“Del mistero non può darsi che parodia: ogni altro tentativo di evocarlo cade nel cattivo gusto e nell’enfasi”
-Giorgio Agamben, Profanazioni
“[...] verrà il Messia, di cui un gran rabbino ha detto che non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo aggiustarlo di pochissimo”
-W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus
Manga e anime rappresentano una compiuta parodia della vita secondo almeno tre riguardi. Innanzitutto, per la loro vocazione comica e scanzonata, se si obbedisce al significato più corrivo del termine. Poi perché, dell’esistenza, anime e manga sono come un raddoppiamento che riscatta la propria natura menzognera gettando luce sulla realtà condivisa e quotidiana, costringendoci a considerarla sotto una luce più benevola: in questo senso, la parodia è intesa etimologicamente come parà odè, come canto che ha luogo… accanto a un qualcos’altro di proprio e inaccessibile altrimenti, che sarebbe la vita. In terzo luogo, manga e anime sono parodia perché rivelano il segreto ordito dell’esistenza, mostrandoci i percorsi che essa ha mancato d’imboccare, i canti che noi abbiamo perso l’occasione di intonare accanto a quello principale. Look Back di Tatsuki Fujimoto riassume perfettamente questi tre tratti della forma d’arte propria di anime e manga.
Nell’architettura narrativa di Look Back sono le strisce comiche da quattro vignette (yonkoma) a far da ponte tra i due universi paralleli e alternativi che s’intrecciano nella storia di Fujino, la mangaka di successo, e Kyomoto, la bravissima paesaggista che le fa da assistente negli anni delle scuole medie e superiori. Fujino è incaricata di consegnare il diploma elementare a Kyomoto, che vive reclusa in casa; trovando per caso una striscia yonkoma in bianco fuori dalla stanza della ragazza, schizza velocemente una storia:
Una combinazione spirituale favorevole – altrimenti detta “bava di vento”, ma come può soffiare in un corridoio così asfittico? – fa scivolare la striscia disegnata nella fessura tra il pavimento e la porta della stanza di Kyomoto, che così scopre l’identità della persona che è passata a consegnarle il diploma: è proprio la “maestra” Fujino, la compagna di classe mai incontrata che per tanti anni delle scuole elementari ha disegnato le strisce comiche che hanno allietato le sue giornate solitarie e alimentato il fuoco della sua passione infantile per il disegno.
Quel leggero spostamento d’aria o bava di spirito è il geniale scarto che impone alla vita di Kyomoto una svolta irrimediabile: uscirà dalla sua stanza, diventerà amica di Fujino e condividerà con lei la passione per il disegno. Peccato che, molti anni dopo, uno squilibrato farà irruzione nell’accademia d’arte frequentata da Kyomoto e la ucciderà per un motivo futile. Una disgrazia che non sarebbe accaduta, pensa Fujino – che intanto è diventata una mangaka di successo – se lei non fosse arrivata quel mattino a casa di Kyomoto per portarla fuori dalla sua stanza – lei per davvero? O lo spirito che le ha volute sorelle?
Il pensiero terribile che la morte della più cara amica sia responsabilità di Fujino, nella sua tremenda e materialistica nudità, nasconde quello che è il vero e più glorioso segreto della loro amicizia, nonché il significato della vocazione artistica che le amiche condividono. In un accesso di rabbia, Fujino adulta distrugge la striscia che quel mattino di tanti anni prima era passata sotto la porta inaugurando la nuova vita di Kyomoto – ma un frammento con la prima vignetta scivola di nuovo sotto la porta, approdando magicamente nel passato, a quella stessa mattina del diploma elementare. Kyomoto legge soltanto la prima parte del frammento (“Non uscire!”) e obbedendo a questo nuovo, impercettibile clinamen dello spirito, manca l’incontro fatale di quella volta con Fujino.
Passano gli anni e, contrariamente a quello che la Fujino dell’altro tempo immaginava, Kyomoto frequenta comunque l’accademia d’arte – dunque la passione della ragazza per il disegno non era unicamente responsabilità di Fujino! – rischiando di venire uccisa da quello stesso squilibrato dell’altro mondo. Ecco che però arriva… Fujino!, che stava facendo jogging lì vicino, ha visto lo squilibrato entrare in accademia con un piccone e l’ha seguito: un calcio volante pone fine alle sue intenzioni omicide, e Kyomoto è salva.
Tornata a casa, Kyomoto – che ha riconosciuto nella sua salvatrice la bambina che disegnava quelle strisce tanto divertenti delle elementari – disegna per gioco uno yonkoma nostalgico, a imitazione di quelli di Fujino:
Anche questa, come la striscia dell’amica, è una parodia: non esattamente la storia come è andata, ma aggiustata di pochissimo, come sarà il Regno secondo Benjamin. Fujino non è stata ferita dal piccone dell’assalitore, ma si è rotta la gamba sparando il suo letale calcio volante. Lo stesso spirito-trickster artefice del loro incontro d’infanzia, a quel punto, soffia via la striscia completa dalle mani di Kyomoto e la fa tornare, in quell’altro presente, nelle mani di Fujino in lutto, rimasta ad aspettare fuori dalla porta della stanza dopo aver stracciato lo yonkoma di tanti anni prima.
Fujino disegnata con il piccone piantato nella schiena, come Kyomoto ridotta a scheletro nella striscia più antica, sono la parodia di un tipo di morte alla quale nel nostro tempo non si guarda più con troppa paura: quella che Dante chiama la “seconda morte”, quella dello spirito, che fa dei sopravvissuti a queste occasioni perdute (kairoi) come dei cadaveri ambulanti che trascinano la loro esistenza nella vita senza gioia.
Quella morte parodica, disegnata, è ciò che, grazie alla creazione apotropaica della striscia, le due ragazze hanno schivato appena in tempo: per Kyomoto, il rischio di non incontrare colei che avrebbe riempito di senso e desiderio la sua passione per il disegno; per Fujino, il rischio che la sua passione, superiore al talento, morisse senza dar frutti, e lei non diventasse una celebre mangaka, come ci mostra il futuro alternativo. Ricevendo dallo spirito dietro la porta lo yonkoma distopico, Fujino rivede il volto sorridente di Kyomoto nel ricordo e solo allora si accorge che la sua passione per il disegno – ciò che lei stessa è in quel momento, la celebra mangaka – sarebbe sfiorita prematuramente senza quell’incontro con Kyomoto. Dunque è vero: perché Fujino diventasse una mangaka, Kyomoto è dovuta morire – e però adesso questo pensiero riluce nell’oscurità del corridoio, perché Fujino ha compreso che quella non è l’unica strada possibile.
Il destino si rivela per tale nel momento in cui si compie: non era scritto, ma si scrive nel suo farsi, e da quel momento diventa necessario. E tuttavia, incredibilmente, il presente che si fa destino lascia sempre delle sacche indecise di passato, guardando indietro alle quali (looking back) è possibile per ciascuno ritrovare il proprio tempo. Se il presente è revocato nella sua inappellabilità dallo sguardo all’altro passato e all’altro futuro che ci attendevano, allora l’esistenza si rivela per quel che è: un magnifico gioco, la cui forma d’espressione più consona è dunque la parodia.
Strappando il dispositivo creatore del passato che ha determinato la morte di Kyomoto, e ricevendone in cambio un messaggio dall’altro futuro – forse l’unico yonkoma mai realizzato da Kyomoto, in questo tempo o nell’altro – Fujino riceve per grazia la presa sul proprio kairos: l’occasione, che arriva una sola o poche altre volte, di comprendere che la vita è libera da necessità, libera da destino, sebbene sottomessa a entrambe. Paradosso fecondo, che potremmo riassumere così: le due strisce, quella di Fujino e quella di Kyomoto, sono la paradossale ricapitolazione delle vite di entrambe e insieme la loro redenzione fattiva.
Giorgio Agamben, in un recente saggio intitolato La lingua che resta, affronta il complesso tema escatologico della ricapitolazione, che potremmo sintetizzare in questo estratto: “ogni istante del presente è in relazione figurale con un evento del passato, che trova in quello il suo vero senso e il suo adempimento” (p. 43). La figuralità, di cui parla anche il dantista Auerbach, è quel rapporto di rimando e allusione tra due eventi o fenomeni, di questa vita o delle storie che su questa vita si raccontano, di cui il primo è una forma implicita e coperta del secondo – il quale a sua volta, mentre svela e porta a chiarezza il significato nascosto del primo, si propone come ulteriore figura e segreto da sbrogliare che un successivo evento figurale andrà a illuminare con la sua luce.
Lo scheletro di Kyomoto disegnato da Fujino, ironica profezia, è vera figura del destino che attende la giovane reclusa, se aprirà quella porta – e questa consapevolezza tremenda porta Fujino vicinissima alla disperazione – così come la gagliarda immagine di Fujino girata di spalle con un piccone ficcato tra le scapole è figura dello scotto che la ragazza ha dovuto pagare nell’altra vita in cambio della salvezza della sua amica: il prematuro appassire della sua passione per il disegno. Ma la scena dell’agnizione di Fujino da parte di Kyomoto, che riconosce nella sua improvvisata salvatrice l’autrice delle strisce tanto amate della sua infanzia, è a sua volta figura intratemporale di quell’incontro mancato tra le due ragazze negli anni delle elementari – dunque è da qui che si riparte, se si ha fede!
“Ultimamente ho ricominciato a disegnare”, dice Fujino, “Quando riuscirò a farmi serializzare, diventa la mia assistente”. Una specie di scherzo, detto così per dire, tra due conoscenti lontane – ma che al lettore si rivela per figura veridica del destino che, nell’altro passato, attende le due ragazze – e forse anche in questo futuro.
Tutto si ripeterà identicamente, quindi? Fujino è destinata a diventare mangaka e Kyomoto la sua assistente? Sì, se entrambe lo desiderassero – ma nell’altro mondo, da cui proviene l’occhio del lettore, questa convergenza a un certo punto si era interrotta: alla fine delle superiori, soverchiata dal conflitto tra la dipendenza psicologica nei confronti di Fujino e il desiderio di trovare la propria strada in autonomia, Kyomoto si era congedata dall’amica d’infanzia per andare a studiare da sola all’accademia d’arte.
Per certi spiriti fragili, come quello di Kyomoto, un’amica di infanzia come Fujino è più una maledizione che un dono. La sua arte, comunque, sarebbe fiorita anche senza la mediazione della ragazza, come sta a dimostrare il tempo alternativo nel quale Kyomoto è una studentessa all’accademia anche senza aver incontrato Fujino. E però la loro amicizia magnifica, apparsa incanaglita e storta, sotto figura, nel primo tempo della storia, merita di essere salvata dal non-senso e dalla morte, spirituale e fisica: forse in quell’altro tempo – che al lettore non è concesso conoscere, così come alla mangaka, reclusa nel suo solitario e luminoso appartamento in centro – la figura della loro amicizia troverà la sua forma definitiva, riallacciandosi dopo che a entrambe sarà stato dato il tempo – alternativo – di crescere libere. Forse finiranno di nuovo l’una nelle braccia dell’altra – forse disegneranno ancora le stesse storie, solo, come dice Benjamin, aggiustate di pochissimo.
Se quello che racconta Look back è vero, allora va tutto bene, come nei versi di Browning che fanno da motto per la Seele di Evangelion. Non c’è stortura di questa vita che sia ultimativa e irrevocabile – ma solo figura di uno sviluppo implicito che altri tempi e altre storie andranno a sbrogliare, rivelandone la forma più alta e magnifica. E se è vero che a nessuno di noi mortali è concesso, se non di rado e per fortuna, di saltare da una linea temporale all’altra, per confortare il nostro cuore oppresso dal peso della necessità con lo spettacolo dei passati e dei futuri redentivi, pure è vero che ci sono le storie: quelle da leggere, quelle da scrivere, quelle da raccontarsi a bassa voce poco prima che giunga il sonno. Se non in questa vita, in questa storia – e nella vita che immancabilmente ne sprigiona – saremo per certo salvati.
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