di Simone Berno
Nella subcultura twitter (dove sub- non vuole avere unna connotazione spregiativa, ma solo una denotazione sociologica) circola ormai da un po' l'idea che il cannibalismo verrà presto sdoganato (esempi qui, qui, qui, qui e qui solo tra i più recenti) per le più diverse motivazioni, non ultima quella della sua sostenibilità ecologica, in ossequio alla post divinità del Green – che di post non ha nulla se non il proprio volersi priva di fondamento teologico, perché di certo non rinnega di avere i propri fondamenti teleologici ed escatologici.
A supporto di tale tesi vengono portati diversi episodi considerati delle finestre di Overton, a cominciare dalla pratica di riciclo delle salme, per finire con quella della pratica d'amore (come da recente film di Guadagnino).
L'orecchio uso al solfeggiar Girardiano non poteva non cogliere anche in questo episodio la sottile presenza della nostra trama preferita. Urge quindi adombrare modestamente alcune riflessioni sul cannibalismo rituale, premettendo di non essere antropologi né di voler attingere e prendere posizione rispetto alla sterminata letteratura accademica sull'argomento: questa non è una tesi accademica, non un erudito snocciolare riferimenti, ma solo un ragionamento condotto a partire dagli strumenti girardiani.
Dunque, perché andare a lambire il tabù del cannibalismo?
Ma attenzione: non voglio considerare qui né il cannibalismo accidentale, quello compiuto da esseri umani in condizioni di tale inopia da non avere alternativa (e non sto per questo offrendo nulla di simile a un giudizio in merito all'ammissibilità di queste pratiche: mi limito a dire che in tale condizione subentrano fattori che portano la pratica al di fuori del consumo rituale, e per rituale intendo, tra l'altro, consapevole e scelto perché ci si vuole cibare di quella persona proprio perché era viva, e non cibarsene perché la salma potrebbe divenire fonte di cibo – per quanto, anche qui, rimane innegabile la paura dell'indifferenziazione tra il cannibale e la salma, l'indifferenziazione della morte); tanto meno considerare quanto potrebbe aver fatto parte delle abitudini alimentari del sapiens sapiens, del sapiens o del neanderthal o chi per essi lungo la storia delle specie: per motivi analoghi a prima – con l'aggiunta non poco discriminante del fatto che non abbiamo accesso al loro orizzonte simbolico – tali pratiche cadono ancor più legittimamente fuori da questo discorso.
Voglio appunto interrogarmi sul cannibalismo rituale, quello in cui un essere umano intende cibarsi di un altro essere umano – o di parti del medesimo – perché una volta era un essere vivente a sé simile, dotato della stessa vita di cui questi è dotato (sì, ora anche le vostre fini orecchie girardiane hanno avvertito l'intrecciarsi della trama), e cibarsene per fini che passano già nel mondo dei significati, dei desideri, delle rappresentazioni di sé cui il cannibale è soggetto e cui è assoggetto (il nostro contrappunto Girard-Foucault).
Guardando girardianamente tra gli esempi documentati di cannibalismo rituale, notiamo che in essi viene consumato il corpo – o specifiche e simboliche sue parti – del rivale, di un cobelligerante, di chi si oppone. Cibarsi del corpo dell'avversario è praticato come tentativo di appropriarsi della sua forza, del suo coraggio, o di altri sue qualità, se non della sua medesima vita in generale.
Ma l'assimilazione delle carni non ci appare allora come l'assimilazione della pienezza ontologica del rivale mimetico? E il suo consumo rituale non emerge allora come la traccia sacrificale di questo scandalo? L'assimilazione delle carni, il sacrificio di colui che è dotato di una pienezza ontologica, testimoniata proprio dal suo opporsi con la sua vita come proprio avversario e dal minacciare l'annichilamento della propria vita. Espellere mediante la differenziazione culinaria come rituale per una nuova differenza.
E allora non sorprende leggere nei resoconti biografici di molti serial killer che praticassero il cannibalismo. Cos'è un assassino seriale se non un accumulatore seriale di vittime, delle immagini delle vittime? E per questi motivi il serial killer non è allora forse più genericamente un consumatore seriale? Nell'omicida seriale – quindi, per essenza, rituale – l'antropofagia è esattamente in linea con la sua estremizzazione del mimetismo girardiano, non un suo accidente bestiale e quindi a buon uso delle scandalizzate anime belle che studiano questi assassini per differenziarsene: cercando con l'omicidio di impossessarsi di ciò che gli manca – l'immagine (di una vita, di un corpo, di un sé in relazione agli altri) giacché, nell'universo girardiano, solo all'immagine dell'altro abbiamo accesso e solo essa possiamo imitare – e riproducendo poi con le proprie pratiche sul corpo o sul cadavere l'immagine della vita altrui, l'immagine di un soggetto da possedere possedendone il corpo, un soggetto altro, epifania di una pienezza sempre sfuggente, loro inaccessibile, e per questo tanto più scandalica, l'atto finale di cannibalismo non farebbe allora che portare all'estremo il mimetismo girardiano, il tentativo di assorbire la pienezza ontologica altrui.
Ma allora non sorprende la dissimulazione della natura essenzialmente mimetica del serial killer, sottolinearne solo una imitazione psicopatica e per questo, foucaultianamente, medicalizzata ed espulsa, e che lo si recluda sempre entro narrazioni che lo identificano ab origine, dalla sua infanzia, e magari anche oltre, nel ruolo dell'anormale (come anche nel film di Guadagnino): è un tentativo della società di allontanare da sé ciò che sa esserle connaturato: il delirio mimetico che, asintoticamente, porta proprio lì, al cannibalismo, passando per la dissimulazione, la bugia e la manipolazione, essenza queste di ogni meccanismo pubblicitario. E – forse – potremmo anche chiederci se non siano poi piuttosto affini al cannibalismo altre forme strutturali di cannibalizzazione della vita proprie del capitalismo del consumo di massa.
A questo punto è ancora più chiaro perché sia divenuto un tabù, proprio perché tradisce la consapevolezza di quanto esso sia implicato dalla logica stessa del mimetismo quale suo punto asintotico. Ma allora, perché adesso potrebbe venir sdoganato?
Forse perché, in un'epoca di accelerazione, del consumo ossessivo e di qualsiasi possibilità e funzione narrativa, dell'assenza – di più – del rifiuto violento di qualsiasi assiologia trascendente, proporre il cannibalismo tradisce l'esigenza disperata di una società che non riesce più a trovare una maniera per differenziarsi ma che sia meno transeunte di uno scatto su instagram o di un trending topic, e che cerca in questo consumo disperato del corpo dell'altro il tentativo di assorbirne la pienezza ontologica, quella pienezza che continuamente nell'altro è rincorsa in tutte le pratiche mimetiche di consumo. Assorbire infine la corporeità, la realtà dell'altro – reale in quanto si oppone – e divenire così reali.
Ma siccome sono un'inguaribile ottimista, a questo agghiacciante scenario di una ricerca disperata della pienezza ontologica, vorrei rilanciarne uno ulteriore, più biopolitico, quindi, per essenza, conservatore dei rapporti di sapere-potere: potrebbe essere il tentativo di creare una nuova forma di consumo, una nuova pratica in linea con la tendenza assolutizzante del mimetismo, che verrebbe così lanciata in un nuovo giro, differendo ulteriormente una possibile saturazione che, in quanto limite, potrebbe portare – sia mai – nella resistenza di questo scontro, all'occasione di una consapevolezza.
P.S.: E nello specifico riguardo Bones and all? Una bomba antiuomo a grappolo lanciata nell'immaginario di una generazione di ragazzi, vittime inconsapevoli di una sete di profitto che continua a gettarli in una rincorsa forsennata e senza fine di un'esclusività e una pienezza assolute ma continuamente rilanciate e sottratte alla velocità della luce, rimbalzanti ad ogni istante in cui compare una nuova immagine sull'internet, in questo proliferare vorticoso in cui, come dice il personaggio di Dahmer nell'omonima serie: «if your guy gets too close to mine, it disappears into the vortex».
E non mi si dica che il film non tratta di cannibalismo rituale, non mi si dica che i protagonisti affermano di farlo perché «è nella loro natura»: se un soggetto si percepisce come soggetto e percepisce le proprie pratiche come proprie di sé, se afferma «è la mia natura», «questo sono io», siamo già immersi nel mondo della rappresentazione, del simbolico, della conoscenza linguistica e concettuale di sé, nel mondo dei soggetti e dei loro desideri, dello scandalo dell'altro da cui si cerca romanticamente differenziazione, compreso quella di essere chi si è.
Attenzione: lungi da me affermare che questo film non vada visto o ancor meno che non dovesse essere fatto. I film, i libri, vanno realizzati e vanno letti, ché la censura è propria del fascismo – che è un metodo, prima di tutto.
Ma la società che li produce deve anche preoccuparsi di fornire gli strumenti culturali per fruirne, e non suggerirne la mitizzazione dei contenuti; o non vorrete farmi credere che gettare là un contenuto senza fornire strumenti demitizzanti sia proprio funzionale al velamento delle mitizzazioni necessarie per rilanciare i desideri verso orizzonti sempre più assolutizzanti?
Cosa mi resta di questo film? Che quando ci baciamo, dissimuliamo l'istinto cannibalico, dissimuliamo il desiderio di appropriarci dell'essenza dell'altro?
Ad ogni modo, <<Grazie, non compro niente>>, <<I would prefer not to>>.
Come ulteriore spunto, si potrebbe ricordare che il re longobardo Alboino, l'anno prima di scendere in Italia, sconfisse e uccise il re dei Gepidi Cunimondo; fece del suo cranio una coppa per bere con un principio identico a quello del cannibalismo esposto qui: per la religione tradizionale longobarda, l'atto significava assorbire la forza vitale e, nel caso di specie, la regalità del nemico vinto.