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Tra i due litiganti, l'iperrealtà gode | Dispositivi d'Altro

Aggiornamento: 5 nov 2023



«Non esiste un uso buono dei media, i media fanno parte dell'evento, fanno parte del terrore, e giocano in un senso o nell'altro.» (1)

Anche questa volta, tutto parte dall'essermi imbattuto in questo tweet: viene proposto un breve filmato del crollo dell'edificio Seven World Trade Center l'11 settembre 2001, ma commentato di proposito, evidentemente per suscitare una gamma specifica di reazioni da parte degli utenti, come fosse un video attuale del crollo di un ipotetico orfanotrofio ucraino colpito dall'attacco di un drone. In questa performance andata in scena su Twitter, non viene difficile riconoscere l'ennesimo episodio – in senso televisivo – della serie dell'iperrealtà, l'interscambiabilità di realtà e virtuale che in essa si fondono, in streaming perpetuo su tutti i media.


Rievocando le lezioni del 2005 del Professor Mauro Carbone dedicate all'evento dell'11 settembre, recupero un po' di bibliografia.


Ne Lo spirito del terrorismo Baudrillard, a proposito dell'evento dell'11 settembre, si domanda: «Che ne è allora dell'evento reale, se dappertutto l'immagine, la finzione, il virtuale entrano per perfusione nella realtà? Nel caso che ci interessa [l'evento dell'11 settembre. nda] si è creduto di vedere (con un certo sollievo, forse) una risorgenza del reale e della violenza del reale in un universo che si spacciava per virtuale. […] Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l'energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire [e qui la nostra sensibilità girardiana deve subito risvegliarsi. nda] che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell'immagine... È una specie di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile. […] un più di violenza non basta ad aprire sulla realtà. Perché la realtà è un principio, ed è questo principio che è andato perduto. Reale e finzione sono inestricabili, e il fascino dell'attentato è innanzitutto quello dell'immagine – le conseguenze a un tempo giubilatorie e catastrofiche di esso sono anch'esse ampiamente immaginarie» (2). Queste conseguenze giubilatorie e catastrofiche propriamente immaginarie sono anch'esse una forma ritagliata dal dispositivo.


Ecco allora che questa idea di una gelosia della finzione da parte della realtà, di un duello tra loro, consente di pensare il confronto mimetico tra i due in termini girardiani: una competizione per chi sia il modello dell'altro, attualizzata nei soggetti disposti a partire dalla loro fruizione. L'immaginario sostituisce la realtà imitandola, simulandone il più possibile l'effetto realtà o ciò che codifica come tale, affamato dalla «passione per il reale» (3); la realtà lo imita di ritorno, ma il primo finisce poi per controimitarla rincorrendone l'effetto realtà, imitando quindi però infine se stesso. Si dissolvono così entrambi nell'indistinzione e nell'aggressione reciproca. Attualmente siamo ormai di fronte alla disposizione di eventi reali, alla costruzione di un proliferante apparato di immagini che sono prodotte come parte stessa, parte integrante non di rado pianificata dell'evento del reale, costituenti il reale stesso, modellate sull'immaginario virtuale che da lustri si nutre di immagini proliferanti, videogiochi iperrealistici, riprese in soggettiva grazie a dispositivi individuali, schermi e video ovunque. Impossibile per i soggetti che interagiscono a partire dalle immagini districarli e districarsi, perché sono anch'essi oggetti posti – dis-posti – dal sapere-potere che si articola innanzitutto come iperrealtà, mediante schermi disseminati come superficie di attualizzazione ed emergenza degli individui (4). E le soggettualità rispondono secondo le modalità loro assegnate dal sistema sapere-potere, secondo le modalità dell'autopromozione aziendalistica della propria vita – della propria immagine in quanto propria vita – che è ormai prassi di massa, stile di vita ed ethos dei popoli, e la sua forza scandalica è direttamente proporzionale alla proliferazione degli schermi ma, ormai, anche inversamente proporzionale alla densità in cui reale e virtuale si fondono nell'iperrealtà, non lasciando altro spazio di esistenza. TINA. There Is No Alternative (5).


Di questo dispositivo – lo schermo come superficie di attualizzazione – fa parte in secondo luogo il dispositivo dell'esposizione-confessione di sé obbligatoria e di competizione verbale obbligatoria – sulla linea del fan-baiting –, ingiunte come unica forma di esistenza propria dell'orizzonte virtuale dei media di socializzazione. Twitter è in fondo un esteso, proliferante, tentacolare e poliziesco confessore-guida-censore personale e universale, omnes et singulatim.


Che l'indistinzione tra immagine e realtà, tra narrazione e realtà, sia giunta a un parossismo che non cessa mai di tendere al proprio asintoto, è esperienza comune, che non credo sia nemmeno il caso qui di discutere nei suoi esempi quotidiani – che lascio alla biografia e all'onestà intellettuale del lettore far presenti a se stesso (6).

Detto questo, per fugare anche eventuali dubbi su di una mera natura nostalgica di queste righe, vorrei elencare alcuni punti difficilmente ridiscutibili filosoficamente: tra questi vi è innanzitutto che non si sfugge alla macchina (7): i dispositivi sono condizione di emergenza della soggettualità; secondariamente, che non esiste nulla come un'essenza e una verità perdute, e che queste siano solo effetti prospettici, movimenti retrogradi del vero – come dice Bergson; in terzo luogo, che non esista una differenza specifica nell'era contemporanea di internet, instagram, facebook e tik tok nel rapporto tra virtuale e reale, tra le soggettualità e le loro proprie immagini o narrazioni: esso è sempre e comunque un rapporto mimetico, un rapporto tra un modello e un discepolo, e che, semmai, è solo la scala del fenomeno, la pervasività, universalità e totalizzazione totalizzante e totalitaria del dispositivo ad avere, grazie all'internet, determinato come generale e totale la mediazione interna – senza possibile reversibilità a mediazione esterna – e ad aver prodotto esiti sì specifici, ma non esterni al paradigma mimetico; infine, che, se c'è qualcosa come una verità, è qualcosa sempre da fare, sempre da realizzare e riscoprire, come eternamente ritornante urgenza della cura di sé e dell'altro, e dalla cura di sé e dell'altro.



Anche il tweet da cui tutto è partito, nonostante sia stato – in gergo – una trollata, non sfugge alla logica dell'iperrealtà e del dispositivo; le soggettualità dis-poste, ritagliate da quella indistinzione, reagiscono equivalentemente alla realtà o all'immagine, impossibilitate a distinguerle o producendosi in tentativi di distinzione che, però – ed è questo uno dei punti che ci preme sottolineare –, non si retroflettono criticamente sull'opportunità di esprimersi, di reagire a ciò che recepiscono (sia che lo percepiscano come immagine-reale o come reale-immaginario), retroflessione che permetterebbe invece di individuare nella propria reazione – qualunque essa sia – una reazione indotta, voluta dal dispositivo di assoggettamento, dall'impellenza della confessione disciplinante, e si producono invece in un conflitto mimetico riconducibile a quello del fan-baiting.


Questa volta, però, l'occasione di scandalo è la produzione di contenuti social divisivi, performance di un'estetica della frequentazione dei media che – se non ho capito male – si autodefinisce mattonista. Cito dal loro manifesto: «Il mondo post-moderno è letteralmente la centrifuga di una lavatrice che gira impazzita e inarrestabile: il mattonista nemmeno tenta di fermarla. Egli apre l’oblò e ci getta dentro un mattone». Genio. Ma non possono non tornare alla mente le parole di Baudrillard nel testo Transestetica a proposito del look come atto d'apparenza, come unico gesto d'esitenza rimasto, anzi, di simulazione d'esistenza, unica dimensione ontologica rimasta nell'iperrealtà (8).


Evidentemente, la strategia del dispositivo che promana da quel tweet era di indurre il bypassamento della possibilità di riconoscere questa stessa intenzione strategica – non vorrei spingermi a etichettarla come il dato reale dietro l'immagine, quello che Foucault e Nietzsche, ed Eraclito prima di loro chiamava il conflitto di forze, ma ci siamo capiti – e di destinare le soggettualità al gioco mimetico della contrapposizione, in cui realtà e immaginario, reale e virtuale si scambiano posto e collassano su loro stessi, nel trionfo dell'iperrealtà. Un bel naufragio con spettatore che osserva però dal ponte del Titanic, spernacchiando le reazioni isteriche dei conaufragi, rivendicando per se una estraneità e una propria superiorità. Sì, perché, in tutto questo, la strategia dietro le azioni di queste soggettualità provocatorie risulta inoltre quella di indurre anche se stesse a questo bypassamento (9), destinare anche se stesse a perpetuarsi dentro la fluidificazione iperreale, nell'illusione di possedere una differenza romantica che segni una distanza, purtroppo però saggiata sempre internamente al dispositivo, e avente infatti bisogno della propria esposizione.


In fondo, siamo allora comunque ancora dentro un romanticismo girardiano, dentro l'illusione di essere modello esterno che dà forma allo spettacolo dei discepoli in fronte a sé, quando si è invece abitati dalla legione della mediazione interna, una mediazione appunto ora potenziata dalla perfetta fusione immaginaria tra virtuale e reale consentita dall'Internet.

Letta secondo l'analisi dei dispositivi, questa estetica risulta essa stessa disposta dall'iperrealtà, che fa dei soggetti di quella promotori gli oggetti prodotti e disposti, nello scambio perpetuo e circolare dei segni in cui reale e virtuale si fondono, appunto, nell'iperealtà e risolvono se stessi nel principio di simulazione (10). La simulazione come dispositivo attorno cui si agglutinano forme di soggettualità, come principio di una loro fondazione ontologica nella virtualità, che è, probabilmente, non un dispositivo, ma l'episteme stesso. Si può forse allora dire che, tra realtà e immagine, si articola il dispositivo del conflitto mimetico come dispositivo di onto-baiting, che dà forma iperreale ai fenomeni, agli oggetti e ai soggetti, e di cui il fan-baiting ne sarebbe solo un'attualizzazione locale.

In questo duello tra realtà e virtuale (11) e nel conseguente suicidio del reale in favore di una transustanziazione nel virtuale, in questo autosacrificio vittimistico, c'è il consumo compulsivo e disperato, in fondo, del proprio dispositivo.

Anche qui, il consumo di una variazione del conflitto mimetico, il consumo di una nuova possibilità di perfezionamento romantico di sé: il modello di una mediazione esterna che situa romanticamente se stessi al vertice di una inattingibilità ed esclusività assolute.


Anche questa volta, «grazie non compro nulla», «I would prefer not». Ma mi sa che ci sono dentro mani e piedi.



***


(1) Cfr. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo (2001), Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 41.

(2) Ivi, pp. 37-38 (corsivo mio).

(3) Cfr. S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale (2002), Meltemi editore srl, Roma 2003, in particolare p. 16 e p. 28: «L'aspetto problematico della “passione per il Reale” del XX secolo è stato che non si è trattato di una passione per il Reale, ma di una passione fasulla, la cui ricerca disperata del Reale al di là delle apparenze era lo stratagemma definitivo per evitare un confronto con il Reale.» (corsivo e virgolette dell'autore).

(4) Cfr. M. Carbone,Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale (2016), Raffaello Cortina editore, Milano.

(6) Cfr. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, cit., pp. 41-42: «L'atto repressivo percorre la stessa spirale imprevedibile dell'atto terroristico, nessuno sa dove si fermerà, né i rivolgimenti che ne seguiranno. Non c'è distinzione possibile, a livello delle immagini e dell'informazione, […] tra il “crimine” e la repressione. Ed è questo scatenarsi incontrollabile della reversibilità che segna la vittoria del terrorismo. Vittoria visibile […] non soltanto nella recessione diretta, economica, politica […] dell'insieme del sistema, e nella recessione morale e psicologica che ne risulta, ma anche nella recessione del sistema di valori, di tutta l'ideologia di libertà […] che faceva la fierezza del mondo occidentale, e di cui esso si valeva per esercitare il suo dominio sul resto del mondo. Al punto che l'idea di libertà […] sta già scomparendo dai costumi e dalle coscienza, e la mondializzazione liberale sta per realizzarsi in forma esattamente inversa: quella di una mondializzazione poliziesca, di un controllo totale, di terrore sicuritario. La deregulation finisce in un massimo di vincoli e restrizioni, equivalente a quello di una società fondamentalista.» (corsivo e virgolette dell'autore).

(7) «On n’échappe pas de la machine», sosteneva Deleuze in qualche testo, probabilmente in Kafka. Per una letteratura minore, ma vorrei ricordare anche M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità (1976), Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2020, pp. 84-85 «là dove c'è potere, c'è resistenza e che tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere […] una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d'appoggio, di sporgenza per una presa».

(8) Cfr. J. Baudrillard, Transestetica, in La sparizione dell'arte, Abscontia, Milano 2012., pp. 53-54: «Ognuno cerca il proprio look. Non essendo più possibile estrarre argomenti dalla propria esistenza […] né dallo sguardo dell'altro, per trovarvi grazia […] non resta che fare atto d'apparenza […] sono visibile, sono immagine: look, look! Non è neppure narcisismo, è un'estroversione senza profondità, una specie di ingenuità pubblicitaria dove ognuno diventa l'impresario della propria apparenza. C'è in questo una nuova passione [diremmo, una nuova antica passione romantica! nda], nuova e ironica, quella di essere sulla propria soggettività, […] Il look non è già più moda […] non è più un gioco di differenze, gioca alla differenza senza crederci. È indifferente. Essere se stessi diventa una performance effimera, senza domani. […] Strano Narciso: non sogna più la propria immagine ideale ma una formula di riproduzione genetica all'infinito.» (corsivo dell'autore).

(8) Cfr. nota 3.

(10) Cfr. J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, Milano 2015, p. 18, ma direi cfr. anche S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, cit., p. 18.

(11) Cfr. J. Baudrillard, Parole chiave, cit. pp. 42-43. (virgolette dell'autore, corsivo dell'autore il primo, mio il secondo).

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