo strano caso di ser Ciappelletto, ne Il cambiamento nei processi mentali, a cura di S.R. Arpaia e R. Di Pasquale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 125-163.
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