di Andrea G. Sciffo
La “presenza” che aleggia su tutto il libro del Manzoni, infestandone col proprio influsso le minime proposizioni, è l’assenza dei due temi basilari della storia umana: il sesso e il denaro[1]. Per un contemporaneo (per il quale oggi l’assioma andrebbe precisato: è diventato “il sesso è il denaro”) ciò risulta inconcepibile: infatti, nessuno legge più I Promessi Sposi di sua spontanea volontà, liberamente, tra i lettori adulti; restano solamente, vincolati da svariate necessità accademiche, gli studiosi nell’ambito della critica letteraria. Venticinque lettori, in effetti.
L’uso stesso che la scuola italiana fa del testo manzoniano è denigratorio: si impone ai docenti l’obbligo di farne una lettura “canonica” per gli studenti del secondo anno della scuola superiore, ovverosia per dei quindici-sedicenni nella fase dell’età evolutiva in cui un’opera letteraria del genere viene respinta dall’immaginazione e/o dall’apparato intellettivo adolescenziale. Quando si obbliga qualcuno a obbligare qualcun altro, il sistema dà un esito solo: coercitivo, penitenziario. E infatti, l’obiettivo che viene involontariamente raggiunto, è la repulsa del testo sottoforma di banalizzazione infinita. Dopo mezzo secolo di un simile trattamento istituzionale spesso inconsapevole, I Promessi Sposi appare agli studenti come un mostruoso noiosissimo macigno di anacronismi, oltretutto scritti in un linguaggio quasi incomprensibile, ora che la sintassi ha virato verso il trionfo della frase breve e il lessico s’inclina nella direzione di una ridotta tavolozza di trivialità, selezionate da tutti i gerghi italici.
Il malinteso incomincia già dal soggetto, perché il romanzo di Manzoni non tratta di un matrimonio.
L’equivoco che insiste su Renzo e Lucia, sui Bravi e don Abbondio, su Don Rodrigo e padre Cristoforo, è stato forse amplificato dalla sprovvedutezza del lettore colto che ha creduto di trovare nelle peripezie dei due ragazzi lecchesi il plot della vicenda: al contrario, se si seguono le assonanze tra le parole si scopre che “matrimonio” e “patrimonio” sono le due facce della stessa moneta, che va scartata. Non è l’oggetto del desiderio dei personaggi principali: i due giovani sono una sizigia allo stato nascente e in quel giorno fissato (hanno prenotato presso il celebrante la funzione, per la data dell’8 novembre, anno Domini 1628, appositamente) perché sono posseduti dall’entelechia di un amore che non sopporta definizioni o aggettivi. Di certo, i fidanzati Tramaglino e Mondella non desiderano quella cosa che, nell’universo chiuso del contrattualismo matrimoniale/patrimoniale degli antichi, dalle civiltà urbane mesopotamiche alle greco-romane, e dei moderni, sanciva un vincolo per un’azione nella quale la libertà degli affetti veniva sempre immolata come una vittima palpitante sull’altare del rito civile.
Qui si tratta di altro, essi vogliono altro. E Manzoni dà corpo al loro «sospiro segreto del cuore» perché la trama dei trentotto capitoli ha come soggetto uno sposalizio, non un matrimonio: una cosa che soltanto la mente di un lettore semplice o ignaro (se il sistema scolastico smettesse di renderne obbligatoria, cioè detestabile, la lettura) capisce pian piano ma con forza. Da che cosa lo intuisce? Dalla totale assenza, tra le migliaia di righe scritte della narrazione, dei due temi basilari di cui sopra: non c’è sesso e non c’è denaro, in tutta la rappresentazione narrativa di fabula e intreccio, e nemmeno l’allusione al loro mélange che è il “calcolo”… per tutto il corso del romanzo! Ovvio, poiché lo sanno anche gli ingenui che a uno sposalizio si arriva mettendo in secondo piano gli elementi elementari come la consumazione sessuale dell’unione: essendo una ierogamia, si attende il kairos ovvero il momento propizio per congiungersi, nella piena fioritura del pudore; e si censura ogni ragionamento sul denaro, dato che l’innamoramento esercita un benefico accecamento economico grazie al quale la festa nuziale è tutta intessuta di doni: gli sposi offrono gratis il banchetto agli invitati che, a loro volta, regalano copiosamente quanto occorre alla vita materiale successiva alle nozze, utilizzando allora come oggi lo strumento della “lista”. Ma se mancano dalla struttura narrativa due dei tre elementi basali della società umana, allora di che cosa parla I Promessi Sposi ?
Andiamo per esclusione. Va subito escluso che il protagonista dell’opera sia il terzo elemento elementale alla base della socializzazione umana nella dimensione storica: l’omicidio ovvero l’assassinio. L’atto di uccidere (gesto apparentemente slegato dagli elementi primari “sesso” e “soldi” ma in realtà agglomerato nell’entità che li fonde: il potere) anche nel romanzo manzoniano ha bisogno della trasmutazione del sesso in denaro, per apparire sul palcoscenico: così, se nel Capitolo I i bravi minacciano di morte il Curato con una reticenza, nel Capitolo IV diviene esteticamente legittima la raffigurazione di un omicidio preterintenzionale, dopo che l’innamoramento dei due sposi promessi è stato abbassato a desiderio di convivenza, e tale impulso è stato calcolato nei suoi aspetti concreti.
Manzoni però ha la mentalità dello storico, prima che del romanziere, e quindi non dimentica che “lavorare”, dopo la Rivoluzione Industriale, significa essenzialmente due cose: il «Travailhons sans refléchir » che conclude il Candido di Voltaire [lavoriamo, ma senza riflettere] e il rimandare l’impulso sessuale ai tempi lasciati liberi dall’orario del lavoro, quando il salario concesso dal lavoro stesso sarà la moneta con cui pagare la prestazione sessuale: qui, in questo campo in cui la prostituzione si fa universale, i romanzi del Marchese de Sade e la filosofia di Marx offrono fenomenologie al momento attuale insuperabili.
L’atto di uccidere risulta pertanto intrinseco a questa logica dell’abbassamento e della riduzione del gesto: è un atto puro, che può sembrare irrelato al sesso e al denaro e che invece conferma come ogni individuo possa “creare” il male, estraendolo da un apparente nulla, ossia fare e generare il male in quanto male assoluto: uccidendo. Manzoni non volle rappresentare direttamente l’abisso di questo orrore “umano, troppo umano”: infatti, l’unica uccisione avviene nel Capitolo IV che, com’è noto, è un’analessi, un flash-back dove l’intreccio esce dalla fabula, torna indietro di quasi quarant’anni, si allontana territorialmente dall’area geografica della narrazione e… raffigura Lodovico mentre uccide “il signor tale” poco dopo aver visto uccidere il proprio inserviente Cristoforo. Punto: dopo questa piccola carneficina di provincia, in tutto il resto del romanzo non ricorrono altri omicidi.
Perché? Perché questo è il romanzo dell’amore, di un genere di amore che spiazza chi pensa per stereotipi e gli sottrae ogni definizione, che non sia appunto una banalità: non è qui l’amore stilnovista della donna angelicata, non è la lussuria dell’arte rinascimentale, non è la pornografia illuminista o l’appiccicoso sentimentale della letteratura romantica. Quindi che cos’è? È una cosa duale: il Rebis – l’androgino, del quale le figure alchemiche del Rosarium Philosophorum e del Mutus Liber danno una prima ma eloquente illustrazione.
Ne I promessi sposi l’amore si materia di reticenza, si polarizza all’estremo opposto della feroce forza che possiede il mondo, e patisce qualunque torto pur di poter compiere quello che tutte e tutti sognerebbero per sé e per sempre, ma non hanno il pudore di ammetterlo: l’amore puro, eterno. Poiché sembra una legge dell’entropia il fatto che la maggioranza non cerchi mai l’amore attorno al pudore (che invece ne è l’involucro sofficissimo) né dentro il pudore (che è il nucleo, il nocciolo, il fulcro e la polpa dell’amabile).
Un simile amarsi che sa miscelare “eros” con “agàpe” genera nel testo di Manzoni un miscuglio sfuggente per l’occhio preconcetto dei lettori colti: diventa energia invisibile proprio quando è ancora un bocciolo pudico come quello di Gertrude col paggio. L’esempio più toccante di un amore finemente impastato di rispetto e compassione d’un genere particolare è quello occorso alla ragazzina che un giorno passerà alla storia come la Monaca di Monza. Vertiginosa analogia verosimile con la reale Marianna de Leyva (1575-1650) vissuta nella città brianzola dentro un palazzo signorile nel quartiere giacobeo-gerardiano: interno di abitazione spagnolesca, in cui la famiglia tratta la figlia «con uno sguardo distratto, o sprezzante, o severo» (Capitolo IX). Un biglietto amoroso si trasforma in capo d’imputazione: ancora un abbassamento e una riduzione di dimensioni, per cui il signor padre può punire la ragazzina, la propria figlia, per una colpa che non esiste: questa è la struttura della tragedia che rende attuale il romanzo manzoniano. Sanzionata «mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale avrebbe fatto meglio a non iscriver nulla», se si studiasse la storia senza storicismi, emergerebbe come la Monaca di Monza sia suor Ines de la Cruz, ed entrambe siano l’opposto archetipico di Kateri Tekakwitha. E si vedrebbe l’assenza totale, nella narrazione, dei Gesuiti e del loro metodo, magistrale attrezzo di doppiezza.
In Manzoni, niente è duplice: tutto è duale. Il fenomeno è dimostrato con copia di esempi nello studio minuzioso di Enzo Noè Girardi (Unità e dualità dei «Promessi sposi», in Studi di filologia e letteratura italiana in onore di Gianvito Resta, a cura di Vitilio Masiello, Roma, Salerno, [2000] (Biblioteca di Filologia e critica, 5), pp. 787-806) al quale rimando senz’altro, per toccare con mano quale sia l’entità del trionfo del due nella narrazione di un racconto che, nella sua prima redazione aveva come titolo una sorta di endiadi: Fermo e Lucia, ravvisabile anche nell’intermedio Gli sposi promessi.
«Pensino i miei 25 lettori…»: in effetti, la cifra tirata in ballo con ironia non è un multiplo di numero pari, e difatti spariglia le aspettative degli esperti e degli eruditi, perché potrebbe essere scelta in ottica numerologica oppure casuale. Non è casuale l’idiosincrasia diffusa nei riguardi della voce del Manzoni che, come “narratore onnisciente”, fa capolino sulla pagina per distribuire commenti moralistici: essa si presenta come un procedimento talmente fuori moda da dare un fastidio insopportabile al lettore colto che sbotta in un “uffa, che toni!”; un’onniscienza che permette di verificare uno degli effetti di quella che chiamo la Messa nera manzoniana: come dire, si può scoprire che nel 99,9% delle conversazioni, sia il tono a essere sbagliato. Il rito viene dissacrato perché officiato a rovescio, e la benedizione si capovolge in maledizione. Così è nella conversazione ordinaria: se alcuni tra noi hanno l’orecchio assoluto, percepiscono le stonature che avvelenano i colloqui, che banalizzano gli argomenti più preziosi: basta una piccola alterazione del timbro per causare discordie insanabili. Oggi che quasi tutti i dialoghi sono imperniati su fatuità o violenza, perfettamente impacchettate d’ipocrisia, è il tono a essere rivelatore: incastonato tra frasi e parole e accenti adulterati, il timbro segnala le violenze sotterranee, come il Manzoni previde sin dal 1827. Saperlo riconoscere è facoltà discreta, una seconda vista, un olfatto che non si affina a buon mercato.
Niente male come provvisoria valenza pratica dell’applicazione delle essenze manzoniane sulla situazione presente… L’altro vantaggio acquisibile tramite questo libro, è la virtù della prudenza. In una società iper-socializzata, l’indiscrezione diventa la legge dei rapporti e delle interazioni: le conversazioni sono impostate su malignità di fondo o su maldicenze sparse, e determinano l’atmosfera di una guerra civile larvata, temporaneamente inesplosa. L’autore de I promessi sposi lo sapeva ma ha avuto bisogno della società lombarda del Seicento spagnolo per poterlo dire: tutto il romanzo vive irrorato da una certezza che guida la voce del narratore onnisciente: la volontà di sempre perseguire il Male Minore, scartando gli estremi, ed esibendo comportamenti devoti al criterio aureo della verità “duale” (cfr. E.N. Girardi, come sopra).
Cioè. Oggi, come nel XVII secolo, l'opinione pubblica, l'intellighenzia, l’élite, il popolo e le masse seguono di necessità l'opinione del più forte: « una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto », si legge nell’Adelchi.
A questo assioma, chi sa, deve segretamente sempre obbedire in apparenza, per assecondarne le richieste: come il Ferrer, che parlava in milanese alla folla inferocita e in spagnolo diceva al cocchiere "Adelante, Pedro, con juicio" (Capitolo XIII): la mirabolante piroetta linguistica del gran cancelliere per salvare il Vicario di Provvisione dal linciaggio, il suo bilinguismo italico-spagnolo, a lingua biforcuta anticipa, è banale riferirlo, le vicende della DC dopo il 1992; tutte le volte, la corruzione della lingua anticipa la putrefazione della prassi, poiché nella modernità le scene si sovrappongono a distanza di secoli. Come se Sciascia avesse potuto descrivere il lancio di monetine a Craxi in un romanzo breve nel quale la politica viene processata “si es culpable”.
Storia e invenzione, un misto. Forte di quest’amalgama, il sistema narrativo manzoniano serve dunque come strumento allegorico per una prassi: aiuta a riconoscere i “tipi” del contesto in cui si è stati immersi, e a cautelarsi.
All'epoca la scuola non esisteva ancora, ma era in nuce il rischio venuto poi, per il docente moderno dei secoli seguenti, di essere un Don Ferrante (con Donna Prassede quale eventuale professoressa, donmilaniana a volte, severa e anaffettiva quasi sempre). Ne segue che se un “prof”, oggi, opta per il corporativismo, diventa subito un Don Ferrante. Le riviste specializzate gli spalancano le porte dell'audience e del consenso forte, conforme. Don Ferrante, come il normale professore attuale, crede nella meritocrazia al punto tale da non vederla nemmeno più: e finisce per straparlare di astrologia e auctoritates... di metodologia e decreti attuativi. Ma oggi sappiamo su base storica che il termine "merito" è sinonimo iperonimo di: elitarismo, conservatorismo, status quo, reazione, diritto di casta, blocco dell'ascensore sociale al livello del proprio piano. Dunque? Per restare nella metafora occorre ispirarsi ai due grandi luminari manzoniani, a Don Abbondio (pastore pedagogo e uomo coltissimo: leggeva ogni giorno, capiva: tant'è che si rese conto di non conoscere soltanto Carneade!) e a Fra' Cristoforo, che usa il latino per zittire i confratelli conformisti e sul finale si spende sino alla consunzione per i corsi di recupero di soggetti incorreggibili (Don Rodrigo agonizzante) trasferitosi volontariamente a prestare servizio in una sede indesiderata (il Lazzaretto) per impartire lezioni di educazione civica e sessuale su competenze trasversali (scioglie il voto di verginità di Lucia).
Don Rodrigo è perciò, in questa linea, il patrono dei figli di papà, dei viziati, dei milanesi imbruttiti - il suo ultimo dialogo con il Griso (Cap. XXVI) è la magistrale anticipazione dei rapporti servo/padrone con cui i liberi professionisti lombardi commerciano verso i loro (infidi) sottoposti, i collaboratori, le segretarie; la profezia della crisi attuale, si drammatizza come un film in costume mentre dipinge a olio le vessazioni di ogni giorno in ogni ufficio milanese. Diavolo d'un Manzoni!
L'Innominato fa eccezione: pochi uomini come lui, su suolo lombardo, negli ultimi secoli. Forse due o tre. Capitani d'industria, senza continuatori né eredi. Tuttavia, anche se la rassegna dei caratteri potrebbe continuare, dobbiamo ritornare sulla strada maestra, ricordando di passaggio che la scuola, nel Seicento, non esisteva – che gli imberbi, nel romanzo, non hanno voce: che oltre a Menico, alla figlia del Sarto, nessun bambino in 38 capitoli, nessuno scolaro né studente, solo l'infanta in braccio a nonna Agnese, all'ultima pagina.
Per ritornare alla tesi centrale: si badi che in un cantuccio della gran macchina rappresentativa installata dal Manzoni, ovvero la messa nera della società in quanto ordine costituito, è tuttavia sempre possibile celebrare uno sposalizio, contro ogni infausto augurio.
Di questa impresa anonima, a conquistare la palma della vittoria è Renzo Tramaglino, la vera animatrice è Lucia Mondella che applica in tutto e per tutto la dottrina taoista del Wu Wei (senza mai agire, compie ogni cosa) – e il vero amore è anche quello tra Marianna De Leyva e il paggio, i quali, benché separati istantaneamente dagli eventi, conservano nell’oblio del proprio trascorrere il purissimo affetto che li potrebbe condurre ai paradisi intatti degli esiti che stanno sempre dopo la fine di ogni storia, oltre la conclusione di qualunque vicenda, al di là della clausura.
Non bisogna mai dimenticare che il romanzo è stato scritto da un autore agorafobico e che quindi l’odissea del protagonista non poteva che essere un’evasione dal chiuso della città verso i campi aperti, sino a rasentare l’animismo dopo la notte oscura con l’esultanza del giovane uomo che ode la voce del fiume… che osa chiamarlo “amico”: ed è un corso d’acqua, l’Adda. Benché in Italia il Romanticismo panteista non abbia mai attecchito – perché qui gli alberi e il verde si tagliano, sono intralci - nel cuore di Manzoni, cultore di arboreti, nessuna radice, nessun pollone, nessuna pianta manca.
E veniamo alle conclusioni provvisorie. Prima: lo sposalizio perpetuo si compie tra persone semianalfabete, attorniate da una società sospettosa e diffidente, talvolta “turpe”. Però i monatti sono, nel romanzo manzoniano, il modello paradigmatico di come dovrebbe comportarsi "la gente": volontariamente, come oggi la Protezione Civile, essi accorrono là dove la sciagura o lo schifo respingerebbero la delicata complessione dell'uomo medio. Soccorrono. Caricano gli appestati sul carro maleodorante e intanto sorseggiano vino, cantando ed esercitando una "pietà" [Cap. XXXII] che tutti hanno smarrito, impanicati dal contagio. Ogni monatto fa il gesto che oggi sorregge l'esistenza delle metropoli - afferrare il sacco immondo e gettarlo sul cassone. La sua sapienza è metafisica, contrassegnata dalla lurida camicia rossa che indossa e dal suono della campanella che tiene legata alla caviglia. Se il nome deriva dal tedesco Monat, esso è anche il richiamo a non programmare, a non pianificare oltre i limiti mensili: luna piena, luna nuova.
Seconda conclusione: la messa nera è una possibilità purtroppo sempre latente nella storia, ma cancellabile, recuperabile, purificabile. Dopo che paura e viltà hanno dominato spettralmente il suo ministero, annerendone i rituali, Don Abbondio è alla fin fine l'incarnazione della vita della vita, che è indifferente alla morale solidaristica o sociale, o moderna; il prete bada unicamente a perpetuarsi e celebra i sacramenti al termine di qualunque sciagura: il suo nome accenna all’inesauribile abbondanza della natura, il suo carattere lo spinge ad avere sempre l'ultima parola, la fontana dei suoi discorsi zampilla mentre si permette di enunciare in pubblico una conclusiva morale diabolica che vede nella peste “una scopa” che ha spazzato via certi soggetti… (Capitolo XXXVIII). Dopodiché, può cedere bonariamente e celebrare la funzione sponsale, accertatosi dello scampato pericolo: va in questa maniera a comporre la figura auspicata, perché è il terzo tra i due. La sua tattica ha usato il medesimo andamento della natura, che tutto amplette: al paragone, scoloriscono i ragionamenti finali dei due “sposini” che, nel tinello di casa, oramai genitori e criptoborghesi, enunciano stereofonicamente il loro sugo della storia.
Esercitando una morale amorale, Don Abbondio è infatti il sacerdote pavido ma non indegno, la cui facoltà di legare e slegare regola il mondo in quanto insieme di elementi disparati: ha la sizigia interna, talvolta lui stesso sa ammalarsi, anche per finta, ma di sicuro non sa disperare.
Post scriptum: Manzoni, giunto al terz’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo, ci informa che alla primogenita della coppia genitoriale fu “messo nome Maria”; secondo i calcoli narratologici, correva l’anno 1630.
Nel reame della poesia, dove i significati balenano come iridescenze e lasciano a volte intravedere il senso possibile, io sono sicuro che quella creaturina potrebbe essere stata, per traslato, Carlo Maria Maggi, nato in quel medesimo anno: fuori dall’universo parallelo della letteratura, ben addentro nelle cronache della storia milanese del XVII secolo, l’infante in braccio all’ava è perfettamente coetanea al poeta meneghino che porterà la fiaccola degli stessi sensi sovrannaturali dentro la realtà del tempo per il tratto di storia successivo, sino a fine Seicento.
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[1] È degno di nota segnalare che il denaro compare nel romanzo per la prima volta nel Capitolo VIII, al crocevia narrativo della famosa “notte degli imbrogli e dei sotterfugi”: cosa che conferma la nostra ipotesi che l’intera struttura manzoniana affidi alle “notti” il ruolo di recipiente ovvero fornello per le trasmutazioni alchemiche.
La coppia di fratelli Tonio e Gervaso sono i famuli sfruttati come leva per l’iniquo progetto: dalle mani di Renzo provengono le monete che finiranno, mediante simili intermediarii, tra le dita prensili di don Abbondio. Le battute dialogiche che, al lume fioco della lanterna, essi si scambiano sono allusive a livelli di allegoria più profondi, passibili anche di timide interpretazioni cabalistiche:
- Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio a cavallo, - disse Tonio, levandosi un involtino di tasca.
- Vediamo, - replicò don Abbondio: e, preso l’involtino, si rimesse gli occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto. - Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Tecla.
- È giusto, - rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise dentro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: - va bene?
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