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Giochi gladiatorii | Il più grande spettacolo del meccanismo vittimario

Nell’articolo Rito e sport siamo approdati, partendo dal mondo dei miti e riti, a quello solo apparentemente lontano dello sport. Come dunque sfuggire all’attrattiva di continuare la riflessione sull’origine violenta della competizione ludica, volgendo lo sguardo proprio sul fenomeno più famoso e inquietante di tutti, i ludi gladiatorii? Non troveremo forse gli spunti migliori in questi macabri eventi immortalati dall’arte di tutti i tempi (ultimo il cinema), in cui il rituale diventa svago di massa e proprio nel momento in cui la manifestazione è uno svago diventa un’ossessione, cioè un culto?

Nell’ambito della ricostruzione storica non sussistono più molti dubbi che, proprio come le gare organizzate da Achille in onore di Patroclo, anche i munera nascano come rituali dovuti ai morti, sebbene non sia ancora così sicuro che l’origine sia campana e non etrusca. Il dato storico più antico parla dei giochi gladiatorii organizzati nel 264 a. C. da Marco e Decimo Bruto in onore al padre defunto.

Ma di nuovo, come con la corsa, dobbiamo chiederci quale sia il legame profondo con il rituale, qui soprattutto, perché aiuta a illuminare cosa poi sono diventati questi eventi. Gli storici ammettono il loro imbarazzo di fronte ad essi quando parlano della patria del diritto, gli antropologi non ne parlano. Così evitano un imbarazzo ben più grande.



D’altra parte qui il tema della rivalità che genera violenza è del tutto esplicito. Non è richiesto nessun “imprevisto” simile a quelli negli antichi racconti di corse: è il gioco stesso che richiede l’annientamento dell’altro. Sarà per questo che i munera hanno avuto un’evoluzione (o forse si dovrebbe parlare di involuzione, se si guarda al piano umano) del tutto opposta?

A un certo punto l’aspetto religioso sembra venire meno e si afferma una forma di spettacolo di grande successo, la cui finalità è esplicitamente quella del controllo della massa e del mantenimento dell’ordine. L’esigenza di organizzarne di più e di sempre più maestosi esplode. È un caso che ciò accada proprio con questi ludi? Che cosa è successo, che cosa si è visto in questi spectacula?

Girard ci parla del misconoscimento che la vittima della condanna di tutti è solo un capro espiatorio, dell’unità che genera questo misconoscimento tra la folla e di come ciò porti pace e ordine. Cosa accade nel momento in cui l’uccisione, la violenza catartica, diventa spettacolo?

Per la prima volta si diventa osservatori e non più “attori” del dramma. Non osservatori come lo può essere un antropologo ovviamente, ma proprio per questo il meccanismo funziona ancora bene. Forse si è alla giusta distanza perché si possa al tempo stesso controllare e lasciarsi trasportare: l’equilibrio perfetto garantisce lo straordinario successo che ne è la logica conseguenza.



Dicevamo che tutto è posto davanti agli occhi di tutti, che guardano. Ma che cosa è posto davanti agli occhi?

Il più grande e variegato pubblico mai radunato vuole uno scontro tra pari (tralasciamo il caso dei damnati ad gladium: la spettacolarizzazione della condanna a morte meriterebbe una riflessione a parte): abbiamo il rispetto delle differenze tra tipologie di combattenti (in realtà pare non così rigidamente distinte come ci aspetteremmo), ma poi nel combattimento deve emergere solo la pari bravura. Non c’è un giusto né un malvagio in questa lotta: di fronte alla folla che tifa secondo il proprio gusto è messa in scena la rivalità tra doppi che annulla le differenze. E alla fine il momento tanto atteso: quando uno prevale, sorge la nuova differenza. Ma a differenziarsi non è innanzitutto il vincitore (che potrà diventare oggetto della più assoluta ammirazione pur rimanendo schiavo: tipica ambiguità di tutto ciò che rientra nella sfera del sacro, cioè della violenza risolutrice), piuttosto lo sconfitto: egli è in balia della volontà del pubblico.

Si arriva così al momento massimamente rivelativo: non c’è stata nessuna “ragione” per combattere, ancor di più non ce n’è per uccidere lo sconfitto, se non per il fatto che si è distinto in qualità di sconfitto. Quanto ciò è rivelativo per il pubblico? Probabilmente molto poco. Trasportato dal combattimento ha già smesso di osservare semplicemente da parecchio tempo. L’evento smette di essere solo spettacolo perché fa davvero rivivere il contagio mimetico della sete di sangue dei momenti di reale crisi. Eppure offre l’illusione che solo spettacolo è rimasto: la folla non si sporcherà mai le mani di sangue, benché è molto più in lei, piuttosto che nel gladiatore che affonda il colpo, che ha agito il meccanismo vittimario.

Vero spettacolo è per noi ed è il triste spettacolo del meccanismo del capro espiatorio che dà sfoggio di tutto il suo potere; tanto spettacolare da farci pensare che l’unico motivo per cui Girard non ha mai neanche citato come esempio i ludi gladiatorii è che – sia concessa l’opportuna espressione propria del mondo sportivo – avrebbe giocato in casa e vinto troppo facilmente. Ma un po’ vero spettacolo è anche per gli uomini di potere di Roma, che senza essere antropologi intuiscono la straordinaria funzione – che con il divino e i defunti nulla ha a che fare – di conservare ordine e pace.



Come sempre i due elementi si intrecciano: da un lato il piacere della folla, dall’altro la volontà di chi governa di istigare questo piacere. A ben guardare i giochi smettono di essere rituali nel senso che sembrano avvicinarsi troppo all’origine di essi: balza in primo piano la funzione catartica dell’immolazione, si adombra il divino nonostante gli imperatori cerchino di assumere loro questo ruolo. D’altra parte chi governa è anch’egli parte della folla: sono numerose le attestazioni di figure di potere, in primis imperatori ad essere non meno partecipi di ciò che accade (il caso più eclatante, ma non unico, è ovviamente quello di Commodo che scende nell’arena: l’indifferenziazione raggiunge un livello tale da annullare la distanza tra il ceto più alto e quello più infimo). Non per nulla per molto tempo l’unica accusa che è stata rivolta ai ludi è quella di poter avere effetti negativi sul pubblico. Di nuovo torna l’ambiguità del sacro, violenza risolutrice ma potenzialmente devastante (per la cronaca è a questi eventi che si assiste ai primi scontri sanguinosi tra “tifoserie”).

Qualcosa quindi era già stato intuito, ma ciò non fu a scapito del realizzarsi del meccanismo, perché invece esso fu incoraggiato (col rischio di travolgere anche chi voleva controllarlo). Dobbiamo dunque dire che se Girard non ha mai scritto un trattato in stile machiavellico è per una maggiore chiarezza da lui posseduta sul funzionamento? Forse a una lettura sbrigativa delle opere è sembrato che l’antropologo sostenesse che il Cristianesimo gli ha insegnato solo questo, il suo merito è solo di essere più rivelativo. In effetti non esplicita mai molto altro. Ma nel suo fervore nella difesa delle vittime ben altro si può intravedere, forse degno di essere tematizzato.

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