Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, scritto quando Leopardi aveva appena venticinque anni, affronta la questione spinosa del carattere proprio della nazione italiana, tema che in quegli anni, declinato nelle diverse culture, accalorava un po' tutti i grandi intellettuali europei – tanto più se appartenevano, come il nostro, a una nazione più che altro vagheggiata. Determinante per lo sviluppo di questo pensiero – e forse negativamente – l’influenza di un romanzo di Madame de Staël apparso alcuni anni prima, Corinne ou l’Italie, nel quale l’intellettuale tedesca attribuiva la scarsa coesione nazionale degli italiani alla mancanza di una società civile e intellettuale caratterizzata dall’amor proprio, inteso come prodotto della considerazione che si ha della pubblica opinione di sé. Leopardi traduce questa intuizione, mondana per così dire, sul piano antropologico, e lo fa in maniera geniale. Con una considerazione che anticipa il Nietzsche critico della morale filistea borghese, Leopardi nota amaramente che, nell’epoca di disincanto e imperio dell’arido vero in cui si trova a vivere, non si dà altro fondamento stabile della morale che non sia l’opinione degli altri. Semplice e logico: se il bene non ha motivo d’essere, tramontata l’illusione cristiana (“universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possono fondare i principi morali”), e tuttavia si continua ad agire secondo morale (per meglio dire: la società non è ancora andata interamente a rotoli), ciò è solo in virtù del prestigio che si acquisisce, bene operando, agli occhi degli altri. Questa riflessione, la cui parentela con l’interpretazione girardiana della società europea del XIX secolo ci preoccuperemo di evidenziare, si offre sotto una duplice chiave di lettura come geniale intuizione del giovane poeta e involontaria rivelazione di un romanticismo differenziale tragicamente radicato nell’infelice esistenza del poeta, che tanto contribuì, checché se ne dica, a determinare il suo radicale pessimismo. Il Discorso è forse tra i testi più rivelativi, nei suoi momenti idiosincrasici, della stretta e traviante parentela tra la sofferenza esistenziale, fisica e umana del poeta, e l’esito della sua geniale meditazione sul mondo.
Prestigio sociale come ultimo possibile alimento dell’azione morale, si diceva. Ma è soltanto all’interno della cosiddetta “società stretta” che questo prestigio individuale prende concretezza, secondo il giovane Leopardi. Che cos’è la “società stretta”? Con le parole del nostro: “un commercio più intimo degli individui fra loro”, e soprattutto di quelli che, dispensati dal lavoro manuale da una condizione socio-economica privilegiata, devono trovare qualcosa da fare nel tempo libero. Questa società di simili, parificati dalla condizione sociale e avvicinati dal desiderio di reciproco riconoscimento che li anima, danno sostanza, rapportandosi all’altro, a una forma di “amor proprio” che funge da ultimo collante sociale di una nozione ristretta ed egualitarizzata di società civile – fondato però su un canone centralizzato di “buon tuono” (bon ton), la deviazione rispetto al quale, in termini estetici, morali o di semplice etichetta, equiparati sullo stesso piano di indifferenziazione, determina la considerazione sociale del singolo individuo. È solo e unicamente sull’imitazione di questo “buon tuono”, ovvero sull’ipocrisia borghese –la simulazione di un modello centralizzato di umanità che è forse il motore segreto delle rivoluzioni – che si fonda la morale. “L’uomo è animale imitativo e d’esempio. Tale egli è sempre, anche dopo emancipato dal giogo delle credenze e del modo di pensare e di vedere altrui”: solo su questa base, per Leopardi, l’azione morale può sopravvivere alla disillusione dei lumi, alla morte degli dèi. Abolita ogni trascendenza, è la rete immanente degli sguardi e dei desideri del prossimo a tessere la rete di salvataggio – del singolo, della società, del Senso stesso.
All’interno di questo lucido quadro antropologico-sociale, che pone la crescente mediazione interna di una nascente società di massa a fondamento della morale – borghese, anche se il nostro, giustamente, non ne parla in questi termini –, Leopardi riserva una menzione speciale agli Italiani, in quanto completamente privi di un centro di elaborazione e diffusione di “buon tuono” nazionale, e quindi di una “società stretta” propriamente detta – uniforme, coerente, borghese in senso parigino. Tale mancanza determina una maggiore rilassatezza del tipo italiano nei confronti dell’opinione degli altri, e quindi, dice Leopardi, un pragmatico esser “più filosofi”, ovvero più autentici demistificatori della menzogna romantica determinata dal desiderio mimetico, però su un piano piuttosto pragmatico che teoretico. Concretamente, gli italiani rinunciano al proprio prestigio sociale più facilmente di qualsiasi altro europeo, perché meno irretiti nella menzogna totalitaria della rete di desideri mediati incaricata di sorreggere il precario equilibrio del cosmo senza dèi – la società.
Massimo “cinismo d’animo” e massima amoralità degli italiani, scarsamente assuefatti al desiderio mimetico perché privi di un centro di produzione di modelli sufficientemente magnetico. Chissà che sarebbe stato di noi e della nostra nazione, se avessimo avuto il nostro Faubourg Saint-Germain!
Quel che è dato sapere è la conseguenza di questa disposizione d’animo nel presente: gli italiani sono i più dediti al riso e alla beffa tra i popoli europei. Il riso testimonia la fondamentale percezione cinica dell’esistenza, e questo in tutti i popoli – ma la risata sputata in faccia al deriso, la beffa tipicamente italiana, la presa in giro dei presenti piuttosto che degli assenti, tutte queste cose testimoniano la scarsa considerazione che gli italiani hanno dell’amor proprio e del prestigio pubblico come indicatore del valore di una persona. Una sorta di ingenuo coraggio e consumata pratica della pubblica umiliazione, che un russo o un francese sopporterebbe solo con il balsamo del sangue. “Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, […] così in Italia la principale e la più necessaria dote è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo”.
È a questa altezza che Leopardi devia più recisamente verso la querimonia autobiografica, lamentando come, nel Bel Paese, chi non sia fornito delle armi del ludibrio e dell’offesa (leggi: “io”) sia vittima della concomitante corsa all’umiliazione pubblica che tanta parte della nostra letteratura, non solo leopardiana, testimonia – e forse anche la privata esperienza di qualche lettore, nonché di chi scrive. “Basta che uno si mostri sensibile alle punture o abitualmente o attualmente perché gli altri più si infervorino a pungerlo e annichilarlo”. Ed è in questi momenti, più copertamente autobiografici e idiosincratici, che la prospettiva privilegiata del risentito, dell’umiliato e offeso che fu Leopardi, testimonia e giustifica la maggiore lucidità con cui osserva e giudica il mondo, da sotto le suole degli oppressori.
Cento anni dopo, Svevo dirà che la malattia, ovvero la nevrosi, è dono di lucidità – e con lui Pessoa, e molti altri grandi “sfigati”–, portando a teoria quanto Leopardi aveva testimoniato in carne e gobba, da vero martire. Cento e rotti anni dopo, un altro grande intellettuale italiano, di cui diremo a breve, porterà a maturità alcune delle considerazioni avanzate da Leopardi nel Saggio, soprattutto quando quest’ultimo parla della resistenza morale della città sulla campagna – proprio in virtù della sopravvivenza di una minima “società stretta” che nelle città si realizza, e nella campagna manca totalmente. La campagna, dice Leopardi, condizionata dall’arido risveglio dei lumi – meglio: dallo sgocciolamento dell’ipocrisia borghese nel suo tessuto etico –, incapace di appigliarsi a una morale fondata, e inoltre priva di quella società che, in forza dell’interazione mimetica, garantirebbe un minimo di tenuta morale (scil., di facciata), la campagna, dice sempre Leopardi, è di costumi “assai peggiori e più sfrenati”. È un altro mondo dal teatro borghese del “buon tuono”, dalla “società stretta” che sostiene la vita morale della città con la sua ipocrisia sordida e interessata. È il terreno su cui germoglierà il sottoproletariato di cui Pasolini – ecco di chi parlavamo – canterà poi il tramonto, nel mezzogiorno splendente della società dei consumi: regioni esotiche e fantastiche, dove vigono leggi diverse e strane da quelle della buona società borghese. Detto con il Poeta (da “Sesso, consolazione della miseria”, 1955-59, poi in La religione del mio tempo, 1961):
Nei rifiuti del mondo, nasce / un nuovo mondo: nascono leggi nuove / dove non c’è più legge: nasce un nuovo / onore dove onore è il disonore… / Nascono potenze e nobiltà / feroci, nei mucchi di tuguri / nei luoghi sconfinati dove credi / che la città finisca, e dove invece / ricomincia, nemica, ricomincia / per migliaia di volte.
Quelle regioni remote, che tanto terrorizzavano Leopardi – reami di carnevale, di nuove risposte alle stesse domande disperate – sono le stesse alle quali Pasolini guarderà con malinconia, mentre la società dei consumi avanza, elevando la morale borghese a legge dell’universo, edificando un “buon tono” universale che non ha bisogno di faubourgs o salotti per proliferare, che occupa un centro di estensione infinita, che abbraccia ogni remota contrada e l’uniforma alla medesima codificazione del desiderio. Siamo già, noi, figli di quell’evo in cui la città e la sua “società stretta”, in virtù dell’accelerazione dei processi mimetici che la tecnologia della comunicazione favorisce, hanno inglobato le regioni dei reietti, assimilando il sottoproletariato alle sue leggi – abolendo la felicità spensierata del borgataro e sostituendola con il risentimento e l’invidia del piccoloborghese.
È chiaro che, parlando del desiderio mimetico applicato all’antropologia e alla storia del nostro Paese, Pasolini è un interlocutore preziosissimo. Gli dedicheremo le dovute attenzioni.
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