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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Ciechi come il Ciclope | La riscoperta della famosa avventura di Odisseo

Aggiornamento: 21 set 2021



«Qui un uomo aveva tana, un mostro, che greggi pasceva, solo, in disparte, e con gli altri non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto» (Odissea, ed. Einaudi, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, IX libro, vv. 187-89)


L’avventura di Odisseo con il Ciclope è tra i racconti mitici più famosi, ma è anche uno di quelli in cui sono più marcati i tratti fiabeschi e per questo è fin troppo facile non vederci nulla di reale dietro una simile narrazione. Manca persino una funzione eziologica, non spiega l’origine di niente che esista nella realtà. Eppure l’antropologo René Girard in La violenza e il sacro sceglie proprio questo come primo testo della letteratura greca da cui partire per approfondire e comprendere il sacrificio rituale nel mondo antico, quindi un fenomeno reale.

Un azzardo? Forse è la troppa famigliarità con questo racconto che porta a escludere che esso possa ancora rivelare qualcosa di mai sospettato, che sia ancora da scoprire. Come il cieco Ciclope s’illude che il suo caro montone sia rimasto indietro nel gregge che esce dall’antro, perché triste per l’occhio del suo padrone, quando invece nasconde sotto il manto proprio il colpevole Odisseo, così il facile pensiero di avere a che fare con nulla più di una “fiaba” può renderci ciechi a cosa essa nasconda.


Girard sottolinea il ruolo degli animali per salvare gli uomini dalla violenza del mostro: sulla soglia dell’antro Polifemo allunga le mani, ma il vello delle sue bestie si interpone tra lui e le sue potenziali vittime umane. Così nella realtà di tutti i sacrifici rituali di animali la violenza (mostruosa per ciò che causa, ma assolutamente umana per quanto riguarda chi la causa) viene dirottata verso la vittima immolata per salvaguardare da essa la comunità.

Girard spiegherà poi che non necessariamente sono questi rituali l’origine di certi racconti né l’inverso, ma l’origine ultima di entrambi è da ricercarsi in un meccanismo che non a caso egli chiama del “capro espiatorio”. Sosterrà inoltre che se nei miti la violenza è impersonificata da figure con certe caratteristiche, è perché le prime vittime di quelli che erano ancora spontanei linciaggi collettivi erano i presunti colpevoli di aver diffuso la violenza e le accuse erano rivolte a loro per i segni vittimari di cui erano portatori, come il fatto di essere guerci.

Se tutto ciò sembra estremamente azzardato, proprio una lettura attenta dello straordinario testo omerico lo fa apparire meno tale. Del passo prima citato basta cambiare l’ordine delle parole: Polifemo vive solo, non si mischia con gli altri, è proprio una brutta persona, dall’animo ingiusto, un uomo (in greco ἀνήρ) ma più che un uomo un mostro (in greco πελώριος, termine che nell’Iliade viene utilizzato per il dio zoppo – altro segno vittimario – Efesto). Qui possiamo riscontrare tre parti distinte, di cui una contiene un’osservazione, le altre invece giudizi, ma in determinati contesti questi sono presi per semplici deduzioni da quella. Ciò che è osservabile è che Polifemo vive solo, il testo insiste molto su questo fatto anche nei versi successivi. I giudizi formano un climax: un uomo dall’animo ingiusto, un mostro.

Anche senza enfatizzare l’aspetto fisico di questo personaggio, già abbiamo tutti gli elementi che descrivono la tipica dinamica che precede un linciaggio. In fondo qualunque segno vittimario è tale perché isola la vittima, facendo convergere su di lei tutti gli sguardi ostili.



Eppure si obietterà ancora che si cerca qualcosa di reale in una “fiaba”. Un altro antropologo, James G. Frazer, ha documentato che effettivamente questa avventura di Odisseo ha molti tratti comuni con tante leggende popolari diffuse ovunque, ma proprio il confronto con esse permette di riscontrare innumerevoli altri indizi a favore della tesi di Girard.

In alcune di esse non c’è un ciclope con un solo occhio in fronte, ma un guercio, che infatti viene accecato con la scusa di ridare a un occhio la vista che ha ancora l’altro. Inoltre in molti casi il mostro muore. In alcuni viene ucciso, in altri annega.

In una leggenda ungherese compare addirittura un indizio che quasi non avremmo osato sperare di trovare. Quando il gigante con un occhio solo, dopo esser stato accecato, si accorge che i protagonisti sono riusciti a scappare, si dispera e le sue urla attirano altri dodici giganti. A questo punto accade un fatto incredibile: i mostri al posto di inseguire subito i fuggitivi, prima, viste le condizioni in cui è ridotto il loro simile, lo afferrano e lo fanno a pezzi. I protagonisti riescono intanto ad allontanarsi a sufficienza per non essere raggiunti.

C’è poco da commentare, il testo parla da sé: è esplicito il linciaggio, lo è la sua funzionalità per scampare alla violenza e lo è anche la causa, cioè la menomazione fisica.

Oltre ai riferimenti alla più antica immolazione, non mancano nemmeno conferme del successivo riproporsi del meccanismo del capro espiatorio nella forma di sacrifici rituali di animali. In diverse leggende i protagonisti per fuggire non si aggrappano alle bestie ancora vive, ma le uccidono, le scuoiano e usano i loro manti come travestimenti per non essere scoperti mentre il mostro tasta sulla soglia. Anche in questi casi dunque è esplicito che gli animali vengono sacrificati per salvare gli uomini dalla violenza.

Naturalmente resta un’altra obiezione: perché privilegiare alcuni aspetti di alcune versioni del racconto e non altri? Questa domanda potrebbe essere più ingenua di quanto non sembri: essere indifferenti a tutti gli aspetti di tutte le versioni significa non avere pregiudizi? Oppure significa aver già stabilito in anticipo che non ha senso cercare riferimenti alla realtà in questi racconti? Non ci sono molti dubbi che certi aspetti sono più “realistici” di altri, come per esempio parlare di un guercio piuttosto che di un essere con un occhio solo. In qualunque caso bisogna assumere dei presupposti di partenza.

Di conseguenza una domanda forse più opportuna potrebbe essere: dobbiamo credere che tutti gli indizi raccolti siano un’incredibile serie di coincidenze?

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