Come posso dire – furikuri? Furikuri è la forma definitiva che l’animazione giapponese assumerà quando il suo angelo dovrà presentarsi a Dio per render conto della propria storia terrena. “Che sei stata?”, chiederà Dio all’Animazione giapponese, e quella non dirà “Sono stata Hayao Miyazaki” o “Sono stata Hideaki Anno” – che in furikuri si limita a doppiare il gatto Miyu Miyu. Dirà, stupidamente – rinunciando a vestire i panni gloriosi della propria storia al cospetto del Creatore, che peraltro sa già tutto di Lei, e quindi non potrà che sorridere di questa scelta – dirà, l’angelo dell’animazione: “Sono stata furikuri” – oppure, in alternativa: “è per finta”, come Ninamori sul palcoscenico.
Forse l’unico modo di accostarsi a furikuri è dirne insensatamente, come insensata sembra la furiosa vece della sua storia. L’esagerazione e la parodia sono la sua grammatica – e dunque solo esagerando e parodiando si può sperare di dirne qualcosa di buono. Fare un po’ il Pierre Menard di furikuri – sarebbe bellissimo poterne dire, in barba alla differenza del medium, ripetendo, riga per riga: “furikuri”, o anche: “è per finta” – in originale o in cannarsiano, poco importa – furikuri furikuri furikuri!, come se davvero tu sola potessi generare furikuri, un bernoccolo che sboccia in mezzo alla fronte – ma “per finta”, ovvero: “come se”.
Non ha nemmeno senso parlare di furikuri. Non si parla di furikuri, figuriamoci scriverne. Non è molto diverso scrivere o parlare di/con/accanto a furikuri da – immagino – essere di nuovo quindicenni – ma “per finta” – e ascoltare sempre la stessa canzone dieci, venti, trecento volte di fila, come ossessivamente martella sotto ogni episodio la melodia di Little busters, con le sue sonorità da primi anni duemila, mentre il tramonto ranciato, accecante, filtra dalla trama delle robinie e dilaga nella tua stanza di adolescente.
Quando dici “furikuri” – o: “è per finta” – io ti vedo, Ninamori, che ficchi il dito nella montatura vuota degli occhiali e ti rivolgi, inespressiva, scaltra, al tuo Creatore. Solo una risata gagliarda e sboccata è risposta adeguata alla magia che porti sul palcoscenico. Ninamori è la figlia di un sindaco arricchito, traditore e bugiardo. Ninamori fugge dal confronto con le proprie emozioni nascondendosi dietro una posa di distacco che scimmiotta l’adultità. E’ un personaggio minore e sublime – e in quanto tale è anche una perfetta waifu, da intenditori. Sento vibrare tutte le corde del mio essere trascorso e abolito quando ti vedo e ti sento parlare, Ninamori – forse sei l’angelo della mia adolescenza che si ribella e torna a vibrare, dopo averti vista apparire in così tante forme, la più parte a firma Gainax. Rossana, Yukino Miyazawa, Ninamori – non siete forse tutte diverse manifestazioni del mio daimon, del mio grande amore isterico, imbranato e un po’ secchione? Vi riconosco, volti della Creatura: parlate tutte la mia lingua, siete come figlie per me, siete la mia stessa vita. Mi mandano segnali dall’altrove, queste creature: vogliono che torni a conversare con loro. Ma la vita folle e sublime – che ha nome furikuri – non può tornare a splendere che per finta, per parodia o per eccesso, nella scrittura dello sciocco trentenne che sono diventato. La separazione – la scrittura – è la cifra del mio essere: ciò che sono stato e ciò che sono tuttavia, ma inconciliabili, sebbene identici ed eterni.
Dico “io”, dico “mio”, ma non sto parlando – solo – di me. Essere nati nel Dominio dello Spettacolo significa avere, tutti, una frattura scomposta al posto del cuore: l’immagine e il sé sempre disgiunti, il paradiso alienato alla creatura, ma sempre online, sempre proiettato sulla retina, rilanciato come illusione e promessa. E però Agamben dice che il paradiso, invece, è proprio il desiderio mai esaudito: l’immagine che abbiamo bramato e mai consumato (1). Ora gli credo, ma non capivo cosa intendesse, prima che fosse furikuri – cioè: “per finta", “come se”.
È indegno pensare che furikuri parli di sesso, di un bambino che si affaccia all’età adulta nel passaggio da elementari a medie e con fatica guadagna il suo baricentro esistenziale. Quella transizione, d’altronde – e in forme così “cool” come quelle che sfoggia Naota, ventenne in corpo d’undicenne – avviene molto più tardi – per alcuni non avviene mai. Furikuri è l’Adolescenza stessa, ovvero l’impossibilità di quel passaggio. In senso essoterico, e quindi volgare, questa impossibilità vien letta alla luce dell’onanismo otaku, del confronto rifiutato con i doveri dell’età matura, dell’infantilismo di chi continua a trastullarsi con i cartoni animati anche se ha la barba fin sul soggolo. Su un piano esoterico, però, questa impossibilità è appunto l’angelo dell’animazione giapponese, il messaggio di speranza rivolto a te che ti struggi per ciò che è perduto, ovvero: una delle soglie divine – la più bella – che ciascuno di noi incarna per un brevissimo istante prima di precipitare nella notte quotidiana, la grazia di un gesto effimero catturato da una foto scattata distrattamente, ecco: quello ero io nell’adolescenza, dici guardando quella precisa immagine gloriosa, non sei mai esistito in quella forma, come quel fotogramma che passa per un istante sullo schermo, eppure sai che in quell’effimero disegno ci sei tutto tu, e per sempre. E’ la forma che assumerai nell’iconostasi della storia umana. Tu eri quel gesto, quel fotogramma sublime, quel disegno giapponese.
Se l’arte è ciò che mette in contatto il vivente con ciò che è di un ordine superiore, impersonale e inumano, furikuri è l’opera che mi è stata destinata perché rompessi per sempre la mia carne e trovassi la mia immagine – si ricordi, il lettore, che qua non sta parlando l’autore di questo testo. Non è il prodotto della mia immaginazione, furikuri. Furikuri c’est moi – ma “per finta”.
Io sono in particolare quel gesto di Ninamori che ficca le dita nella montatura vuota degli occhiali, alla fine del terzo episodio. Il sublime effetto comico di quella scena nasce dall’imprevisto disinnesco dell’aspettativa edificante: siamo alla fine dell’episodio, il viaggio dell’eroina è compiuto, la frattura interiore dell’essere è ricomposta – dovrebbe, almeno: come sembrano dire il nuovo taglio di capelli, la luce che piove dall’alto, la posa vagamente ieratica. Ninamori indossa finalmente gli occhiali che per tutto l’episodio aveva tenuto nascosti, e che si era concessa di portare solo nello spazio domestico, nel confronto con Naota a cui aveva già deciso di aprire il proprio cuore. Il momento si prospetta altamente simbolico e catartico: ti aspetti di vedere brillare nei suoi occhi qualcosa come una risoluzione, una rivelazione – e invece il suo volto è inespressivo come sempre, anche se potrebbe ugualmente sfoggiare un sorriso furbetto, e sarebbe lo stesso. Dimentichi che siamo su un palcoscenico, nel bel mezzo di uno spettacolo, e c’è una recita scolastica in corso. Ninamori sfancula la catarsi attesa, dicendo: “è per finta”, mentre il ditino si allaccia alla montatura cava degli occhiali, e tu scoppi a ridere come un angelo e fai vibrare i vetri alle finestre. Non c’è catarsi, non c’è passaggio all’età adulta – un fuori della finzione distintiva che fa dell’adolescenza disegnata dai giapponesi la più sublime messinscena del nostro destino angelico. Dopotutto, è uno spettacolo: non si può redimere in alcun modo. Non c’è nemmeno un guadagnato sguardo nitido o critico sul mondo – che peraltro la bambina possedeva già all’inizio dell’episodio. Però non c’è nemmeno amarezza, o cinismo, o scaltro ammiccamento: gli occhi di Ninamori sono inespressivi come sempre. “E’ per finta”, dice. Scemo tu che ci sei cascato.
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(1) Giorgio Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 58: «Il messia viene per i nostri desideri. Egli li divide dalle immagini per esaudirli. O, piuttosto, per mostrarli già esauditi. Ciò che abbiamo immaginato, lo abbiamo già avuto. Restano – inesaudibili – le immagini dell’esaudito. Con i desideri esauditi, egli costruisce l’inferno, con le immagini inesaudibili il limbo. E con il desiderio immaginato, con la pura parola, la beatitudine del paradiso».
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