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Miti attuali | The Silmarillion di Tolkien e Shingeki no kyojin di Isayama



Un confronto tra Tolkien e Isayama potrebbe sembrare nulla più di una trovata per catturare l’attenzione nel contesto contemporaneo, in cui la sempre maggiore proliferazione di commenti e recensioni di prodotti culturali di successo istiga in maniera sempre più spasmodica a escogitare nuovi modi per spiccare tra la massa. Se anche si fosse subito pronti a riconoscere che effettivamente ci sono molti punti di contatto tra questi due grandi esponenti del loro genere, ci si potrebbe predisporre a leggere con nessun’altra aspettativa che scoprire quanto sia lungo l’elenco, magari verificare se è completo, secondo il gusto per l’erudizione fine a se stessa della critica contemporanea. Invece la scelta di questo confronto ha un obiettivo di altro tipo, probabilmente più pretenzioso e meno di moda: quello di argomentare che se uno scrittore occidentale e un fumettista orientale, così distanti sotto molti punti di vista, hanno elaborato narrazioni tanto efficaci così vicine sotto alcuni aspetti essenziali, è perché entrambi i loro miti hanno saputo cogliere, per usare un’espressione di Tolkien, qualcosa dell’“intima consistenza della realtà”, qualcosa che trascende i diversi orizzonti e tradizioni culturali. L’obiettivo dell’approfondimento dei punti di contatto è comprendere di cosa si tratti.

Non viene dunque avanzata l’ipotesi che ci si potrebbe aspettare a partire dalla proposta di un confronto, cioè quella di Isayama lettore di Tolkien. Sorprendentemente Shingeki no kyojin è un racconto che si presta ad essere accostato non tanto al libro più famoso dello scrittore inglese, The Lord of the Rings, ma a quello meno conosciuto, The Silmarillion, di cui è possibile che il fumettista giapponese non abbia mai letto una sola riga.

Da un confronto con il primo testo infatti non si individua nulla più che qualche scena che potrebbe essere stata una fonte d’ispirazione. Tra l’altro per quelle come le cariche a cavallo dell’Armata Ricognitiva, che indubbiamente ricordano quelle dei Rohirrim, il modello sembra essere più P. Jackson che J. R. R. Tolkien. Se invece l’accostamento avviene con The Silmarillion emergono un numero sorprendente di elementi che mostrano chiaramente come da un lato i due autori abbiano due visioni profondamente differenti, ma dall’altro esse partano entrambe da uno sguardo che riconosce le stesse strutture essenziali della realtà. L’ipotesi dunque è che l’efficacia narrativa che i due hanno saputo dimostrare sia dovuta a una comune capacità di descrivere innanzitutto qualcosa di vero, di profondamente strutturale, essenziale dell’esperienza di ogni lettore, sia pure nel linguaggio del mito, che per questo si rivela un genere universale e ancora attuale.




Eventi molto simili e radicalmente opposti


Con ciò non si vuole per forza escludere che Isayama abbia intenzionalmente instaurato un dialogo con Tolkien. La scelta dei nomi Ymir e Christa, rimandi più che mai espliciti alle tradizioni norrena e cristiana, cioè precisamente quelle dello scrittore inglese, l’idea di presentare i Giganti non come una specie originaria sulla terra, ma il frutto della manipolazione di una già esistente, che viene moltiplicata allo scopo di sfruttarne la brutalità e la facilità di controllo da parte di chi ambisce al potere, idea che non si riscontra in nessuna mitologia antica, mentre ricalca esattamente quella a proposito degli Orchi nella Terra di Mezzo di Tolkien, sono tutte operazioni evidentemente consapevoli. Resta il fatto che una serie di eventi che compongono la narrazione di Shingeki no kyojin sono al tempo stesso molto simili e radicalmente opposti ad alcuni specifici del non così famoso The Silmarillion.



In ordine cronologico il primo è un movimento di isolamento, il ritiro in un’isola, per trovare un luogo che sia un “paradiso terrestre”, dove non ci sia più guerra, messo in atto tanto dagli Eldar di Tolkien tanto dagli Eldiani di Isayama (curioso peraltro che i nomi siano simili). Questo fatto analogo però non assume un analogo significato nei due racconti. Nel secondo ciò avviene attraverso una manipolazione dei ricordi e il popolo è di fatto tenuto prigioniero anche con la forza all’interno delle mura dal re; nel primo questa versione degli eventi è praticamente ciò che racconta Melkor per provocare ostilità tra gli Elfi e i Valar, quando quest’ultimi hanno invece lasciato la possibilità di scegliere se essere condotti nel Paese Beato o meno e non impediscono in alcun modo di andarsene da esso. Enfatizza la distanza il fatto che nell’isola sotto il controllo dei re delle mura la tecnologia è ostacolata e il regno resta indietro rispetto al resto del mondo, mentre in quella sotto la guida dei Valar gli Eldar spiccheranno tra tutti gli Elfi della Terra di Mezzo per maggiori conoscenze e abilità tecniche.

In entrambi i casi il lungo isolamento viene interrotto da parte di chi vuole impossessarsi di qualcosa di estremamente prezioso posseduto da qualcuno all’interno dell’isola. Inoltre i personaggi di Fëanor, il possessore dei Silmaril, ed Eren, il possessore della Coordinata, sono entrambi caratterizzati dal trauma della perdita dei genitori. Il primo infatti è l’unico Elfo nel Paese Beato che perde la madre, nel momento della nascita, e quando il padre viene ucciso da Melkor, si scatena in lui la sete di vendetta; il secondo invece è mosso a combattere dalla brutale uccisione della madre e perde il padre per ereditare il potere del Gigante d’Attacco. In compenso c’è una profonda differenza tra gli oggetti intorno ai quali ruotano le due contese: mentre la Coordinata ha un’utilità pratica e il desiderio per essa è in vista della realizzazione di qualche progetto, i Silmaril sono desiderati per il fascino che esercitano e il guadagno nell’ottenerli è in termini di puro prestigio.

Ma a quanto pare non sono le loro caratteristiche oggettive ad essere l’elemento decisivo: è l’insorgere della rivalità con un nemico insieme alla scomparsa di qualsiasi legame genitoriale che porta infine entrambi i protagonisti ad essere i promotori di un’inversione totale del primo movimento, quello di isolamento. In entrambi i casi infatti si passa a una grande offensiva.



C’è una scena in particolare che in entrambe le narrazioni ha alcuni elementi sorprendentemente identici e al tempo stesso altri completamente opposti: in un porto (punto di contatto tra terra e mare, soglia tra l’isola e il resto del mondo) si compie un “fratricidio”, persone che dovrebbero essere dalla stessa parte finiscono per uccidersi a vicenda, ma se in Shingeki no kyojin l’azione viene presentata come necessaria per salvare il mondo da Eren e porre fine alla guerra, in The Silmarillion è al contrario esattamente questo il primo atto che dà inizio alla guerra che ha la pretesa di salvare il mondo da Melkor.


Il punto di maggior accordo e di massimo disaccordo

A conclusione di questo primo breve confronto già viene da chiedersi come si possa spiegare tante sia somiglianze che differenze racchiuse sia le une che le altre negli stessi snodi e intrecci narrativi dei due autori.

Un’ipotesi sulle somiglianze è già stata avanzata: dinamiche come il movimento di isolamento e la rottura di esso con una reazione a catena di comportamenti rivalitari sembrano descrivere con il linguaggio mitico non tanto i momenti più salienti di quella grande concatenazione di eventi riportata nei libri di Storia, ma innanzitutto ciò che compone l’esperienza più quotidiana di chiunque. Resta però da capire come si possa avere due visioni praticamente opposte di fronte agli stessi fenomeni che in entrambi i casi vengono ugualmente colti.



Collocare Tolkien e Isayama all’interno di tradizioni filosofico-religiose diverse non è di per sé sbagliato, ma potrebbe essere esaustivo – forse, forse neanche in quel caso – soltanto qualora i due sguardi fossero portati a vedere realtà semplicemente diverse. Invece attribuire significati diversi agli stessi identici fenomeni appare arbitrario finché non se ne comprende il motivo insito in essi e non in un’etichetta che si assegna all’autore.

Se ancora non è emersa la ragione per cui i due è nei momenti di maggior somiglianza che rivelano la loro distanza, finché sul finale di colpo imboccano due strade così separate da non essere più comunicanti, è perché ancora non è stata tematizzata la struttura – della realtà immaginaria del mito e quotidiana del lettore – più essenziale di tutte, quella che è alla base di tutte le dinamiche, le direziona e conferisce loro significato nella trama generale che è essa in ultima istanza a tessere. È pertanto individuabile in tutti i momenti della narrazione, ma quello in cui più è palese non può che essere il primo, quello da cui inizia tutto.

Di questi due racconti così straordinariamente coerenti e unitari (e per questo convincenti) l’evento iniziale già racchiude la chiave di lettura dei successivi passaggi fino a quello finale, non in senso deterministico, ma in quanto già emerge la struttura più essenziale di ciascuno di essi: la relazione tra soggetti. Più precisamente: la relazione non come ciò che i soggetti costituiscono tra loro, ma come ciò a partire dalla quale si costituiscono i soggetti.

A un’attenta lettura infatti si può riscontrare che tanto nella narrazione di Tolkien (di ciò ci si è occupati in una serie di articoli, a partire dal commento all’Ainulindalë) quanto in quella di Isayama non sono i personaggi che a partire da loro caratteristiche intrinseche si relazionano agli altri e raggiungono un particolare risultato finale, ma sono le relazioni in cui sono coinvolti a sviluppare la loro soggettività all’interno dello sviluppo narrativo producendo un certo finale. Senonché il punto di maggior accordo tra i due autori è anche quello di massimo disaccordo, il che spiega finalmente le continue divergenze fino all’ultima che porta a conclusioni opposte delle proprie storie.



Entrambi riconoscono nella priorità della relazione l’elemento fondamentale per sfuggire a una rappresentazione astratta dei soggetti e conferire concretezza ai propri personaggi, ma posta questa consapevolezza sul piano formale sorge il problema su quello dei contenuti: quale sarebbe questa relazione originaria che dà avvio a ogni sviluppo, del soggetto, delle sue vicende, dell’intera storia? Quale potrà mai essere una con una tale forza produttiva?

Tolkien e Isayama sondano due ipotesi che non potrebbero essere più lontane l’una dall’altra, benché a entrambe non manchino validi motivi per essere valutate.


La relazione originaria secondo Tolkien


In The Silmarillion l’evento iniziale presenta un movimento da parte di chi si offre come maestro in direzione di coloro che a partire dall’apprendimento possono crescere come soggetti, per poi avviare nuove dinamiche e trame, anche rivalità, e dare vita a un mondo e una storia. Continuamente questa dinamica viene ripetuta e in questo modo continuamente crescono nuovi soggetti, si sviluppano nuove dinamiche e trame, la storia procede. Ogni conflitto presuppone questa relazione in quanto frutto dello scandalo nei confronti di essa, esito della rivendicazione di una propria forza indipendente che può darsi solo dopo che è cresciuta, distruzione di ciò che in precedenza si è costruito.



Si capisce pertanto l’importanza del fatto che i Valar, quando offrono la possibilità di ritirarsi nel Paese Beato, non diventano sovrani né carcerieri, ma maestri: sarebbe ovviamente stato possibile in linea di principio, ma in tal caso la storia non avrebbe avuto seguito. Non ci sarebbero nemmeno stati gli Eldar per come sono caratterizzati nel racconto, i quali non si distinguono dagli altri Elfi per motivi legati al sangue, ma proprio per il fatto di essere discepoli dei Valar.

Così come si capisce perché i Silmaril, il più straordinario risultato che uno degli Eldar consegue a patire dagli insegnamenti ricevuti, non hanno alcuna utilità pratica e il conflitto per essi non ha altro significato che il perseguimento di un vuoto prestigio. Perché il fratricidio non può essere un sacrificio necessario per porre fine alla guerra, ma esattamente il primo atto a cui essa costringe.

La coerenza complessiva che risulta a partire dall’individuazione di quale sia la struttura fondamentale che sorregge l’intero impianto narrativo permette di apprezzare come lo sguardo su una serie di fenomeni non sia affatto arbitrario o dettato da una visione puramente ideologica di stampo filosofico-religioso (che poi sarebbe la stessa cosa).


La relazione originaria secondo Isayama


In Shingeki no kyojin di eventi iniziali in realtà ce ne sono più di uno, essendo che la narrazione intreccia tante storie non una successiva all’altra, ma parallele, eppure in tutti viene insistentemente sondata sempre la stessa ipotesi e i due inizi probabilmente più importanti sono proprio quelli che la vagliano con maggiore enfasi.

La storia del popolo di Ymir incomincia con un personaggio, che è gettato in un mondo violento, brutale, selvaggio, e cerca disperatamente una relazione positiva. Il movimento quindi in questo caso è da parte di chi si sente mancante come soggetto in direzione di colui che appare come una fonte che possa costituire la soggettività. E in un mondo del genere il modo più immediato per fondare un legame stabile, costitutivo, che non viene offerto, ma bisogna conquistarsi, è quello che si potrebbe definire un “debito di sangue”.



Si capisce pertanto perché Ymir, dopo aver ottenuto il potere di trasformarsi in un Gigante capace di sconfiggere qualsiasi esercito, distruggere qualsiasi popolo, resta la stessa schiava che, impotente, aveva assunto su di sé la colpa della comunità, era stata cacciata e le era stata data la caccia come un animale, perché ciò che conta è che grazie al sangue versato c’è un legame con qualcuno. Finché serve versare sangue, il legame si conserva. Nel doppio significato di “servire”, cioè “essere serva di” ed “essere utile a”, si può cogliere il senso dello sforzo di costituire la propria soggettività attraverso quella che è la massima umiliazione di sé. Ymir è la schiava di Re Fritz. Lo è quando è vittima e quando è carnefice, lo è quando gli fa da scudo con il proprio corpo e lo è persino dopo la morte: è ciò che fonda la sua esistenza ed è il suo inferno.

Anche la storia tra Eren e Mikasa inizia con un “debito di sangue”. Prima ancora del dono della sciarpa e dell’offerta di entrare a far parte della stessa famiglia, a fondamento della loro relazione c’è l’omicidio e questo fattore condizionerà, loro malgrado, il loro rapporto, così come le loro soggettività che soprattutto attraverso questo legame si svilupperanno.



Più volte nel racconto sarà detto che questi due personaggi, Eren in particolare, semplicemente sono “fatti così”, ma se una spiegazione tanto grossolana di ciò che accade può apparire convincente è solo perché coincide con un pregiudizio diffuso che porta ad accettarla in maniera acritica, non certo perché sono i fatti a indurre a sostenerla. Fin da prima che inizi lo scontro con i Giganti, Eren e Mikasa mostrano un’incredibile complementarietà nei loro comportamenti, in una sorta di “tira e molla” che non persisterebbe se non vi partecipassero entrambi, così incredibile che non è credibile che per pura coincidenza loro siano perfetti per svolgere l’esatto ruolo funzionale alla propria controparte.

In effetti non si tratta semplicemente di constatare che l’una è protettiva e l’altro costantemente lanciato verso il pericolo. La dinamica a ben guardare è più complessa e tradisce una complementarietà ben più profonda.

Mikasa si dimostra protettiva in due modi. Il primo è quello di cercare di impedire a Eren di agire, il secondo è quello di intervenire solo dopo che Eren si è messo nei guai. Tale osservazione ribalta completamente la prima impressione secondo cui l’unico suo problema sarebbe quello di essere troppo protettiva. Nient’affatto. O meglio, certamente lei è iper-protettiva con Eren, eppure al tempo stesso è proprio lei a istigarlo a gettarsi nel pericolo, frapponendosi come ostacolo che rende desiderabile ciò che proibisce e al tempo stesso restando sempre indietro nel momento dello slancio verso di esso.

Questa contraddizione non ha senso finché tale comportamento non viene compreso a partire dal “debito di sangue”, di cui Mikasa è palesemente ossessionata e che la condiziona, suo malgrado, più ancora della gratitudine per la sciarpa ricevuta e per essere stata accolta in famiglia. Lei non è protettiva perché è “fatta così” (perché è una Ackerman, perché è una femmina, o per chissà quale altro motivo), lei desidera proteggere unicamente il suo salvatore, perché è con lui che ha un debito che deve ripagare. Ma si tratta di un debito di sangue, quindi il suo salvatore dev’essere in pericolo perché lei lo ripaghi proteggendolo. Tutto ciò non toglie che lei al tempo stesso sia protettiva davvero, dal momento che al tempo stesso non desidera che il debito sia saldato, perché, come si è già detto, è fin tanto che c’è il debito che c’è il legame: se fosse saldato, niente la legherebbe più a Eren. Oltre al fatto che una componente affettiva indubbiamente c’è davvero.



Quanto a Eren, di lui bisogna specificare che non soltanto è costantemente lanciato verso il pericolo, ma anche che ogni volta è solo nell’affrontarlo. Che se Mikasa resta sempre indietro, è anche perché lui non l’aspetta mai. E ammesso pure che lui abbia uno spirito combattivo, agogna la libertà, odia i bulli, bla bla bla, in che modo tutto ciò giustificherebbe che non vuole battersi insieme a lei? È come se tutti i suoi ideali, che in fondo esprimono un desiderio di indipendenza, non siano altro che una forma di rifiuto dell’iper-protezione di Mikasa, che lo fa sentire sminuito in quanto dipendente da lei. Il “debito” pesa non solo sul debitore, ma anche sul creditore, che non vuole che sia saldato, per godere di una posizione di superiorità. E al tempo stesso trarne continuamente profitto: il comportamento di Eren denota il rifiuto, ma al tempo stesso curiosamente istiga anche Mikasa a proteggerlo dal momento che lui finisce sempre nei guai, con una costanza che a un certo punto non ha più neanche la parvenza di essere imprevedibile.

Di nuovo la contraddizione non ha senso finché non viene compresa all’interno della relazione fondata sul “debito di sangue”. In quel momento iniziale Eren è riuscito a rifulgere agli occhi di Mikasa come modello di indipendenza e libertà, pertanto anche lui al pari di lei ne è ossessionato, in un doppio senso. Nel senso che deve vedere riconfermato costantemente che Mikasa ha occhi solo per lui, quindi desidera che lei si sacrifichi servilmente per lui, il modello, e nel senso che vuole ripetere questo evento anche con gli altri per vedere davvero confermata la sua indipendenza e il suo desiderio di perseguire certi ideali, quindi al tempo stesso è vero che cerca di sfuggire all’iper-protezione di Mikasa.



Questi due personaggi dunque proprio nei momenti in cui dovrebbero essere più eroici si dimostrano complici al contrario, non a danno dei loro avversari, ma ognuno della propria controparte. Se le loro soggettività prese singolarmente appaiono incoerenti, è perché si costituiscono in una relazione tra loro, che si compone di un doppio movimento circolare, che produce un fin troppo pericolosamente coerente e stabile circolo vizioso.


Sviluppo dei soggetti e della narrazione di Shingeki no kyojin

Che il rapporto tra fratelli sviluppi spesso un elemento conflittuale è sia un topos letterario che qualcosa di facilmente riscontrabile nella realtà, di per sé non è niente di tragico. Ma se è un omicidio a fondare il legame e il contesto in cui si sviluppa è quello bellico, allora quell’elemento impatterà in maniera sempre più gravosa nella crescita dei soggetti che attraverso la relazione si costituiscono.



Durante l’addestramento e l’intervenire di molti nuovi personaggi i comportamenti di Eren e Mikasa cominciano a tradire in maniera sempre più evidente qualcosa di sospetto. Di lei spicca che eccelle in tutto e che non stringe amicizia con nessuno. Non sembra nemmeno avere una chiara reazione nei confronti di Jean quando mostra di interessarsi a lei, non lo ricambia né lo rifiuta (caso vuole che in seguito lui le salverà la vita, eppure neanche questo produrrà reazioni). Pare quasi uno di quei personaggi dei quali tanto le straordinarie abilità tanto una serie di incapacità vengono fatte derivare dal fatto che sono autistici. Con la specificità che nel mondo chiuso di Mikasa non c’è solo lei, ma anche Eren.

Lui invece guarda caso desidera legare con chiunque altro, sia pure per litigarci, soprattutto cercando un modello per apprendere come spiccare in bravura. Un modello che – non serve neanche specificarlo tanto è scontato – non dev’essere Mikasa. Più precisamente: che lui non vuole che sia Mikasa, quando palesemente è lei. Caso vuole che i due che riconosce sono Reiner e Annie, cioè proprio coloro che in seguito si riveleranno i nemici contro cui combattere.



Non è invece un caso che ogni circostanza diventa occasione per acuire quel “tira e molla”, quel sfuggirsi e inseguirsi, che inconsapevolmente è uno sfuggirsi per inseguirsi, fino a livelli estremi. La dinamica del combattere per tornare uniti non è affatto dettata dal contesto bellico, che dà solo pretesti, mentre in linea di principio potrebbe essere occasione per rimanere uniti e combattere insieme, ma dipende innanzitutto dal fatto che una relazione fondata su un “debito di sangue”, lo si è già detto, esige per tenersi viva di sempre nuovo sangue. E prima ancora l’incombere della morte perché versare sangue coincida con un salvataggio. Quella “fretta di morire” che viene giustamente notata è segno sia del desiderio di una distanza infine incolmabile sia di quello di vedere il massimo slancio di riavvicinamento.



Si susseguono una serie di scene emblematiche in cui Mikasa prima perde di vista l’obiettivo di salvare Eren, ciò che realizzerebbe il suo desiderio, perché vede l’occasione di punire il Gigante Femmina; poi è pronta a farsi uccidere da Annie perché Eren si decida a combatterla; infine si dichiara a lui in quell’unico frangente in cui ormai sembra inevitabile che moriranno entrambi. Da parte sua Eren, nel momento in cui scopre di possedere il potere del Gigante d’Attacco, si convince di essere ora davvero un soggetto indipendente e promotore di grandi ideali, mentre invece è esattamente messo nelle condizioni di prendere ancora più di prima a modello Mikasa. Anche per il suo caso non mancano scene emblematiche, perché dopo averla potuta proteggere ben due volte, il Gigante d’Attacco sembra pronto a sbarazzarsi del modello che sempre più lo scandalizza tanto più si rivela tale e gli lascia l’unica cicatrice che per tutta la storia conserverà il segno sul suo viso; nel momento in cui si riscopre impotente e Mikasa gli si dichiara, Eren si ritrova a confessare che il suo unico desiderio è restare l’eterno creditore su un grandino superiore a lei; infine lui trova un nuovo personaggio a cui legarsi, Historia, quando lei smette di essere troppo forzatamente dedita agli altri e inizia a essere più “normale”.



Finali opposti: due possibilità

Una volta esposto quale sia la struttura alla base dello sviluppo dei personaggi e della narrazione, anche il finale risulta tutt’altro che arbitrario, a seconda che prevalga un sentimento di ottimismo o di pessimismo, ma perfettamente coerente con tutto il resto del racconto. Nella misura in cui non fa che sondare fino al grado ultimo la portata di ciò che è emerso all’inizio, è proprio con l’evento in ordine cronologico più distante che è più interconnesso.

Il piano di Eren non è per nulla un’improvvisa illuminazione a fronte di una situazione che offriva scarse possibilità di una pace duratura. Il piano di nessuno lo è. Infatti l’unica vera soluzione sarà la scomparsa del potere dei Giganti, eppure nessun piano prevede di chiedere semplicemente ciò alla progenitrice Ymir, liberandola dalla sua schiavitù. Questo risultato non può essere un dono, dev’essere conquistato. Con il sangue. Ovviamente.

Nella scena in cui probabilmente Eren stesso vuole credere di avere il massimo autocontrollo, in cui insulta i suoi amici convinto di fingere per calcolo razionale, in vista del fatto che il suo piano prevede che loro lo fermino (come se fosse per questa sceneggiata che loro saranno spinti a farlo), confessa involontariamente la verità. Non che odia Mikasa perché lei non sarebbe libera. Che lei non lo sia è una menzogna e soprattutto lui sa bene che è così. In quel frangente è fin troppo palese che non c’è nessun calcolo né razionalità, che non la sta istigando a reagire contro di lui, ma la sta umiliando per annichilirla, infatti ancora una volta lei sacrifica se stessa inverando la menzogna nel momento in cui ferma Armin (quando in altre occasioni non si era fatta a problemi a mettere le mani addosso a Eren, se serviva a farlo ragionare).



Nella misura in cui l’insulto appare una vigliaccheria del tutto gratuita, tradisce il vero scandalo di Eren: che è Mikasa ad essere libera e lui schiavo di un modello che è proprio lei. Schiavo di un copione che gli pare già scritto non perché lui sia manipolato da Ymir (anche lei schiava, con cui guarda caso trova subito intesa) o costretto dalla realtà o chissà cos’altro, ma semplicemente perché è ossessionato dal desiderio di essere lui il modello, l’eterno creditore.

Ciò viene confermato nell’agghiacciante scena in cui Eren interroga Zeke a proposito di Mikasa, rivelando senza più ombra di dubbio che quella menzogna è in realtà ciò che lui avrebbe desiderato. Lui deve superare colei che non è ammissibile che sia il suo modello, la sua debitrice, allora tanto più si avvicina il momento in cui sarà lui a compiere un massacro in una sorta di esibizione di iper-protezione portata all’estremo, tanto più si accende il desiderio di accertarsi di non essere come lei: lui compie quel gesto perché è libero, lei invece è una schiava. E glielo deve dire, perché lei scelga ancora una volta di accontentarlo e si conformi.



Eppure il finale mostra in maniera inequivocabile che è Eren ad aver rinunciato a qualsiasi libertà per lasciarsi completamente determinare dal “debito di sangue”. Viene definitivamente sancita la tanto da lui agognata differenza tra lui e Mikasa, tra colui che ha svolto il ruolo di capro espiatorio e colei a cui è toccato quello dell’immolatrice, viene sancito un debito con tutti e che a tutti gli effetti non potrà mai essere saldato, ma la messa in mostra del desiderio di Ymir di trovare un modello che sappia scegliere di porre fine a un legame che per quanto produttivo costituisce una soggettività fondamentalmente ricattata da ciò su cui si regge, non può nascondere il fatto che anche l’auto-sacrificio di Eren è l’ultima e massima imitazione di tutti i gesti di Mikasa nei suoi confronti. Infatti a dispetto di tutte le previsioni e calcoli non avrà esiti migliori: offre una salvezza per breve tempo, istiga a lungo termine nuova distruzione.

Se un finale opposto viene descritto in The Silmarillion è solo perché la stessa coerenza narrativa, la stessa intenzione di sondare fino al grado ultimo la portata di ciò che è emerso nell’evento iniziale viene applicata a un contenuto altrettanto opposto. La violenza a cui si assiste nella regione del Beleriand, in particolare ad opera degli stessi Elfi per i motivi più futili e inconsistenti, è tale che proprio poco prima della fine sembra concludere la storia in una completa tragedia. Se nemmeno lo spargimento di sangue più agghiacciante, un ultimo e massimamente folle fratricidio, ha l’ultima parola, è solo perché nemmeno quello può cancellare la possibilità di riallacciare un legame che esiste perché è ciò da cui si è partiti ed è stato respinto.



L’“eucatastrofe” di cui parla Tolkien pertanto non interviene per magia come un improvviso colpo di scena privo di credibilità (ciò è stato approfondito in un articolo dedicato a Elwing ed Eärendil), in quanto si realizza attraverso un movimento di ritorno a quella stessa relazione che si dava all’inizio e che di nuovo viene riconosciuta come positiva, movimento che non è impossibile grazie a un gesto che potrebbe essere considerato “miracoloso” ma non certo “magico”: quello del perdono.

Al termine del confronto tra The Silmarillion e Shingeki no kyojin si può concludere che nel loro insieme queste due narrazioni se da un lato fanno emergere dall’antico materiale mitico la struttura essenziale del soggetto non riconosciuta dall’individualismo contemporaneo in quanto relazione con l’altro che lo costituisce, dall’altro restituiscono al linguaggio mitico due possibilità (più tutte quelle intermedie) che offrono al lettore attuale una nuova configurazione della libertà non più intesa come vuota autodeterminazione, scandalizzata da ogni dipendenza dall’altro persino nella selezione del risultato da conseguire, non solo nel suo conseguimento, ma come scelta di quale contenuto dare a quella forma a priori che è proprio la dipendenza dall’altro.

Questa relazione, infatti, in quanto trascendentale, non è un legame chimico o fisico che provoca effetti in maniera deterministica, ma la condizione delle diverse possibilità di movimento del soggetto. Così come l’opera di Isayama documenta come non sia mai scontato il lieto fine nella misura in cui il gesto del perdono può sempre essere sistematicamente escluso, quella di Tolkien testimonia come anche nel contesto più violento il meccanismo del capro espiatorio non sia mai l’unica soluzione nella misura in cui alla logica economica del “debito di sangue” si può sempre rinunciare per aderire a un rapporto che sappia trarre fuori dal proprio sottosuolo.



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