Introduzione
Quello di Satoshi Kon è un cinema di specchi. La frammentazione dell'identità in immagine, gli slittamenti progressivi in territori onirici e virtuali indicano che la questione della soggettività, della sua percezione e del suo riconoscimento sono, per l'autore di Millennium Actress e Paprika, territori esposti a radicali fratture ma insieme spazi liminali di costruzione. Perfect Blue gioca con sapienza intorno alla doppiezza dello specchio: il riflesso non restituisce più l'immagine desiderata e riconosciuta; tra sguardo e specchio è come se comparisse una voragine, un vuoto, uno spazio di sospensione in cui dominano incertezza e spaesamento. La tensione narrativa corre parallela al cammino nell'inferno psicologico delle due protagoniste dell'intreccio (Mima e Rumi, quest'ultima volutamente marginale e in ombra): il percorso è il medesimo ma battuto in direzioni opposte, speculari. Dall'unità al doppio, dal doppio all'unità, riutilizzando, raddoppiandola, quella mirabile formula con cui Girard analizzò la parabola artistica di Dostoevskij. Per una corretta analisi di Perfect blue sarà necessario quindi seguire e tenere insieme i due percorsi, quasi rappresentassero un chiasmo, un'unica figura retorica in grado di spiegare le fratture, le discontinuità, le pieghe e i riavvolgimenti di un'identità comunque fragile e sempre in trasformazione.
Mima desidera una nuova carriera professionale. Il problema è che prima di approdare all'inedita e più compiuta immagine di sé, le tocca affrontare il paesaggio desertico che conforma il periodo di distacco dalla sua vecchia immagine. Indebolita dalla sovraesposizione, dalle tempeste mimetiche causate dalle pressioni mediatiche, virtuali e spettrali, fiaccata dall'arsura relazionale che sopravviene allo zenit della mediazione interna, Mima vede progressivamente allargarsi di fronte a sé la breccia tra identità e immagine, avvicinandosi pericolosamente al puro delirio allucinatorio.
Kon è estremamente sottile nelle manovre di depistaggio sensoriale dello spettatore: infatti, dopo una prima mezz'ora di apparente limpidezza, quella che in superficie pareva una narrazione codificata e classica, rapidamente si tramuta in un labirinto pieno di vicoli ciechi. L'operazione è interessante in quanto trova il modo di sfumare e disperdere la radice mimetica del male (la relazione prossimale e scandalizzata che Rumi sviluppa con Mima) in uno sfondo confusivo e indifferenziato più “generico” e contestuale (il mondo delle idol, il mondo dello spettacolo e dell'avanspettacolo, il mondo degli otaku), offrendo quindi allo spettatore un luogo privilegiato per apprezzare le distorsioni “mimetiche” che dominano la società giapponese: un punto di vista analitico e psico-sociologico, scevro da moralismi. Tale attenuarsi, mimetizzarsi e svaporare del concreto scandalo a vantaggio di uno spettro che pare attraversare tutte le porose pareti della società è, in realtà, il segno rivelatore dell'intensità della doppia mediazione in atto tra Mima e Rumi: il sociale perde completamente di concretezza relazionale, diventa specchio e eco dello scandalo, tanto che Mima si ritrova spaesata e ossessionata da fantasmi.
L'ulteriore merito di Kon è poi quello di muoversi all'interno di un genere estremamente codificato come quello del thriller psicologico, lasciando tracce significative dovute alla sua originalità, alla perizia registica e alla coerenza di una poetica che va ampliandosi in ogni sua successiva pellicola: tracce che, per esempio, verranno ripercorse e ri-tematizzate nella figura del nastro di Moebius dal Lynch di Strade perdute, Mulholland drive e Inland Empire (in Perfect blue, al contrario, risuona qualcosa di Fuoco cammina con me e della prima stagione di Twin Peaks), che trovano consonanze nelle ossessioni di De Palma (Vestito per uccidere e Raising Cain su tutti), che verranno campionate dall'Aronofsky de Il cigno nero. Perfect Blue che, è bene ricordarlo, è l'esordio alla regia di un lungometraggio del cineasta nipponico, è a tutti gli effetti un film seminale, non solo per le potenzialità cinematografiche e narrative espresse ma anche per la sua capacità profetica e disvelante, in grado di cogliere le problematiche di un mondo che noi tutti ora viviamo ma che, nel 1997, non era forse così facile da cogliere e decostruire nelle sue implicazioni. Il testamento girardiano che Perfect blue lascia allo spettatore recita, infatti, una scomoda verità: in un mondo gettato nella sovraesposizione mediale e immaginale, un mondo sempre più rarefatto e tiranneggiato dall'immagine, la mediazione interna è precisamente ciò che può segretamente crescere nelle pieghe scarsamente illuminate della quotidiana prossimità; accecati dalla perenne, ammaliante, eccessiva luce che le immagini restituiscono non ci accorgiamo di ospitare e coltivare quel demone della doppia mediazione, il quale finisce, tuttavia, per intrappolare esistenze, configurare rimossi, produrre o rievocare fantasmi.
Alcune delle esplicite citazioni presenti ne Il cigno nero e in Requiem for a dream di Aronofsky
La trama di Perfect Blue è apparentemente semplicissima. Mima è una idol. Più precisamente è la leader delle Cham, uno dei tanti gruppi di j-pop formati da giovanissime cantanti idolatrate da un certo numero di fan completamente ossessionati dalla loro virginea e innocente bellezza. Stanca ormai di questa immagine, decide di intraprendere la carriera di attrice, accettando così il rischio di una totale ridefinizione della propria identità professionale e artistica. Questo rito di passaggio risulta tuttavia legato a doppio filo (precisamente quel double bind che, all'interno della narrazione, conferisce il titolo alla serie tv in cui finirà per recitare Mima) alla vicenda della sua manager Rumi. Intorno a Mima comincerà così a materializzarsi un'atmosfera sempre più inquietante, dominata da solitudine, morte e da una ridda di presenze che, tra il mostruoso e il fantasmatico, in un crescendo sempre più asfissiante e spaesante, assedieranno da ogni parte la strada intrapresa dalla giovane ragazza. Tuttavia, per approfondire e cogliere le autentiche implicazioni del testo, occorre seguire fino in fondo le increspature generate dai cortocircuiti della scrittura filmica di Kon.
Forse una traccia di Perfect Blue nella terza stagione di Twin Peaks, opera-testamento di Lynch
Scena I: l'economia mimetica tra immagine e folla e la voce come rottura
Già dalla prima sequenza è possibile riconoscere uno dei temi che incardinano strutturalmente la narrazione: la cesura netta tra realtà e immagine viene generata e alimentata dalla polarizzazione mimetica dei fan. La piccola orda di otaku che segue e giudica ogni momento e ogni particolare della vita privata e pubblica di Mima è immersa nella solita effervescenza senza tuttavia immaginare che proprio quello sarà il giorno in cui la giovane cantante dirà addio al mondo delle idol per tentare la carriera d'attrice. Vi è tra questo pubblico esclusivamente maschile una strana sintesi di smaliziato realismo -quasi di annoiato nichilismo- e di maniacale volontà di fermare in un'istantanea perfetta e luminosa il loro desiderio idolatrico, ipostatizzato nel distante splendore delle cantanti. Questa massiccia presenza fallogocentrica lavora per mantenere intatta la differenza tra l'orda indifferenziata del “noi” e il lucore emanato dalle tre ragazze sul palco. Il presidio del margine, la marca di questa differenza, significa che a nessuno sarà permesso sporcare, contaminare, la simbolizzazione di tale immaginario costruito ad arte. D'altra parte -e in maniera consustanziale- la creazione intenzionale della differenza rivela la vacuità della stessa, cioè il suo arbitrario dipendere da flussi mimetici di desiderio che in ogni momento possono cambiare rotta o sfociare in una violenza necessaria a riconsolidare la stabilità dell'immagine desiderata.
L'abbagliante luce che avvolge Mima all'uscita sul palco è tanto accecante da dissolverne i contorni. La genialità della regia di Kon si rivela già in questo folgorante inizio: la dissoluzione del limite come spersonalizzazione totale di Mima, come frattura tra soggetto e “io” reificato in immagine, è suggerita dal punto di vista di uno sguardo “impossibile” proveniente dalle spalle (come a denotare il momento della frattura o la soglia di territorializzazione a partire dalla quale il suo desiderio ancora nomade, indefinito e alla ricerca di un nuovo riconoscimento viene irregimentato in una totalità simbolicamente strutturata, in un immaginario costruito da altri); al contrario, il controcampo di questo sguardo “impossibile”, quello che proviene dall'orda di otaku, vede precisamente le figure stagliarsi sul palco, de-finisce, de-limita a misura del proprio desiderio. Il montaggio alternato di Kon supporta inoltre questa spaccatura suggerendo come contraltare lo squallore, la solitudine, l'anonimato della vita privata di Mima ed insieme la reazione contrariata e dispiaciuta per la decisione presa della sua manager Rumi.
Non appena la canzone finisce il momento è dei più rivelativi: un gruppo di teppisti sporca la prospettiva di un otaku dal volto deforme follemente innamorato di Mima lanciando sul palco una lattina e gridando insulti alle ragazze; mentre Mima inizia il suo discorso di addio l'otaku si oppone ai teppisti e, senza aggredirli, subisce impotente la loro violenza. Questo agente patogeno che irrompe e fende lo stordimento dei restanti fan, interrompendone il flusso di desiderio rivolto all'idolo luminoso, deve subito essere espulso dal concerto attraverso una nuova polarizzazione mimetica; la folla, tuttavia, non è sufficientemente coesa e decisa, pertanto è la reciprocità della violenza a riequilibrare la situazione. Il desiderio di Mima non viene riconosciuto, piuttosto viene silenziato dentro una risentita simulazione d'indifferenza. Mima vorrebbe affermarsi come autonoma e indipendente, rifiutando di dissolversi quotidianamente in questa unione mistica con l'orda di fan. Disarticolare l'immagine narcisistica che lo sguardo della folla (reale e virtuale) restituisce come fosse uno specchio, significherebbe lasciare emergere quell'intima alterità/estraneità che in alcun modo deve diventare possesso di uno sguardo altrui. Defilarsi dall'immagine, come se questa rappresentasse una veste troppo stretta, vorrebbe dire, per Mima, troncare la catena del significante in cui finisce per essere sempre più alienata. Tutto ciò, è evidente, minaccia lo status “fanatico” del singolo e quindi della folla come effetto di risonanza. Ciò che va protetta ad ogni costo è infatti solo la circolazione economica di un godimento narcisistico in cui ogni alterità viene sì rappresentata in un'immagine inviolabile (la Mima distante, virginea e pura di quegli attimi sotto i riflettori) ma perfettamente inscrivibile in un sistema di desiderio, un codice precostituito che si autoalimenta con l'imitazione di colui che mi è prossimo.
Solo il perentorio e improvviso urlo che Mima fa risuonare rigetta nell'indifferenziazione le parti che confliggono. L'auto-affezione fonica (il percepire la voce come la mia voce) prodotta dall'imperativo «smettetela!» ridona maestà e distanza all'idolo ma in un senso completamente diverso rispetto alla fissazione mimetica della folla desiderante. Tale evento, fuori dal canovaccio previsto, squarcia infrange ed inverte, per un attimo, quel circuito economico di godimento narcisistico di cui la sua soggettività è prigioniera: la voce risuona limpida, forte, diventa eco, ritorna all'orecchio di Mima con una forza intatta, donandole così un momento illusorio di auto-affezione pura, di affioramento di una soggettività “altra” rispetto all'immagine in cui è rappresa.
La folla, in un attimo di incertezza, ricade così nell'indifferenziazione, nel silenzio soffocante, nella perdita dei volti. Ma anche Mima immediatamente perde la voce. Sarà nuovamente l'otaku deforme a proteggerla dall'aggressione dei teppisti: il sorriso di gratitudine che Mima rivolge al ragazzo è il sintomo di una soggettività che non può sostenersi da sola di fronte alla pressione annichilente della mediazione della folla desiderante. Una spettralità perturbante abita ormai il fondo più intimo del sé e destituisce di principio ogni tentativo di instaurazione di una sua piena autonomia. L'identità, per costituirsi, deve intercettare il desiderio dell'altro (quindi non semplicemente la trascendenza del simbolico in Lacan ma, mi permetto, anche la trascendenza del volto d'altri), altrimenti è condannata all'inconsistenza, alla solitudine, alla psicosi.
«Ma quest'Io, quest'individuo vivente, sarebbe a sua volta abitato, e invaso dal suo stesso spettro. Sarebbe costituito dagli spettri di cui ormai è l'ospite e che riunisce nella comunità invasata di un solo corpo» (1). Perfect blue dichiara molto schiettamente che il contemporaneo è l'epoca in cui l'Io rischia sempre di essere abitato da “altri”.
Perfect blue è, in tal senso, un crudele racconto di formazione in cui la soggettività viene costantemente spogliata, esposta, resa sacrificabile dal processo di configurazione e costruzione di un “Io” in lotta mortale contro il fantasma di un'alterità che ossessiona con il suo desiderio mimetico, con il suo scandalo. Il fantasma in Perfect blue è intrinsecamente legato allo specchio -come luogo della sua origine e della sua fine-: nella pellicola di Kon le superfici riflettenti prendono letteralmente vita, sono in qualche misura permeabili rispetto ai flussi mimetici, quasi fossero schermi sui quali vengono proiettati immaginari di diversa provenienza.
Uno schermo non è quindi una porta su un mondo “altro”: ciò significa che il fantasma non proviene da un altrove; trova anzi una sua materialità proprio laddove completa il processo di aggregazione che sutura in una sola immagine le schegge dei desideri scandalizzati che proliferano ovunque. Detto altrimenti, il fantasma, così come figurato in Perfect blue, realizza perfettamente quel processo di misconoscimento che, con Girard, trovo calzante definire il processo di “coalescenza mitica”. Il fantasma che prende vita in luogo dello specchio è il modo in cui tutti gli agenti di desiderio tentano di esorcizzare il proprio risentimento, in cui provano a sintetizzare il modello-ostacolo in una forma leggera e volatile. Un tentativo ovviamente destinato al fallimento e che, anzi, testimonia l'incoercibile potenza del perturbante: tanto più viene misconosciuta la presenza dell'altro al cuore dello stesso, quanto più il fantasma avrà un volto familiare.
Lo spettatore apprezza tutto ciò quasi esclusivamente dal punto di vista di Mima, vittima del maligno potere incantatore che su di lei produce l'immagine speculare. La sua fragilità psicologica consiste propriamente nel fatto che il suo desiderio di riconoscimento, anziché intercettare un volto altrui accogliente e responsivo, si incaglia in ogni superficie riflettente, catturato da un immaginario tirannico. La trappola immaginaria trattiene Mima in un luogo sospeso tra lo specchio e il mondo, una zona liminale da cui può essere bandita, esclusa, sacrificata da un momento all'altro, in quanto la ferrea legge del meccanismo vittimario prevede che proprio coloro i quali, un attimo prima, erano preda della più ossessiva idolatria finiscono per essere i primi e più spietati iconoclasti.
Ma questo, ancora una volta, è solo il lato della moneta che rimane alla luce. Se Mima soffre profondamente la mediazione che proviene dalla massa indifferenziata della chiacchiera, degli sguardi senza volto delle persone sul luogo di lavoro e dei fan, quantomeno ha avuto la forza di recidere quel cordone ombelicale che la teneva legata all'immagine di idol in vista di una nuova nascita («ormai l'immagine di idol mi andava stretta», con queste parole Mima spiega a sua madre le ragioni della decisione da poco presa). Rumi, al contrario, vive silenziosamente il più cupo inferno della mediazione interna, senza alcuna via di scampo, producendo due conseguenze: il peso della doppia mediazione ricadrà solo su di lei e il transfert proiettivo unito ad un narcisismo regressivo e violento non potrà che risolversi in una vera e propria sostituzione sacrificale. Per proseguire nell'analisi sarà dunque necessario supportare l'impianto ermeneutico girardiano sfruttando, per quanto ci è possibile, lo stadio dello specchio di Lacan. Il perturbante freudiano potrà invece essere utilizzato come bussola per orientarsi nello spazio virtuale abitato da riflessi, fantasmi, immagini metacinematografiche in cui sprofonda e si concretizza l'allucinazione mimetica, generando una sensazione di originario e deflagrante spaesamento (unheimliche).
Un accenno allo “stadio dello specchio”
Per Lacan vi è una differenza strutturale tra l'Io e il soggetto dell'inconscio; la lezione freudiana viene interpretata da Lacan proprio nella direzione di una radicale eterogeneità del soggetto dell'inconscio dall'Io, una non estinguibile trascendenza interna che ri-vela la presenza spettrale dell'Altro al cuore dello Stesso. L'obiettivo di molti testi di Lacan è quello di illustrare «la costituzione narcisistico-speculare dell'Io di fronte al funzionamento simbolico del soggetto dell'inconscio (…) si tratta di reperire la genesi della formazione immaginaria dell'Io (moi) per evidenziare la sua dimensione alienante rispetto al soggetto (je)» (2). «L'Io, rispetto al soggetto dell'inconscio, si mostra, nel discorso freudiano, come una riduzione, una cristallizzazione alienata del soggetto, e non come il suo nucleo sintetico-sostanziale» (3). Venendo incontro alle esigenze esegetiche del presente testo, possiamo più esplicitamente parlare dell'Io come di quell'immagine che può potenzialmente portare alla derelizione del soggetto. La sua genesi narcisistica evidenzia il suo carattere puramente immaginario-identificatorio; la soluzione, tuttavia, non può essere quella di riposizionare l'ontogenesi dell'Io in luogo dell'Es, piuttosto occorre «ricondurre la padronanza dell'Io alla sua radice immaginaria per indicare che il luogo sorgivo della soggettività, al di là dell'Io, è il luogo dell'inconscio, del desiderio inconscio come desiderio dell'Altro» (4).
Lo “stadio dello specchio” è, dunque, il modo in cui Lacan ripensa la funzione strutturante che Freud assegna al narcisismo e all'identificazione nella produzione del soggetto umano. «Per Freud il narcisismo indica, in una prospettiva generale, il rapporto del soggetto con la propria immagine ideale, o, più precisamente, la funzione che l'immagine ideale di sé svolge nella formazione dell'io» (5). «La passione narcisistica del bambino (…) si specifica come una passione per l'immagine ideale del proprio corpo la quale, per Freud, si produce primariamente attraverso le attese immaginarie dei genitori e dal loro modo di rappresentarsi il bambino, ovvero la tendenza ad attribuirgli tutte le perfezioni possibili e a cancellarne i difetti» (6). Tale eco narcisistica che immerge la soggettività nascente in un labirinto di specchi e idealizzazioni, finisce per dar luogo all'edificazione di una sorta di monumento con il quale il soggetto, alienandosi in esso, si identifica. Proprio a questo livello bisogna collocare la formazione immaginaria dell'Io ideale, espressione di un narcisismo infantile, originario, fissato ad un'immagine esaltata di sé. Non è inessenziale sottolineare il fatto che, per Freud, «l'identificazione non indica né un semplice condizionamento esterno, né un rapporto di imitazione in esteriorità del soggetto nei confronti di un'immagine situata come ideale» (7). Piuttosto l'identificazione si configura come il luogo di una precisa causalità psichica, che indica come l'assunzione inconscia di un'immagine esprima un potere di trasformazione sull'essere del soggetto. In Discorso sulla causalità psichica (contenuto negli Scritti (8)), Lacan può allora parlare della funzione dell'immagine come di una funzione «morfogena» (9). Il filo rosso che, tuttavia, deve sempre essere tenuto presente nella linea genealogica che procede da Freud a Girard passando per Lacan è la crescente centralità e concretezza dell'Altro: il narcisismo è terreno fertilissimo per poter sperimentare «il carattere non autofondato ma eterofondato dell'io» (10), un'origine eteronoma che rimanda alla sua natura alienata, scismatica, sdoppiata (solo da tale “discordanza primordiale” esplode l'urgenza di quel desiderio di riconoscimento, consustanziale ad ogni identità, che può tradursi nell'incontro salubre con l'altro, all'insegna forse di una passività e ospitalità più antica).
Freud e Lacan valorizzano l'aspetto attivo e produttivo dell'identificazione: «il potere morfogeno dell'identificazione si manifesta innanzitutto come potere di cattura, di trasformazione, di risucchio, di plasmazione dell'immagine dell'altro sul soggetto» (11). In Perfect blue l'effetto fondamentale dell'identificazione è quello di produrre uno spossessamento essenziale dell'io, un'alienazione che rende l'io “doppio”, maschera o miraggio. Nel tentativo da parte del soggetto di realizzare “oggettivamente” l'io, il rischio è quello di rimanere impaniati nel regime immaginario, ossia di rimanere irretiti nel gioco di rispecchiamenti delle immagini, perdere contatto con quello che effettivamente siamo e con la realtà dell'altro, immergere tutto quanto in un delirio allucinatorio che dissolve l'identità nel mare delle identificazioni possibili.
Come è noto Lacan, nella sua teorizzazione dello “stadio dello specchio” (passaggio fondamentale per l'ontogenesi del Sé), utilizza due diverse fonti: gli studi di Wallon sulla percezione in psicologia evolutiva e il commento kojeviano del momento dell'autocoscienza contenuto nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Così facendo, viene saldato quel momento in cui il bambino riconosce la propria identità attraverso l'individuazione della propria immagine che lo specchio rende possibile con il desiderio di riconoscimento quale passaggio essenziale nella dialettica servo-signore. Lo specchio permette al bambino di riconoscersi producendo uno sdoppiamento nel soggetto per cui quest'ultimo, divenendo nell'immagine altro da sé, può riconoscersi in una alterità che lo identifica e lo individua, donando unità al corpo in frammenti: qui sorge l'unità ideale dell'io. La sua natura è squisitamente narcisistica poiché essa si produce nell'istante della fascinazione che l'immagine produce sul soggetto e attraverso la quale lo cattura e lo costituisce come frutto di “misconoscimento”, di illusione. L'ideale dell'io rappresenta allora, per Lacan, quell'effetto ottico che sprigiona nell'immagine tutto il suo potere narcisistico-incantatorio, trascrive quel sogno di unità perfetta che è tuttavia solo illusorio e fantasmagorico. «Il soggetto trova nella sua immagine-oggetto una rappresentazione narcisistica di sé che compensa (nell'infatuazione ed esaltazione per la propria immagine) lo stato di “discordanza primordiale” che segna il proprio essere in un periodo evolutivo segnato dall'onnipotenza dell'Altro e dall'impotenza fondamentale del soggetto» (12). «L'immagine del corpo proprio sutura la mancanza che affligge il soggetto, supplemento narcisistico che offre nell'immaginario la soluzione alla frammentazione reale del soggetto» (13). Ma tutto questo è appunto solo un “gioco di specchi”: l'io si rivela come un derivato dell'immagine, una misera ombra dell'immagine dell'altro (o proiettata dall'altro). Tra l'impossibilità di realizzare l'unità immaginaria dell'io e l'originaria frammentazione del soggetto, scorre il tempo dello sviluppo e della crescita. Al crescere delle tendenze reali dissocianti e frammentanti l'identità, corrisponde una fascinazione tragica per l'immagine di quell'unità mai realizzata. Se così possiamo esprimerci: nel regime immaginario l'io potrà sorgere solo al prezzo del sacrificio del soggetto. Questo è già di per sé manifesto nella misura in cui l'immagine è comunque sempre esteriore al soggetto: l'unità alienata che prende il nome di “io” alla fine del processo di individuazione custodirà nel suo cuore la frattura tra l'io e l'altro e tra il soggetto stesso e l'io. La ferita non è rimarginabile in seno all'autocoscienza; il soggetto non arriverà mai a congiungersi con l'immagine ideale che lo rappresenta. Tale ferita si dispone all'incontro con l'altro proprio in quanto l'io, nel momento sorgivo della sua creazione, è già abitato dall'altro, dal suo fantasma, dal suo desiderio. Nella forma del desiderio come desiderio dell'Altro, al di là del godimento (la Begierde hegeliana), passa il confine tra l'immaginario e il simbolico.
Scena II: modello magistrale, maestria rifiutata e tradimento dell'immagine
Che Satoshi Kon sia un grande regista lo si capisce dalla gestione dei tempi cinematografici con cui mette in scena l'entrata di Mima nel mondo della recitazione e della produzione televisiva. Se la sequenza iniziale del concerto prevedeva una regia dinamica, il montaggio alternato e un utilizzo del sonoro a denotare il contrasto tra silenzio dell'interiorità e fragore dell'immagine pubblica, ora, al contrario, le inquadrature si fanno più posate e descrittive, il montaggio più sinuoso e narrativo, mentre la fotografia alterna toni differenti: più caldi per dipingere la relazione tra Mima e Rumi, più asettici e “professionali” quando le inquadrature si rivolgono ai macchinari e alle persone presenti sul set. Tutte le scelte registiche mirano a sottolineare nuovamente una certa sconnessione tra identità e immagine. Ma se nella scena del concerto tutta la tensione mimetica prodotta dagli sguardi altrui plasmava il soggetto-Mima in un'immagine-idolo luminosa e splendida ancorché evanescente, ora, invece, Mima è ai margini, invisibile e anonima in un mondo che procede secondo leggi proprie. Il passaggio è interessantissimo perché, per la prima volta, vediamo Mima desiderare non tanto il desiderio dell'altro (ossia, assecondare quell'immagine in grado di assicurare un godimento narcisistico intercettando il desiderio altrui), quanto l'essere dell'altro. Mima riconosce un modello che, senza accedere alla sfera simbolica della parola, le indica con la sola presenza un desiderio e una strada. Strana sensazione davvero: Mima, a margine degli sguardi altrui (ricordo infatti che la prima scena nel suo piccolo appartamento è totalmente giocata su un possibile sguardo di un voyeur), si fa corpo e carne viva, manifestando un desiderio, quasi fosse una liberazione. «Eri Ochiai è incredibile! É veramente fantastica. Sotto i riflettori, sembra che si trasformi in un'altra persona».
Raccordando queste poche scene e concludendo il climax con questa battuta di Mima, Satoshi Kon dipinge splendidamente il destarsi del desiderio a partire dall'imitazione, dall'elezione di un modello. Il motore del desiderio trova la sua benzina in un modello che, improvvisamente, viene riconosciuto per la sua capacità magistrale. Per la prima volta è lo sguardo di Mima che trabocca di desiderio e il suo sguardo solca l'inquadratura finendo al di là: l'altro non è in questo caso colui che, con il suo sguardo, mi intrappola in un immaginario, è piuttosto il luogo impossibile della trascendenza, la traiettoria per uscire dall'immagine che gli altri vedono, mediazione non tanto con l'Altro lacaniano (inteso come linguaggio e sistema simbolico impersonale) piuttosto con un volto incarnato che scardina la mia presenza con la sua.
Tutto il sistema di posizioni e segni orchestrato con perizia nella prima scena, viene quindi totalmente sovvertito. Ma, è bene annotarlo, è solo l'illuminazione di un attimo, effimera, fragile, anche se sintomatica. Lo spettatore deve però rimanere costantemente vigile sui dettagli, prestando una particolare attenzione a Rumi. Quest'ultima è decisamente il personaggio più stratificato all'interno del film, una complessità che restituisce la contraddittorietà emotiva ed insieme la polivalenza dei ruoli che sembra caratterizzarla. Rumi è la manager di Mima ed insieme una ex idol. Gli indizi che Kon dissemina nei primi minuti del film portano immediatamente a pensare che la relazione tra le due ricalchi la struttura oyabun-kobun. «Oyabun è una persona che occupa la posizione di oya (genitore); kobun indica chi si trova nella posizione di figlio (ko)». Secondo Chie Nakane, infatti, è tipico dei giapponesi, a prescindere dalla posizione sociale e dalla professione, strutturare le proprie relazioni in termini genitoriali e filiali, riproducendo quindi una verticalità gerarchica che si attesta per esempio nelle relazioni di carattere magistrale, ossia organizzate sulla polarità maestro-discepolo. In effetti, l'atteggiamento apprensivo e iper-protettivo di Rumi esprime sin da subito un certo fraintendimento nell'interpretazione che dovrebbe dare del suo ruolo. La tenuta gerarchica delle relazioni sociali, specie in ambito professionale, è indice della sensibilità mimetica tipica della cultura giapponese: ciò che va scongiurato, infatti, è proprio quella crisi d'indifferenziazione, ossia quella situazione di disordine, sovversione, inversione dei ruoli predefiniti che tendenzialmente porta ad un fermento della violenza, quindi alla sua catartica espulsione. Sadayuki Murai (sceneggiatore) e Satoshi Kon segnalano con grande rigore psico-sociologico il fatto osceno di una società dello spettacolo nipponica che ha smarrito proprio quella sensibilità mimetica di cui accennavamo poco sopra. Le cause sono diverse: sclerotizzazione del modello-ostacolo occidentale, canalizzazioni sacrificali verso quelle categorie “deboli” e anticipatamente escluse, assottigliamento del confine tra mediazione esterna e mediazione interna in un mondo tecnicamente accelerato. Perfect blue allude criticamente a tutto questo e sceglie il collasso di due psicologie sofferenti come piattaforma su cui cartografare i riflessi del passaggio di un'epoca.
Rumi, con i suoi atteggiamenti materni, tradisce quindi i valori magistrali intrinsechi alla figura del sensei. L'errore più pericoloso per un sensei, come già avevamo messo in evidenza in un'altra serie di articoli, è quello di temere o rifiutare la distanza con il discepolo, non riconoscendo il valore pedagogico di tale forma relazionale. Il buon sensei, al contrario, deve quindi mantenersi saldo confidando nel fatto che “sottrarsi” in tale distanza significhi precisamente responsabilità, esemplarità e rifiuto di portare scandalo al proprio discepolo, il quale viene invitato così ad essere e a crescere secondo il proprio, più intimo, desiderio. Sembra un paradosso, ma il sapersi collocare alla giusta distanza è propriamente la modalità d'incontro tipica del buon sensei: lasciar-essere il discepolo senza scandalizzarlo con le proprie aspettative e i propri desideri, essere un modello positivo e non un modello-ostacolo. Con ogni probabilità Rumi fu in passato una idol fagocitata dalla spietata macchina sacrificale dello spettacolo, idolatrata per qualche tempo e obliata rapidamente nell'indifferenza generale. Dal suo comportamento, dal suo “conservatorismo”, possiamo immaginare che il fugace momento di gloria sotto i riflettori abbia suscitato in lei un'impressione tale da tradursi nella forma di un transfert proiettivo tanto intenso da investire completamente la sua kohai, intenta ad intraprendere il medesimo percorso. Rumi si rivede nell'immagine di Mima idolatrata dai fan. Nel tempo ha imparato a godere del riflesso di quella luce: per questo motivo la sua cura verso la giovane discepola non è mai disinteressata, disposta a lasciar-essere; ha sempre un ché di eccessivo, di morboso, come se ogni gesto fosse appesantito dal desiderio pressante e richiestivo di vedersi confermati dalla controparte.
Quando la maestria si traspone in immedesimazione il rischio della doppia mediazione si fa sempre più probabile e incombente; se poi uno dei due poli recide il legame, cambiando semplicemente modello e orizzonte di desiderio, l'effetto negativo della doppia mediazione si flette scattando poi come una trappola, imprigionando il vertice adombrato del desiderio triangolare in una spirale sadomasochista (utilizzo il termine non in senso strettamente erotico, piuttosto mi riferisco alle variazioni mimetiche che determinano comportamenti dialetticamente contrastanti rispetto al medesimo ostacolo). Rumi è uno dei più esemplari personaggi nella rappresentazione di un preciso scandalo mimetico: la maestria rifiutata. Il suo dramma consiste molto semplicemente nel non poter essere più il modello di Mima. Ciò non significa che Mima faccia alcunché di male o di improprio; è la stessa cattiva interpretazione del proprio ruolo di modello magistrale -quella sovversione della distanza in immedesimazione- che apre a Rumi l'inferno della doppia mediazione. La doppia mediazione è uno spettro che aleggia tra le trame di ogni relazione; non è propriamente una latenza, è l'onnipresente tentazione che vorrebbe cristallizzare il rapporto con il modello-ostacolo, che vorrebbe il duale come fine e confine ultimo della relazione.
Quando Mima intravede nell'attrice protagonista del serial un nuovo e più prestigioso modello, l'acume registico di Kon sottolinea l'intera rete degli sguardi: alle spalle di Mima ci sono tre tecnici completamente assorti dall'immagine di un monitor ritraente il primo piano della bella attrice; al contempo, il totale stretto tiene a fuoco una Rumi rapita dallo sguardo di Mima, così da riprodurre in una sola inquadratura l'interezza del nuovo triangolo. Rumi viene così esclusa dal circuito della mediazione, ritrovandosi peraltro ad essere anello debole di quest'ultima: davanti a sé, infatti, si ritrova ad avere il proprio discepolo nell'atto di recidere il legame, nel tentativo cioè di ridefinire la propria immagine in virtù della nuova mediazione; dall'altra parte vede ergersi un nuovo e inarrivabile idolo, autorevole, indifferente, realmente distante.
La scena prosegue con Mima che si trova per la prima volta sola sotto i riflettori davanti ad una macchina da presa in attesa del ciak. La luce sembra ancora avvolgerla candidamente, in realtà la sua esperienza apparirà completamente stravolta: non è più eterea presenza, non è più un'immagine correlata ad un desiderio; la sua presenza ora si fa sentire come corpo, nella vergogna, nell'angoscia di essere esposta allo sguardo d'altri; ogni aspettativa di godimento narcisistico deve essere allontanata perché ormai il contesto è completamente diverso: è più freddo, professionale e pretende uno sforzo che sublimi il distacco dalla passata imago verso una nuova forma di riconoscimento. La sensazione di spaesamento è totale: i volti non sono responsivi, dal brulichio del chiacchiericcio trapelano commenti affilati che demoliscono le sue già inesistenti sicurezze, il montaggio accelera alimentando il disagio e il senso di oppressione. Il campo largo sullo studio isola infine Mima in totale solitudine.
Parallelamente, quasi ci fosse una co-implicazione, dalla parte opposta del set, assistiamo ad un'altra scena paradigmatica per intravedere connessioni e presagire il terremoto mimetico che, a breve, dilagherà. Rumi rimane silenziosamente in disparte mentre l'agente di Mima cerca timidamente di mettere pressione al produttore e allo sceneggiatore del serial. Le battute scelte sono particolarmente rivelative: «Salve signor Tejima, salve signor Shibuya – Ah salve Tadokoro. La nostra Mima va forte; devo dire che piace anche ai piani alti! - Davvero? Però mi sembrava che avesse... come dire?... poche battute! - Allora, cosa rispondi? [rivolto allo sceneggiatore] – Non vorrai dare la colpa a me? - Scusate, non sarebbe possibile darle un po' più... di spazio? - Già, però è una idol, giusto? È piuttosto difficile da usare – Ma no, quello per lei ormai è un capitolo chiuso. - Ah sì? - Ma certo! Siamo disposti a cambiare radicalmente la sua immagine».
Su queste ultime parole l'inquadratura scelta da Kon si sofferma significativamente sul volto di Rumi: anche lei è spaesata, sola, angosciata, emarginata. Tra Mima e Rumi, possiamo affermare ormai con certezza, esiste un doppio legame: la corruzione della vecchia immagine chiama lo spaesamento nell'inedita e incerta situazione, mentre l'orrore e il sangue che cominceranno a scorrere nella realtà del film si confonderanno (bisognerebbe forse dire, si sublimeranno) con la narrazione metacinematografica del “film nel film”. Il titolo del serial non a caso è “Double bind”, doppio legame.
Il perturbante freudiano come annuncio del futuro labirinto virtuale
Da questo momento in avanti la pellicola si fa sempre più perturbante. Realtà, allucinazione, virtuale, narrazione metacinematografica vedono assottigliati i propri limiti definitori; la ricca complessità delle inquadrature di Kon spinge in maniera parossistica verso la proliferazione di schermi e delle immagini riflesse. È come se le immagini, manifestantesi secondo statuti fenomenologici differenti, imparassero a comunicare tra loro: il montaggio, infatti, asseconda questo labirinto di rimandi tra le immagini stesse, disorientando totalmente lo spettatore. Le sequenze cominciano sempre meno a connettersi secondo schemi narrativi, piuttosto seguono esigenze puramente allusive, tratteggiando un'autentica topografia dello smarrimento. Mentre Rumi contesta la strategia dell'agente che rappresenta Mima e non si rassegna a difendere il valore dell'immagine-idol, l'aspirante attrice s'appresta a scendere nella spaccatura apertasi tra la vecchia immagine sempre più tirannica e una nuova identità da costruire e consolidare. L'intimità non è più terreno sicuro, diventando piuttosto il luogo di una inquietante es-propriazione: la sua voce interiore si confonde sempre più con le parole del blog “La stanza di Mima”, l'ossessione dell'otaku dal volto sfigurato assume una natura sempre più minacciosa transitando gradatamente verso il mostruoso, estraneo e familiare s'indistinguono senza soluzione di continuità. L'identità di Mima si frammenta in tante schegge, in tante immagini quante sono gli schermi; lo sguardo dell'Altro non conforma più come al tempo delle canzoni sul palcoscenico: in questa fase, anzi, lo sguardo d'Altri è sinonimo di inferno, il freddo inferno dell'indifferenza, dello scherno o, peggio ancora, della mania.
Occorre a questo punto fare una deviazione per mettere a tema la questione del perturbante, quell'indicibile tonalità che comincia a dilagare incontrastata e ad avvolgere il proseguo della narrazione. Ne L'istanza della lettera nell'inconscio o la ragione dopo Freud, un saggio contenuto negli Scritti, Lacan si chiede: «Quale è dunque questo altro cui sono più attaccato che a me, se nelle più intime pieghe della mia identità a me stesso, è lui che mi agita?» (14). La vertigine di questa domanda consiste propriamente nel nesso indissolubile tra estraneo e familiare, tra Altro e intimo, un nesso che dice l'essenziale riguardo la costituzione dell'identità. Un caposaldo, in tal senso, è sicuramente Das Unheimliche, ossia Il perturbante, breve ma ricchissimo saggio scritto da Freud nel 1919. Questo testo è particolare in molti sensi: è difficilmente catalogabile in quanto l'indagine intorno al perturbante è consegnata a molti ma contemporaneamente a nessun sapere specifico; è un testo insieme “marginale” ed estremamente stratificato. Marginale è un termine polisenso: in questo caso indica insieme l'apparenza di “opera minore” (testimoniata dalla constatazione dello stesso Freud insoddisfatto per l'inconclusività dell'argomentazione) ma è anche, e soprattutto, un testo che mette a tema precisamente, ossessivamente, lo statuto del margine. L'obiettivo di Das Unheimliche è quello di formalizzare un discorso sulla topica dell'inconscio, interrogando quella frontiera che la stessa psicoanalisi ha per prima tracciato, ossia quella che divide il soggetto, mettendolo in rapporto con un'alterità irriducibile a sé. Das Unheimliche parla, per così dire, del margine in quanto tale, si occupa di quel “tra” che separa e unisce due territori differenti, opposti. Nomina la differenza che separa questi due mondi e gli sconfinamenti che ne minacciano i bordi, cercando, perché no, di identificare una legge che presiede a quella stessa divisione originaria.
Freud, per tentare di rispondere, indossa questa volta i panni del linguista. A tutta prima Freud segnala che l'aggettivo unheimlich è l'antitesi, attraverso la negazione un, di heimlich, che deriva la sua radice da heim, casa. Heimlich rimanda dunque alla sfera del familiare, quindi, per antitesi, è facile sostenere che unheimlich possa indicare ciò che non è familiare, noto: l'estraneo. Proseguendo nell'indagine, Freud fa tuttavia una scoperta più “inquietante”: il termine heimlich non solo ha il significato di “familiare”, “domestico”, di ciò che va riferito alla sfera intima, ma significa anche “nascosto”, “celato”, “occulto”, fino a sfumare e a identificarsi con il suo contrario, unheimlich, nel senso di “inquietante estraneità”. Dice Freud: «è detto unheimlich tutto ciò che dovrebbe restare (…) segreto, nascosto, e che invece è affiorato» (15). Ciò che affascina Freud è l'indicibile istantaneità con cui i due campi semantici possono slittare l'uno nell'altro: dal primo significato di familiare, domestico, si trapassa a quello di celato, nascosto, segreto, fino ad indicare un senso di impenetrabilità e inaccessibilità. Da questo significato si sviluppa poi quella coloritura insidiosa, pericolosa, raggelante che contraddistingue il sentimento del perturbante. La Unheimlichkeit accompagna, dunque, l'affiorare di qualcosa di segreto e di occulto, il ritorno di qualcosa di familiare che è stato rimosso. Ma Freud continua a restare insoddisfatto: se è vero che l'Unheimliche rappresenta il riaffiorare di qualcosa di familiare che è stato rimosso, resta tuttavia ancora da spiegare come mai non sempre il ricordo di materiale rimosso è perturbante. Il problema quindi resta sostanzialmente quello di riuscire a tracciare delle linee di demarcazione precise tra i vari ambiti che Freud prende in considerazione nel suo saggio e che noi ritroviamo quale uno dei nodi più interessanti presentati anche da Perfect blue. Ma tanto più Freud, approfondendo la questione, lavora sul margine, quanto più riconosce come inestricabile la decisione intorno allo statuto dell'Unheimliche. Tra realtà e immagine o realtà e finzione esiste solo una membrana sottile, porosa, permeabile, penetrabile: lo statuto del perturbante è svelare l'indecidibilità di tali divisioni e nel contempo mostrare che tutto ciò che risulta propriamente inquietante non è un'“eco da un regno oscuro”, piuttosto il banale slittamento che avviene nel quotidiano, nel prossimale, nel familiare. È evidente, quindi, che nella Unheimlickheit è esibita la stessa posta in gioco della scoperta freudiana dell'inconscio, ossia quel limite, quel margine, a partire dal quale il Soggetto incontra quell'Altro che già da sempre lo costituisce e lo divide.
Ciò che davvero Freud non riesce a spiegare, anche se la sua scoperta dell'inconscio ne costituisce la più lampante dimostrazione, è che cosa rende davvero “perturbanti” alcune esperienze, in cui non si tratta del ritorno di materiali rimossi, del loro contenuto, ma del modo del loro ri-presentarsi. L'Unheimliche accompagna quindi il modo di presentarsi dell'impresentabile. Per questo si serve di mascheramenti superficiali, per questo filtra il reale deformandolo, senza però rimuoverlo. Quel che inquieta, nel perturbante, è l'effetto dell'urto contro il limite della rappresentazione che, sporgendosi dal suo bordo, tenta di presentare l'impresentabile, l'osceno, lo scandaloso. Lo scandalo non può essere occultato e rimosso; la natura inquietante del perturbante proviene precisamente dalla forza dirompente di questa contraddizione: se ciò che scandalizza è la presenza oscena dell'Altro, del suo desiderio, della sua mediazione, delle sue aspettative, del suo sguardo, il tentativo di dividere per meglio controllare questa presenza infestante, paradossalmente, finisce per segnalare ancora di più la forza di questa relazione, di questo legame.
Il riverbero di questo disperato tentativo di difesa dell'identità è proprio il perturbante, con le sue enigmatiche ossessioni, con una spettralità in grado di donare una tonalità ambigua e minacciosa ad ogni elemento, ad ogni oggetto, ad ogni comportamento abitudinario. In quell'istante in cui qualcosa ci mostra il suo volto unheimlich, ecco che siamo nell'indecidibilità di una contraddizione che nessuna dialettica, nessuna logica può risolvere. Né contraddizione né conciliazione, né superamento dialettico né risoluzione in unità, il perturbante è il familiare che ci appare nella sua estraneità e l'estraneo che si mostra familiare. Il familiare e l'estraneo non vengono l'uno dopo l'altro, né cadono infatti l'uno fuori dell'altro, ma si contaminano l'uno con l'altro, indissolubilmente intrecciati in un rapporto di coappartenenza che li separa-unisce, in modo tale che l'uno sia attraversato, al proprio interno, dall'altro. Esperienza di un margine illocalizzabile, i cui bordi appaiono inclusi e ripiegati l'uno nell'altro, l'Unheimliche indica un “non sentirsi a casa” nella propria intimità e rivela l'inquietante presenza di un altro là dove ero io, là dove l'io si sentiva padrone. L'Io insomma non è più il guardiano del margine, è espropriato della sua funzione; l'idea di un processo di identificazione lineare appare ormai solo come una chimera o tuttalpiù come un miraggio.
Con questo detour intorno al perturbante freudiano siamo riusciti quindi a ricondurre ad un discorso unitario diversi temi decisivi dentro la narrazione di Perfect blue, spiegando anche la ragione di una certa liquidità fra un piano di realtà e l'altro: il fantasma, il mostruoso, il virtuale, il metacinematografico, lo specchio sono tutte tracce di un processo di progressiva estraneazione del quotidiano, dell'intimo, del soggetto in costante ricerca della sua nuova “vera” immagine.
Scena III: una traccia di Edipo, l'apparizione del fantasma, lo stupro come rito di passaggio
Lo snodo narrativo che impone un'accelerazione vertiginosa al film è la decisione di Mima di interpretare all'interno del serial “Double bind” una scena in cui viene stuprata all'interno di un locale. Nelle intenzioni dello sceneggiatore del serial, questo evento dovrà essere il punto di svolta per l'evoluzione dell'intreccio: il personaggio interpretato da Mima diventerà, a sorpresa, il centro della narrazione stessa, poiché la causa degli efferati omicidi che da quel momento in avanti vengono consumati viene ricondotta a quel momento traumatico, talmente intenso da provocare una scissione nell'identità del personaggio, moltiplicandone le personalità. La questione merita di essere affrontata passo passo perché gli effetti di quell'evento riverberano anche nella realtà filmica, alterando definitivamente la relazione tra Mima e Rumi, assottigliando ancora di più la differenza tra realtà, finzione metacinematografica e sogno-allucinazione.
Il dialogo tra Mima, Rumi e Tadakoro intorno alla decisione da prendere è, ancora una volta, particolarmente sintomatico: Tadakoro cerca di spiegare a Rumi che la scena di stupro è funzionale a far diventare Mima protagonista della seconda parte del serial; la reazione di Rumi traduce precisamente il suo scandalo: Rumi si appella nuovamente all'immagine di idol che Mima dovrebbe, a suo dire, difendere incorrotta e conservare in tutta la sua purezza. Nel prendere questa decisione Rumi vorrebbe integralmente sostituirsi a Mima: il suo narcisismo regressivo, unito ad un modello-ostacolo sempre più scomodo e ingestibile, sta rapidamente conducendola ad un'alienazione totale del sé. Sembrerà forse artificiosa un'interpretazione così “didascalica”, eppure questa scena ricorda da vicino l'Edipo lacaniano: il soggetto-Mima per oltrepassare il rischio della trappola immaginaria di un godimento narcisistico che, in questo caso, sarebbe addirittura imitazione recessiva del desiderio di Rumi (la quale, per i suoi tratti iper-protettivi e impositivi, ricorda quelle madri che desiderano vedere nei figli solo l'immagine distillata della propria conferma), necessita dell'azione simbolica di un Tadakoro, qui in veste paterna. La parola di quest'ultimo agisce infatti come un taglio che va a castrare il godimento narcisistico totalmente impaniato nell'immaginario e agisce per recidere il legame tra Mima e Rumi, portando un punto di vista terziale in grado di scombinare la perfetta totalità immaginata per la giovane Mima. Accogliere il punto di vista della totalità simbolica è certamente un rito di passaggio doloroso sia per Mima che per lo stesso Tadakoro (il quale certo parla secondo logiche economiche ma non manca certo di reazioni partecipate ed empatiche di fronte alla brutale necessità imposta dal Terzo): tale evento segnerà invece il distacco di Rumi da sé stessa; l'immagine di Mima ha così potentemente colonizzato il narcisismo frustrato di Rumi che l'unica via di fuga sarà proprio l'abbandono dell'identità in vista di una sostituzione sacrificale.
«Il personaggio di Mima, Takakura Yoko, cambia totalmente personalità quando viene stuprata dai clienti di uno locale di spogliarelli -così Tadakoro-. Sei pazzo! Una scena di stupro!? -risponde Rumi- Diventa il personaggio-chiave nella seconda parte della serie! È un ruolo importante! - Ma Mima è un pop idol! Non preoccuparti Mima. Chiederemo al produttore in modo da cambiare la sceneggiatura. - Hey hey aspetta! Le sceneggiature sono già pronte per essere girate così come sono e gli scenografi stanno diventando ansiosi. Come apparirà se peggioriamo le cose discutendo? Ho già detto al signor Shibuya che Mima stava abbandonando la sua immagine di idol. - Il dovere della nostra agenzia è di proteggere gli interessi delle nostre celebrità! Non è possibile che Mima giri una scena simile. - Va tutto bene, Rumi-Chan. Lo farò -interviene così Mima- perché ho deciso che diventerò un'attrice. - Mima pensaci bene. Riesci a capire quale sarà la conseguenza di questa scelta? - Ma non mi stupreranno mica per davvero! Certo... Sono sicuro che ai miei genitori verrà comunque un colpo quando mi vedranno in una scena del genere. In ogni caso, lo farò. Darò il meglio. - Mima...». Gli sguardi le esitazioni i silenzi che incorniciano il dialogo sottolineano la rilevanza del momento: Mima è decisa ad abbattere l'immagine eterea di Idol in cui è rimasta ingabbiata generando così un terremoto mimetico devastante tra le persone a lei vicine.
Non è certo un caso che nella scena subito successiva appaia per la prima volta il fantasma di Mima-idol. L'apparizione del fantasma denota già in qualche modo la morte dell'immagine narcisistico-identificatoria di idol: il fantasma, infatti, è quell'entità perturbante che sempre ritorna (revenant), segnalando il persistere del rimosso, l'ossessione di un'alterità che non mi vuole abbandonare. Che il fantasma poi, in Perfect blue, prenda vita direttamente dal riflesso speculare della stessa Mima per adattarsi, col passare del tempo, alla meccanica dei corpi fisici, è quindi un'ulteriore testimonianza dell'intensità mimetica in grado di produrre un'allucinazione consistente e persistente. Lo scandalo della doppia mediazione e la mania ossessiva diventano sempre più concreti, prendendo letteralmente vita. Mentre la folla si ritira assumendo un potere tanto più virtuale quanto più tirannico, il fantasma comincia ad infestare la vita di Mima ma sempre in quanto sono gli Altri (Rumi, l'otaku, l'immaginario come palcoscenico dello “spettacolo”) che desiderano mantenere in vita, rievocare, far ritornare, l'immagine tramontata. E il fantasma si pone subito come istanza impositiva, squalificante, colpevolizzante; la sua voce può essere sempre, simultaneamente, una legione di voci: «Io mi rifiuto assolutamente di farlo!». Quanto più il fantasma si separerà dallo specchio tanto meno Mima riuscirà a ritrovarsi nei riflessi delle infinite superfici riflettenti e nelle immagini che corrono sugli schermi.
La dinamica narrativa di Perfect blue ha certamente qualche parentela con la struttura del nastro di Moebius: il punto di svolta è rappresentato dalla scena dello stupro simulato; i due percorsi paralleli e inversi, dal doppio all'unità e dall'unità al doppio, trovano lì il loro incrocio. La scena è violenta, reiterata, sgradevole, intensa, potenziata dalla rete di sguardi, moltiplicata dalle inquadrature distribuite su schermo: ciò che viene effettivamente stuprata non è la fragile soggettività di Mima, è solo l'immagine virginea dell'idol che fu. Le inquadrature di Kon stringono sul corpo sensuale di Mima che si concretizza, si “carnalizza”, sotto lo sguardo eccitato delle comparse che animano la scena. Il montaggio rimbalza dal set al dietro le quinte laddove su due piani sfalsati troviamo da una parte la medesima effervescenza mimetica che effonde vicino a Mima, un'eccitazione che nello sguardo richiama contemporaneamente sessualità e violenza, dall'altra Rumi e Tadakoro immobili e impotenti di fronte agli schermi. Quando la scena deflagra poi nella simulazione di un'orgia dionisiaca, le inquadrature contribuiscono a frammentarla in differenti angolazioni e volti: il volto sofferente di Mima in primissimo piano, primo piano, totale, i volti della folla dionisiaca in dettaglio oppure inquadrati dall'alto, quasi fosse una soggettiva indiretta. Le urla di Mima squarciano l'atmosfera, il latrare della folla eccitata cerca di coprirle; sul volto di Rumi cominciano a sgorgare copiose lacrime nello stesso istante in cui anche sul volto di Mima iniziano a comparire, come se la finzione iniziasse a traboccare dal suo statuto di finzione e a diffondersi nella realtà. Rumi piange, non vuole vedere e se ne va; Mima piange, si lascia andare, respira a fatica, i volti intorno a lei si sfigurano progressivamente, il mondo perde i contorni, torna lo spaesamento e il non-essere-a-casa anche presso il proprio corpo, brutalizzato, seppur idealmente, dalla folla dionisiaca. Il talento di Satoshi Kon sta tutto nell'inquadratura che conclude questa potente scena: viene rievocata la folla idolatrante di inizio film, con la differenza che corpi e volti sono come oscurati; l'inquadratura è frontale ma è come se una luce accecante sgorgasse da dietro le spalle della schiera inneggiante; con una dissolvenza incrociata l'immagine della calca rabbuiata lascia il posto all'idolo luminoso in primo piano di Mima-idol, sancendo così definitivamente un legame di coappartenenza e co-implicazione tra i due. Le voci si disperdono, una luce bianca avvolge ogni cosa e, finalmente, la tirannica immagine di Mima-idol svapora sperdendosi nello sfondo, inabissandosi in un biancore opaco, quasi torbido.
Scena IV: il fantasma emancipato, l'immagine-destino, l'immagine-civetta, l'alienazione e l'ipocrisia della società dello spettacolo
Come fu per Ivan Karamazov e il diavolo, lo scandalo, eradicandosi, esternalizzandosi, diventa concreto; presenza comunque inquietante, certo, ma quantomeno lo scisma interiore si è tradotto in un altro effettivamente Altro: un modo diverso di vivere la frattura stando di fronte e dialogando con la figurazione di tutti i propri ostacoli. Allo stesso modo, Mima, dopo il rito di passaggio dello stupro dell'immagine idolatrica (violenza che manda in frantumi anche l'immaginario collettivo), ritrova comunque il fantasma come presenza minacciosa e inquietante ma sempre più nettamente separata e “altra”. Se il fantasma prima dell'evento di rottura sorgeva dai riflessi e si sostituiva a quell'immagine speculare che avrebbe dovuto riconsegnare intatta l'identità, ora, invece, lo spettro pare sorgere dallo schermo del pc, dalle parole del blog “La stanza di Mima”, che scopriamo essere nient'altro che il canale di sublimazione immaginaria dell'otaku arrivato ormai a pedinarla ovunque. L'immagine levantesi dalle parole del blog si è ormai definitivamente precisata, vive di una vita completamente “altra” rispetto al percorso di Mima: quell'immagine vorrebbe essere un'istantanea fissata ad eternum, una sagoma che intralcia, col suo eterno presente, quella soggettività di cui Mima si sta riappropriando dentro un processo narrativo, che prevede quindi un'evoluzione nel tempo. L'immagine vorrebbe intrappolare Mima nella psicosi, vorrebbe condurla alla totale derealizzazione, vorrebbe impaniarla nell'imbroglio dell'immaginario: progetto che si nutre di fiele e risentimento proprio verso quel tentativo di riappropriazione di sé tentato disperatamente dalla giovane attrice. Non a caso, questa fase della traversata, mette al centro il corpo nella sua bellezza più carnale e terrena.
Uno dei drammi del contemporaneo è la dissoluzione del reale in immagine; se l'essere penetra nel simbolico si traduce in immagine, l'immagine è il destino dell'essere. Ecco perché Perfect blue è un film decisivo: ci mostra il dolore, le fratture, il disagio generato intorno a questo processo, innestandolo sul discorso della costruzione della propria identità, quasi fosse un romanzo di formazione. L'immagine dallo schermo schernisce e cerca di sbugiardare la Mima reale: l'immagine si spinge persino a denunciare il reale per la sua inconsistenza di simulacro, secondo una precisa inversione demoniaca.
«Questa non sono io! - urla Mima disperata - Ovvio che no, perché questa è la vera Mima! Su, ammettilo che vorresti tornare ad essere una idol! - così risponde la seducente immagine nello schermo- Non voglio! Io ormai ho chiuso. - “Ormai ho chiuso”... Ma certo! Adesso non puoi più fare la idol, non trovi? A chi vuoi che piaccia una idol sporca? Proprio a nessuno! - No, non è vero!».
L'immagine è civetta per costituzione: nasconde il suo segreto nell'atto di denudarsi sfacciata. Vive dello sguardo d'altri ma non deve darlo a vedere, proprio come la civetta. Questa indifferenza è, per colui/lei che ne è testimone, ostacolo severo proprio nella misura in cui è seducente e in grado di restituire all'altro tutta la propria povertà. Mima, inginocchiata davanti allo schermo, è affranta, intimorita, fiaccata nello spirito ma l'immagine attraente e mendace continua ad infierire. Con una geniale soluzione registica, Satoshi Kon letteralmente rivela allo spettatore la nascita del fantasma a partire dall'immagine: di nuovo, la turba acclamante colta in controluce, va dissolvendosi nella stessa luce mistica, nello stesso brillante chiarore della scena dello stupro; Mima-idol, però, non è più il colossale monumento che ingloba lo svanire della folla, questa volta è più leggera, più agile, corre incontro a Mima (quindi allo spettatore) esclamando beffarda «ormai non puoi più tornare in quella luce». Una volta occultato il vero mediatore, la civetta è inscalfibile, imprendibile, sfuggente, si è fatta pura superficie; l'immagine si è emancipata dal suo nuovo supporto, mentre il peso della mediazione dà nuova consistenza allo scandalo: il fantasma è ora libero di vagare. La via della sostituzione sacrificale è ufficialmente predisposta: «ma non importa, perché ora ci sono io. D'ora in poi, io sarò la luce e tu sarai l'ombra. Ormai non piaci più a nessuno. Sei sporca! Sei sporca! Sei sporca!».
Ma chi parla qui veramente? L'immagine, concretandosi in fantasma, si sta spostando sempre più verso il polo adombrato e scandalizzato del desiderio triangolare. Le inquadrature di Kon sono studiate e impeccabili: nell'aura fantasmatica il polo scandalizzato della mediazione trova la posizione più adatta per colpire l'avversario senza poter essere scalfito, conversione sadica del proprio risentimento. Ma l'immagine che diventa fantasma comincia anch'essa ad esporsi alle temperie del mondo: quel senso di onnipotenza durerà solo il tempo della vendetta, fino all'incontro traumatico che porterà necessariamente alla sua dissoluzione. Un altro grande insegnamento che il maestro Kon ci ha lasciato nel suo esordio.
Che il fantasma sia definitivamente affrancato dai riflessi speculari e da ogni altro tipo di supporto comporta l'aggiunta di un'ulteriore sfumatura: il fantasma, infatti, smette così di essere esperienza privata di Mima e comincia ad interagire sia in modo peculiare rispetto ad altre singolarità (quella dell'otaku, anch'egli vittima ingabbiata nella trappola immaginaria che lui stesso ha contribuito a creare), sia come frutto della mania e del delirio collettivo.
Il meccanismo del thriller entra poi definitivamente in azione: con il primo omicidio iniziano anche le operazioni di depistaggio del regista. Seguendo una strategia bilanciata ed efficace Satoshi Kon mostra allo spettatore ogni passaggio come se fosse intrinsecamente doppio: dapprima semplicemente montando in parallelo il sofferto percorso di Mima verso la nuova immagine e lo sprofondare nell'alienazione psicotica dell'otaku, successivamente confondendo i piani di realtà “interni” alla coscienza della stessa Mima. Non c'è tempo per fermarsi a riflettere sui legami che possono esserci tra il primo attentato sul set del serial e l'omicidio dello sceneggiatore responsabile della traumatica svolta “narrativa” per l'immagine di Mima. Ad attenderla c'è subito un set fotografico che ha il preciso obiettivo di “denudarla” nel suo desiderio di spogliarsi della passata immagine di idol, perpetuando quindi il dogma della società dello spettacolo: in Perfect blue, infatti, solo una nuova immagine può scacciare l'immagine precedente, proprio come la violenza, secondo le parole di Girard, scaccia Satana con Satana. Mentre Mima “insozza” lo splendore angelicato del suo passato, il film rimbalza al concerto delle Cham superstiti. Qui troviamo la solita folla di maschi urlanti, tutti intenti a fotografare sottraendo immagini al tempo, come se avessero trovato il modo di succhiare la linfa vitale dalla realtà. Il montaggio sottolinea la totale indifferenziazione tra i due tipi di sguardo. Ecco spiegata la disseminazione degli inserti polemici che coinvolgono vari personaggi della schiera di ammiratori delle idol, risentiti per le scelte di carriera di Mima. Con il suo percorso Mima decide coscientemente di compromettersi, di sporcarsi, di misurare il proprio desiderio nello scontro con la realtà. Questo coraggio è precisamente ciò che manca al medio otaku il cui desiderio mira alla purezza dell'immagine, all'emendazione di ogni imperfezione, alla perfetta trascrizione del proprio immaginario. Satoshi Kon svela l'ipocrisia della società dello spettacolo: lo sguardo della folla è una virtualità presente dietro ogni immagine; la patetica protezione dello status virginale, candido, puro delle idol coincide totalmente con la morbosa sessualizzazione dello sguardo del fotografo: ogni sguardo intenzionante è sacrificio del soggetto sull'altare dell'immaginario.
Ma l'otaku dal volto deforme si trova sicuramente ad uno stadio più profondo della fissazione mimetica, della derealizzazione alienata tanto che, munito della sua inseparabile telecamera, filma estasiato il vuoto compreso tra le idol superstiti dopo la svolta: l'immaginario si è fatto così tirannico che l'immagine è generata dallo sguardo stesso di colui che guarda. Come nelle Baccanti di Euripide, in cui la mania, la concitazione mimetica che produce allucinazioni psicotiche, finisce per fare a brandelli i personaggi reali, allo stesso modo, ma in modo ancor più parossistico, questa scena di Perfect blue rivela il grado di totale alienazione della folla a partire dallo sguardo stupito delle due cantanti sul palco, le quali sentono comparire tra loro la presenza inquietante del fantasma evocato dagli occhi sempre più lucidi e meravigliati della calca eccitata: come per incanto, il fantasma scompare saltando in mezzo al pubblico, divorato dalla stessa folla. Sussiste sempre una tensione tra immagine divina, sovrana, fulgente e lo sparagmos compiuto dalla folla violenta.
L'otaku senza nome è ormai completamente rapito dalla mania, desidera eliminare le macchie che hanno iniziato a ricoprire la vita di Mima arrivando a requisire tutti i reperti che attestano l'avvenuto cambio di immagine. Curioso il fatto che questo colosso dai lineamenti infantili non abbia mai interagito con gli altri esprimendosi a parole. Le prime parole che pronuncia di fatto non sono sue, piuttosto appartengono a quella Me-mania trasformatasi nell'avatar virtuale sostitutivo della vera Mima, pertanto la sua voce viene a coincidere con il tono stridulo e mendace del fantasma. In verità sono in molti a parlare dentro di lui: ha finito per sdoppiarsi in più identità virtuali che perpetuano il culto dell'immagine di Mima-idol, un culto che, arrivato ormai al parossismo, sconfina nella sostituzione integrale della divinità, ben oltre quindi la semplice adorazione. Incriptato nel santuario dell'otaku vediamo operare il potere corrosivo dell'alienazione al grado più estremo della mediazione assolutamente onnipervasiva (nel senso che si compie la maledizione di una mediazione esterna che si è totalmente indistinta con la mediazione interna, facendo crollare contemporaneamente distanza e spazio dell'interiorità): «Grazie per l'email di oggi! Almeno tu mi credi, non è vero? Quella non sono io. È una bugiarda!» - così si sfoga l'immagine, generando un cortocircuito tra parola pensata, parola pronunciata e parola scritta - «Certo. Tu non faresti una cosa simile. Io mi fido di te, Me-mania. Sarò sempre, sempre insieme a te. Ma quella stupida bugiarda sta rovinando la mia immagine. Come posso fare? (…) Ormai posso contare solo su di te».
Le immagini di Mima che affollano le pareti della spoglia stanza del ragazzo si impongono all'unisono, filtrando la voce dello stesso ragazzo: il fantasma compare nel controcampo, in ombra proprio come il diavolo nell'appartamento di Ivan. L'abbraccio affettuoso che lo spettro offre al ragazzo è raggelante ma, per la prima volta, cominciamo ad intuire una presenza concreta dietro al mediatore immaginale.
Scena V: il “film nel film” come risoluzione mitica e menzognera del vero scandalo
Con questa scena entriamo nell'ultimo segmento della pellicola. Navigando a vista in un'atmosfera sempre più perturbante, il senso di straniamento cui pare destinato lo spettatore è ormai definitivo. L'accelerazione di ritmo è paradossalmente legata alla ricorsività della struttura narrativa che costringe Mima e lo spettatore a ripartire ogni volta dallo stesso punto, da un apparentemente identico risveglio che, tuttavia, ad ogni giro rimanda ad una regione più profonda dell'incubo omicida e dell'indistinzione fra i vari piani di realtà. Il montaggio lega in assoluta scioltezza realtà presente, sogno-allucinazione e svolgimento del serial televisivo. In quest'ultimo, in realtà, vengono cifrati più messaggi che possiamo dividere tra quelli che vengono implicitamente inviati a Mima nel presente reale esistente fuori dal “film nel film” e quelli che invece vengono pronunciati solo per fuorviare lo spettatore di Perfect blue, il quale, cera plasmata nel calco della metafisica occidentale, sarà indotto per automatismo a ricondurre tutto al soggetto, in vista di una risoluzione mitica e catartica, giocata totalmente su una dialettica interiore imperniata sul senso di colpa, per cui nello specchio e nel fantasma non ci sarebbe nient'altro che il contenuto del rimosso. La povera Mima non sa più riconoscere se sta recitando, se sta sognando, se sta agendo, mentre le presenze concrete che la circondano diventano tanto più affettuose quanto più inquietanti: le parole circolano senza soluzione di continuità tra la realtà e il serial, i personaggi principali del serial corrispondono al rapporto Mima-stalker. Gli omicidi avvengono contemporaneamente all'uscita della nuova puntata in televisione rivelandola nella forma di una profezia che si auto-avvera. Nel serial il personaggio della detective (interpretato forse non a caso da colei che per prima esercitò una mediazione magistrale all'interno del nuovo contesto) prova ad interagire con la più lucida delle personalità frante e dissociate che compongono il personaggio interpretato da Mima: «ascolta, lo sai perché riesci a capire che tu, in questo momento, sei la stessa persona di un secondo prima? Perché c'è la continuità della memoria. È l'unica cosa che ci permette di costruire l'illusione di avere una personalità unica e coerente».
Perfect blue è uno dei film più sublimi nel mostrare come a certi stadi della mediazione interna, la sostanza metafisica delle cose può alterarsi a tal punto che non sussiste più alcuna differenza fenomenologica tra uno stadio della percezione-rappresentazione e l'altro. Le pareti tra realtà, sogno-allucinazione e “film nel film” vengono completamente rase al suolo dall'inferno della mimesi; l'unica soluzione potrebbe scaturire dall'ascolto di quel richiamo che alla soggettività giunge nella forma del recupero della propria natura narrativa, ritrovando un rapporto più concreto con la temporalità. Non c'è tempo lineare nella mediazione: c'è solo l'eterna ripetizione della ricerca e dello schianto contro l'ostacolo. E certo non a caso, in questa fase finale, gli scandalizzati si palesano per godere dell'assoluta indigenza di colei che da discepolo prediletto è arrivata a trasformarsi in inammissibile ostacolo.
In un dialogo tra i due detective del serial vediamo definitivamente rivelata la soluzione del giallo: «il maniaco omicida era un'ombra che lei stessa aveva creato. - Già. Si sentiva perseguitata da quel guardiano immaginario e aveva finito per sovrapporgli l'immagine del serial killer delle top model. - Non è possibile! Come fa un'ombra ad uccidere? - Sì, è vero. Non potrebbe almeno che non trovi un tramite. - Come, un tramite? Non intenderai che gli uomini uccisi... - Per lei erano solo pedine che avevano esaurito lo scopo».
Ma proprio laddove la soluzione è alla portata di mano, il mascheramento è massimamente efficace. Il “film nel film” nient'altro è che l'anticipazione della rielaborazione mitica del vero colpevole degli omicidi. Per inciso, è la soluzione che tanto piacerebbe al pubblico occidentale e che, invece, ostenta una totale approssimazione per tutto ciò che concerne quella che possiamo definire una caratterizzazione attraverso il canale dell'interindividualità. Le narrazioni occidentali tengono mediamente a sottolineare la frattura interiore nella forma della “doppia personalità” (o comunque personalità multipla), portando al centro il soggetto e non le relazioni; l'animazione nipponica (ma in generale l'acume mimetico delle narrazioni giapponesi tutte) procede esattamente in direzione contraria. La narrazione occidentale tende ad occultare l'esistenza concreta del mediatore producendo però, come effetto collaterale, uno strano senso di artificialità. Il “film nel film” dentro Perfect blue non è nient'altro che la narrazione autoscagionante/giustificante che Rumi farebbe una volta compiuta la sua vendetta mimetica, delirante e allucinata. Fortunatamente, il manicheismo occidentale è qui bandito. Non c'è un reale colpevole: tutti si è ugualmente vittime ai gradi estremi della mediazione interna. Concludendo le riprese di “Double bind”, è come se Mima ufficializzasse l'abbandono della sua vecchia immagine: quale occasione più propizia dunque per officiare la sostituzione sacrificale e tornare in questo modo a celebrare il culto della purezza dell'immagine e dell'immaginario?
Scena VI: occhio per occhio, concretezza del mediatore e sostituzione sacrificale
Chi sono le vittime del/dei serial killer? L'ambiguità intorno al numero dei colpevoli è sintomatica in quanto rivela l'azione mimetica quale azione sempre compiuta da qualcuno il cui nome è Legione, per citare il Vangelo di Marco. Sempre corale e sempre eterodiretta l'azione compiuta al parossismo mimetico risulta in ogni caso efferata, premeditata e con una precisa funzione simbolica. A tutte tre le vittime (lo sceneggiatore, il fotografo e il signor Tadakoro) vengono emblematicamente cavati gli occhi. I loro occhi, infatti, secondo l'alienata logica dei due assassini, conservavano impressa sulla cornea la macchia che ha definitivamente insozzato l'immagine virginea di Mima-idol: penetrarli con un punteruolo per poi cavarli significava quindi re-istituire la purezza edenica precedente alla caduta nel peccato. Non è certo un caso che l'unico occhio che non viene cavato sia proprio quello dell'otaku, ucciso da un preciso colpo di martello scoccato da Mima nel disperato tentativo di difendersi dal suo assalto. L'occhio eternamente coperto dai folti capelli scuri sarà l'unico ad essere asportato, proprio perché anche il suo essere coperto, quindi orbo, non lo accreditava quale responsabile della generazione dell'immagine idolatrica. Innumerevoli sono i primissimi piani scelti da Kon per testimoniare l'innaturale luccichio dell'occhio in vista dell'otaku, tanto attirato dall'immagine da strabuzzare mostruoso fuori dalla sua cavità.
Mima, uccidendo l'otaku, elimina quel medium mostruoso che dava forma concreta agli scandali mimetici: il volto deforme del ragazzo diventa metafora della terrificante deformazione del reale che l'alienazione mimetica porta con sé. La sintesi mostruosa dei commenti, degli sguardi, delle aspettative, del misconoscimento, che la folla ha riversato nel percorso della giovane ragazza è così definitivamente svanita: squarciando quel velo perturbante che ammantava ogni cosa rendendo la realtà un fantasma tanto sfuggente quanto l'immagine, finalmente Mima finisce per incontrare Rumi faccia a faccia, riconoscendola quale polo scandalizzato e in ombra della mediazione agente sin dall'apertura della pellicola.
La regia di Kon, per il finale, sceglie di svelare l'arcano mostrando gli slittamenti progressivi che sopraggiungono nei riflessi speculari, costringendo lo spettatore ad ammirare dall'esterno il funzionamento della trappola derealizzante che nel pensiero di Lacan prende il nome di immaginario, ossia un Io tanto più narcisistico quanto più alienato. Grazie a Lacan sappiamo che nell'Io narcisistico preme con forza una pulsione suicidaria che sacrificherebbe il soggetto sull'altare dell'immaginario; la variante sadica direttamente correlata a questa figura psicologica, rappresentata appunto da Narciso che affoga nello specchio d'acqua, è una pulsione omicida verso tutti coloro che provano ad infangare lo splendore candido dell'immagine ideale eletta a sovrano durante il processo di identificazione. Kon abbatte la cattedrale delle immagini speculari cominciando a svelare il mediatore sullo sfondo dello stesso riflesso.
L'inquadratura a cui mi riferisco è al centro di quella che, a tutta prima, si direbbe una semplice scena di raccordo mentre, al contrario, segnala l'inizio della fuga di Mima dal gorgo mimetico. Rumi, dopo aver opportunamente occultato i cadaveri dell'otaku e del signor Tadakoro, è intenzionata ad accompagnare a casa Mima per celebrare il definitivo trionfo dell'immaginario. Durante il tragitto, fuoriuscendo da una lunga galleria, Kon compone un'inquadratura sublime: in primissimo piano a sinistra apprezziamo il volto sfinito, sconvolto e spaesato di Mima, al centro dell'immagine vediamo invece il suo riflesso, mentre sullo sfondo, come chiusura del quadro a destra vediamo comparire il riflesso di Rumi che, con il suo sguardo materno, abbraccia le altre due immagini. Vediamo insomma, tradotta in icona, la realtà guasta della relazione mimetica che per tutto il film ha inquietato il percorso dei due personaggi. Lo sguardo materno, forgiato in un amae completamente degenerato, di Rumi rappresenta la massima espressione di un soggetto-ombra che, dentro la mediazione, trova il modo di cannibalizzare l'altro, di indebolire il suo statuto di mediatore per asservirlo ai progetti del proprio immaginario. Un cannibalismo così feroce che arriverà appunto a tradursi in una sostituzione integrale dell'altro, un'esclusione violenta, un'eliminazione fredda ed efferata. La stanza in cui Rumi ha immaginato l'omicidio di Mima, non a caso, è la copia della vecchia stanza dell'ex cantante, replicando quindi, ancora una volta, quell'effetto di familiarità estraniante che abbiamo visto essere tonalità dominante della pellicola. Guardando fuori dalla finestra, Mima spalanca gli occhi stranita: il riflesso questa volta non tradisce più ambiguità; Mima sa che quella non è in alcun modo la sua stanza. «Ma questa... questa non è la mia stanza!», la macchina da presa fissa in primo piano Mima mentre la stessa voce stridula del fantasma risuona alle sue spalle veramente “altra”: lo spettro non è più libero di vagare, la sua eterea alterità ha ritrovato il corpo pesante e grottesco da cui è stata originariamente prodotta - «Certo che no! Questa è la stanza di Mima» -.
Conclusione: di riflesso in riflesso, fino alla realtà
La precisione di Kon raggiunge l'acme quando per un frammento di secondo coglie l'inquadratura definitiva, quella cioè che sintetizza in un colpo solo “stadio dello specchio” lacaniano e scandalo mimetico girardiano: vediamo in primo piano Mima di spalle come vertice della triangolazione mimetica, mentre ai lati troviamo sdoppiata tra realtà e riflesso speculare Rumi (nella prima parte del film, soggetta a frammentazione in immagine era invece Mima); tastando il polso dello scandalo rivelatore ritroviamo così perfettamente rappresentato il duplice percorso delle due protagoniste lungo la struttura del nastro di Moebius: dal doppio all'unità (Mima), dall'unità (scandalizzata) al doppio (Rumi). Sconvolgente è poi il fatto che, da questo momento in avanti, solo lo spettatore vedrà Rumi non come corpo affaticato e sofferente bensì come leggiadra e volatile immagine, come per scoccare l'ultima critica a una società dello spettacolo sedotta e tiranneggiata dallo stesso immaginario alienato di cui Rumi è vittima. D'ora in avanti, infatti, per vedere Rumi come effettivamente è, occorrerà guardare lo specchio e non la realtà, perché ormai la realtà è stata completamente sostituita dall'immagine. Questa sarà l'ultima, eversiva, pugnalata, sferrata dalla decostruzione del maestro Satoshi Kon.
«Tu sei quello che ho seminato e ora devo estirpare»: queste parole asserite dall'immagine di Mima-idol, ossia il frutto dell'alienazione immaginaria e scandalizzata di Rumi, rivelano contemporaneamente sia l'elemento della maestria tradita (ma interpretata, ovviamente, nella direzione di un cattivo discepolo che ha sovvertito gli insegnamenti del senpai-modello) e la meccanica sacrificale del male che deve scacciato attraverso altro male.
Alla fine dello splendido inseguimento, un'ultima, densissima sequenza viene ad incorniciare la fine di questo terrificante viaggio. È il nitido riflesso di una Mima ferita ma vigile che questa volta guarda in fondo allo specchio, trovando la vera e cruda realtà: una Rumi costretta in maniera grottesca in un vestito troppo stretto, sudata e trafelata, preda del delirio finale. Kon compone qui l'inquadratura simmetrica di quella che abbiamo descritto precedentemente: questa volta il primissimo piano si trova a destra dove Mima volta la testa penetrando con il suo sguardo l'obiettivo della macchina da presa, quasi ad interpellare lo spettatore; al centro, nel riflesso speculare in primo piano, vediamo di nuovo il volto di Mima ri-volta verso la furia incombente di Rumi; a sinistra, sullo sfondo del riflesso speculare, vediamo Rumi preda della mania più violenta, al culmine della dissoluzione del sé. Mima incontra così, tragicamente, la realtà. Il vetro viene sfondato dal colpo di Rumi e Mima viene messa all'angolo imprigionata dalla morsa della rivale. «Facciamola finita, su! In fondo due Mima a cosa servono? - No! Mima sono io! - Che carina! [ride diabolica Rumi] Mima è una idol, lo sai? E tu sei un lurido falso! - Tu sei pazza Rumi! Io sono io, lo capisci?».
L'ego si recupera nel trauma e nella sofferenza, il soggetto lo si riconosce quanto più è assoggettato all'altro. Mima si divincola dalla presa della rivale assestando un colpo che smaschera il travestimento di Rumi. Anche lo spettatore viene così trafitto dal doloroso primo piano del volto alienato di Rumi: lo sguardo assente, distante, sconnesso, rapito da una mania feroce. Crollata in un attimo l'illusione, la realtà diventa subito insostenibile. Rumi allora, cercando di recuperare la parrucca caduta a terra, finisce per “suicidarsi” sulle guglie della cattedrale dello specchio in frantumi. Al corpo trafitto viene raccordata l'inquadratura del volto di Rumi, franto e disperso fra i vetri rotti per terra, svelando così il segreto della fissazione immaginaria ferma allo “stadio dello specchio”. Il sangue si riversa copioso a coprire le immagini rotte; l'illusione deve essere ricreata; i fari di un camion vengono a coincidere con la luce prodotta dalla folla idolatrica in piena effusione mistica; Mima salverà Rumi da morte certa ma non dalla diabolica seduzione dell'immagine e dell'immaginario.
«Io sono io» lo si può dire solo di fronte all'altro, questa, in fondo, è la saggezza relazionale dell'animazione giapponese. Satoshi Kon firma così il suo primo capolavoro. Uno degli esordi più maturi della storia del cinema (d'animazione e non). Questo saggio, scritto a distanza di anni dalla prematura morte del regista, vorrebbe solo ricordare la portata magistrale della sua arte, la sua raffinatezza estetica mai fine a se stessa, la portata rivelativa e romanzesca del suo narrare.
Note:
(1) Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano, 1994, cfr. p. 168.
(2) Antonio Di Ciaccia - Massimo Recalcati, Jacques Lacan, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p. 7.
(3) Ibid. p. 8.
(4) Ibid. p. 10.
(5) Ibid. p. 11.
(6) Ibid. p. 12.
(7) Ibid. pp. 12-13.
(8) Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974. Cfr. in particolare Lo stadio dello specchio; L'aggressività in psicoanalisi; Discorso sulla causalità psichica; La Cosa freudiana.
(9) Cfr. Jacques Lacan, Scritti, p. 185.
(10) Antonio Di Ciaccia - Massimo Recalcati, op. cit., p. 13.
(11) Ibid. p. 13.
(12) Ibid. pp. 23-24.
(13) Ibid. p. 24.
(14) Jacques Lacan, op. cit., p. 519.
(15) Sigmund Freud, Il perturbante, contenuto in Opere 1917-1923 L'Io e l'Es e altri scritti, Bollati Boringhieri, 1979, Torino, cfr. p. 86.
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