Gli elementi peculiari di un artista sono tipicamente ciò che più ama il suo seguito e ciò che è più indigesto alle persone a cui non piace. I film di Christopher Nolan sono maniacalmente studiati fin nei minimi dettagli per esibire una portentosa costruzione in tutto coerente ed estremamente criptici. Ti costringono a venderli almeno una seconda volta. Sempre meglio anche una terza. E resta sempre qualcosa che non quadra.
Non sono assenti momenti di forte impatto emotivo, ma complessivamente il più profondo apprezzamento scaturisce dallo sguardo raziocinante in grado di mettere ognuno al proprio posto i tasselli, a volte sparpagliati e privi dell’enfasi che rivelerebbe la loro importanza, di un film, che solo a quel punto concede di svelare il proprio significato. Qualcosa di simile a un cubo di Rubik.
Nolan lo si adora o non lo si sopporta per questo. Chi si è appassionato al suo stile è stuzzicato dall’idea di doversi scervellare per capire cosa comunica. Ma se non si sente quel formicolio, probabilmente sintomo di qualcosa di patologico, nessun discorso trasmetterà questa stramba malattia. Non c’è nulla da argomentare sotto questo profilo.
Invece spiegare perché il lavoro di Nolan si presta straordinariamente a un confronto con la teoria mimetica del critico letterario René Girard è possibile. I suoi film sono estremamente mimetici.
Lo sono perché i loro personaggi assumono spesso comportamenti mimetici. La mimesi è un tema esplicito, benché spesso si sottolineino solo quelli, più appariscenti, che ad esso conseguono: ossessione, rivalità, vendetta, crisi del concetto di giustizia. Proprio perché questi scaturiscono da dinamiche mimetiche, è di fondamentale importanza approfondirle per comprendere meglio tutto il resto.
Ma a ben guardare questi film sono mimetici anche perché loro stessi in qualche modo esprimono un atteggiamento mimetico (il che apre tutto uno studio su quanto essi parlino di se stessi e del concetto di film del loro regista). Non solo e non tanto perché le loro trame spesso non sono originali, ma “imitazioni” (un po’ come tendevano a fare Shakespeare e i tragici greci). Il linguaggio morbosamente criptico, a cui prima si accennava, sembrerebbe il manifesto di un estremo razionalismo e in parte lo è, ma non è solo quello. La verità è che un film di Nolan rivela in qualche modo un atteggiamento civettuolo. È come guardare una donna, della quale è palese la maniacale attenzione a cui dedica a ogni minimo particolare del proprio aspetto, il costume, il trucco, tutto, ma lei sfoggia assoluto disinteresse per chiunque l’ammiri, cercando di convincere che non sta comunicando nulla ed è solo legittimo amor proprio.
In ultimo si potrebbe persino ipotizzare un mimetismo che coinvolga il regista stesso. Nolan ha confessato di prendere spunto da situazioni famigliari per caratterizzare i suoi personaggi ed è un fatto che collabora costantemente con moglie e fratello (curiosa triangolazione). Ma non è il caso di avanzare azzardi poco utili all’approfondimento, in cui ci si vuole impegnare.
Ci occuperemo unicamente dei film per quello che mostrano, i comportamenti mimetici e le loro conseguenze, provando a delineare un percorso che li colleghi e cercando di stare attenti a quel loro atteggiamento mimetico-civettuolo, che trae sempre un po’ in inganno.
Il primo film è Following (1998) ed è forse uno dei casi in cui il tema della mimesi è più esplicito e più sfruttato in un’operazione, che è la grande ossessione di Nolan: problematizzare e decostruire il concetto di soggetto. Prima ancora dell’utilizzo del tanto ormai rinomato slittamento temporale, è la mimesi ad essere chiamata in causa per questo scopo.
Le prime scene del film raccontano di un soggetto che sostanzialmente non è, cerca di essere. Segue le persone. Perché? Lo spiega lui stesso, proprio nelle prime battute, rievocando la scena di uno stadio, di una folla, del bisogno di soffermare lo sguardo su qualcuno. È posto il problema di una crisi identitaria nell’anonimato della massa, la cui soluzione è l’identificazione dell’altro, che si separa, si differenzia da tutti. Evidentemente il motivo è che a partire da essa ci si costituisce come soggetti altrettanto separati, differenziati.
Nei termini della teoria mimetica di Girard questo protagonista è in cerca di un modello. Nel mondo antico era nota e incoraggiata l’aemulatio come modalità attraverso cui il discepolo si costituiva come soggetto compiuto grazie all’esempio di una figura, che acquisiva in questo senso il ruolo di maestro. Nel mondo contemporaneo (almeno occidentale) con il suo imperativo di essere originali si è passati a scoraggiarlo: il nuovo ideale è essere un self-made man. Il protagonista di Following cerca un modello, ma se ne vergogna. Segue le persone, ma non deve esporsi.
Si mette delle regole, ma le infrange subito. Il desiderio di un modello è troppo forte. E lo trova. Sembra tutto perfetto, che accada esattamente come si vorrebbe: non è il protagonista a costringere l’altro ad accorgersi di lui, a doverlo supplicare di concedergli un riconoscimento, ma è il modello che lo nota e lo elegge.
Le scene successive sembrano una didascalia di come funziona un rapporto mimetico. Cobb (notare che il modello è l’unico personaggio con un nome in questo film) insegna al protagonista il mestiere del raffinato rapinatore, gli insegna come essere, come costituire il proprio essere, sfoggiando la necessaria autorevolezza e cercando di trasmettere al suo discepolo un po’ di sicurezza in se stesso. Allora lui conduce il maestro a rapinare il proprio appartamento, si sottopone all’esame, vuole il riconoscimento pieno di essere meritevole della sua attenzione (e intanto lo ricopre delle sue, compra lo zerbino nuovo per compiacerlo nel fargli trovare la chiave per aprire la porta lì sotto, dove il maestro aveva previsto). Invece riceve una dura umiliazione. Ma lungi da allontanarlo da Cobb, questo non fa che aumentare il divario, che eleva ancora più in alto il maestro. Successivamente questi, ormai autorità assoluta, stabilisce quale dev’essere l’aspetto da avere e designa verso chi dirigere l’amore del protagonista, la bionda (senza nome).
A questo punto si ha l’impressione che Nolan abbia capito tutto della teoria mimetica, ma si limiti a ripetere la lezioncina. Siamo pronti ad accontentarci, perché è solo il suo primo film. Lo guardiamo magnanimi. Ed ecco che, invece, la civetta scoppia a riderci in faccia. Siamo noi che non abbiamo capito niente.
Cobb non è il maestro che ha eletto il suo discepolo, perché si costituisca come soggetto. È un meschino imbroglione in cerca di un doppio mimetico, un essere senza identità da plasmare a propria immagine e somiglianza, per poi nell’indifferenziazione tra i due sacrificarlo sull’altare della giustizia al suo posto.
Following non è la comoda e rassicurante storia di come nel mondo contemporaneo ce la si possa ancora cavare, nonostante il disagio vissuto nei confronti della mimesi. È la tragedia di come il soggetto, abbandonato in quel disagio nel suo tentativo di costituirsi, sprofondi nella più completa crisi.
A differenza di Cobb, il protagonista non si guadagna mai un nome. Il titolo stesso del film è emblematico: non “follower”, ma “following”; non c’è un vero soggetto dell’azione, ma l’azione prende il sopravvento sul soggetto. Inconsistente, viene travolto dalla trama, di cui dovrebbe essere il protagonista. Lo slittamento temporale nella narrazione, qui ancora solo accennato, esprime già la sua disintegrazione.
In effetti è un dramma che coinvolge il concetto stesso di narrazione dell’opera artistica e Nolan lo sottolinea: il suo protagonista dice di interessarsi agli altri unicamente per fini letterari, perché è uno scrittore. O meglio, vorrebbe essere uno scrittore. C’è una bella differenza, come puntualizza Cobb. Vorrebbe, ma non ci riesce: questo è il sottinteso. D’altra parte come si può scrivere la storia di un soggetto, se non c’è più un soggetto?
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