Perché è rilevante dare una definizione di cosa sia il “mito”? Leggiamo racconti che siamo pronti a classificare come miti, poi altri e altri ancora: perché porsi il problema di anticipare quello che dobbiamo aspettarci dai successivi? Invece l’enigma è proprio questo: cosa ci dà la convinzione che il racconto che abbiamo appena letto è un mito? Almeno una definizione provvisoria, ancora da verificare tramite il confronto con il vasto materiale, dobbiamo averla. Ma nel caso del mito si ha l’imbarazzante percezione di camminare sui carboni ardenti.
Diciamo che come punto di partenza vogliamo una definizione poco impegnativa, la più neutra possibile, ma che abbia comunque un minimo di autorevolezza. Diciamo che è ragionevole partire dalla definizione del dizionario, una che è, o dovrebbe essere, universalmente accettabile. Per essere sicuri ne guardiamo più di una: con Internet tanto è facile.
L’Enciclopedia Treccani ne offre una particolarmente estesa: «Narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso religioso e comunque simbolico, di gesta compiute da figure divine o da antenati (esseri mitici) che per un popolo, una cultura o una civiltà costituisce una spiegazione sia di fenomeni naturali sia dell’esperienza trascendentale, il fondamento del sistema sociale o la giustificazione del significato sacrale che si attribuisce a fatti o a personaggi storici; con lo stesso termine si intende anche ciascuno dei temi della narrazione mitica in quanto trattati ed eventualmente rielaborati in opere letterarie o filosofiche».
La Garzanti ne offre una più breve: «Racconto delle gesta di dei ed eroi leggendari con cui si spiegano simbolicamente le origini del mondo, dell’umanità, di un popolo, di istituti sociali, di valori culturali, oppure la scoperta di arti, tecniche ecc.».
Il Corriere della Sera ne offre una ancora più breve: «Complesso di narrazioni che hanno per oggetto dei ed eroi leggendari in imprese di lotta contro forze avverse».
Come si diceva sembra di camminare sui carboni ardenti. La Treccani a differenza della Garzanti tiene in considerazione i temi letterari e il legame con la storia: la guerra di Troia e il ritorno a Itaca di Odisseo non spiegano l’origine di niente, tanto più che gli studiosi non escludono l’ipotesi che la guerra (evidentemente non come la ricordano gli aedi) sia storicamente avvenuta. Ma questo non per forza deve essere visto come un merito della Treccani: per gli intransigenti il “mito” è solo quel racconto che ha il nobile scopo di spiegare le origini, il resto è “leggenda”. Come prendere posizione tra le due?
Forse allora la terza definizione ci permette di aggirare il problema, vista l’impossibilità di risolverlo: tralasciando la funzione eziologica o il legame con la storia come fattori discriminanti, si focalizza sulla narrazione in quanto tale. La presenza di eroi e dèi in lotta sembra l’unico dato universalmente accettabile.
Invece non è proprio così. Il vero merito di questa terza definizione è di essere facilmente confrontabile con i testi, mentre le altre due utilizzano termini troppo generici, rendendo molto più difficile una verifica.
La Treccani e la Garzanti parlano di “gesta”: mette d’accordo tutti perché si può intendere come si vuole. Questo può essere un merito per la definizione di un dizionario, ma quando ci si confronta con un testo specifico non è di nessun aiuto. “Imprese di lotta contro le forze avverse” non lascia dubbi su cosa si intenda, perciò non è discutibile che in certi casi è un’espressione inappropriata.
Raccogliamo casi tra i più noti senza stare a recuperare miti di terre lontane e ai più ignote. Era, la moglie di Zeus, disgustata dal figlio Efesto, lo scaraventa giù dall’Olimpo. Di sicuro c’è l’avversità, ma è altrettanto sicuro che non è stata ingaggiata nessuna “lotta” contro il piccolo dio.
Con i numerosi stupri di dèi ed eroi il discorso è simile. Tra i casi più famosi ricordiamo Zeus che viola Elettra (la figlia di Atlante, non di Agamennone) e Aiace Locrese (da non confondere con il figlio di Telamone) che durante la presa di Troia viola Cassandra. Ammesso pure che si possa sostenere che ci sia stata una “lotta”, nessuno può discutere che il protagonista è l’oggetto e non il soggetto del sentimento di avversione. Qui non abbiamo dèi ed eroi contro forze avverse: sono proprio loro le forze avverse.
Termini come “gesta”, “imprese”, “lotte” sono dunque nel migliore dei casi eufemismi, per definire ciò di cui narrano i miti, siano essi con una funzione eziologica (come il tentato stupro da parte di un Apollo molto poco “apollineo” nei confronti di Dafne) o no. I dizionari esprimono solo l’imbarazzo di fronte a ciò che non ci si aspetterebbe da divinità ed eroi.
Quanto sia vero che già l’approccio alla lettura è sempre condizionato da una definizione, in realtà spesso neanche molto provvisoria, è palesemente testimoniato dal successo che per lungo tempo hanno avuto teorie – come quella di re trasformati in dèi per la loro grandezza dai racconti che la narrerebbero – facilmente confutabili dai testi che pretendono di spiegare. Una volta che altri termini, più pertinenti, cominciassero a entrare in uso, sarebbe più facile elaborare nuove teorie più convincenti.
Il termine “violenza”, che per primo l’antropologo René Girard ha indicato, è abbastanza generale per una definizione da dizionario, senza essere eufemistico. Chi può obiettare che non ci sia violenza nel feroce scontro tra Eracle e l’Idra di Lerna? O nella devastante Titanomachia? E d’altra parte l’italiano permette di dire che Eracle “violentò” Auge (una sacerdotessa di Atena).
Si può dunque affermare che l’originalità delle teorie presentate a partire dall’opera La violenza e il sacro e la loro assoluta presa di distanza da molte altre, lungi dall’essere un motivo di scetticismo, è piuttosto un merito. Offrono una possibilità nuova di comprensione autentica di ciò che abitualmente è chiamato mito e non solo.
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