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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Qui non dovrebbe essere Hollywood | Dispositivi di narrazione e perdita del reale

Aggiornamento: 18 nov



Vengo dalla recente prima visione della serie-evento sull'omicidio di Sarah Scazzi e, nonostante il dilemma morale, forse anzi proprio a sua causa, non ho potuto esentarmi dal dedicare alcune parole a questa serie.

Voglio però fare subito una precisazione: non ho intenzione né di riferirmi agli eventi realmente accaduti nel loro specifico articolarsi o alle persone coinvolte, né me ne voglio occupare, ma non per disinteresse, bensì per una forma di pietas, la stessa che semmai muove queste riflessioni; i fatti realmente accaduti sono qui presi in considerazione solo per il loro essere fatti realmente accaduti, per il loro essere quello sfondo di reale in quanto Altro, in quanto ciò che sempre si sottrae alla presa di una narrazione assolutizzante, poiché pone in maniera non ideologicamente mistificabile la presenza dell'altro e la responsabilità cui questo ci chiama tutti.

In virtù di ciò, sarà allora molto schematico, evitando quindi i tratti retorici che invece caratterizzano i contributi che normalmente offro e che voi avete la generosità di leggere.


Il contesto in cui scrivo è sempre quello di un laboratorio di approfondimento ma anche di divulgazione del paradigma di riflessione proposto da René Girard, di messa in gioco dei suoi strumenti non solo per la loro fertilità ermeneutica, ma anche quali bussola morale. Sì, riconosco che questa non possa certo presentarsi come una posizione ortodossa a uno sguardo accademico, ed è una licenza che posso prendermi per la generosa magnanimità del gruppo che mi ha accolto quale sua parte e per la vostra, che non trovate in essa motivo per non considerare la fondatezza di quanto propongo con le mie parole. Ma penso di poter affermare senza tema che il pensiero di Girard ponga in evidenza le proprie immediate implicazioni esistenziali, quindi l'urgenza di una problematizzazione etica non solo del proprio agire, ma anche del proprio sapere di sé.

Riconosco che l'adagio per cui «al martello ogni problema appare come un chiodo» abbia una indiscussa fondatezza – d'altra parte anche altrove mi sono espresso in merito al prospettivismo come condizione inaggirabile – ma, proprio alla luce di tale comune condanna, non si può che assumerla apertamente nella sua drammaticità.

Questa prolissa premessa per ricordare il contesto in cui scrivo serve forse soltanto alla mia coscienza per alleviare il peso del voler presentare l'interesse che la serie non può non suscitare agli occhi di un lettore dallo sguardo girardiano: dalla costruzione delle dinamiche che portano – nella serie, lo ripeto: nella serie; non voglio né insinuare né riflettere su quanto accaduto realmente – all'omicidio di Sarah, alla presentazione dell'astuzia di Sabrina nel gestire le prime settimane successive alla scomparsa della quindicenne. Dall'intreccio abbozzato ma illuminante sulle dinamiche proprie dei media innanzitutto nel loro ruolo nella vita dei protagonisti – in particolare di Sabrina – come anche però nella vita della società che si agglutina attorno agli eventi mediatici, pronta a brandizzare luoghi e usanze alla ricerca romantica di quella differenza locale nei dispositivi di intrattenimento al consumo, e per finire un cenno sul ruolo (sempre quale acceleratore mimetico) che i media hanno nella vita dei loro stessi addetti ai lavori (eccezionale la parte della giornalista Daniela). Dalla dinamica tra i coniugi Misseri a quella tra le sorelle Serrano, e infine il costituirsi dello sguardo della folla come cerchio che vuole tracciare una differenza oltre la quale scagliare i propri fantasmi: sono innumerevoli e significative le possibilità di illustrare le dinamiche mimetiche del desiderio, il ruolo distorsivo che questo esercita nei confronti delle relazioni, conducendole lungo il sentiero della mediazione interna, portando alla produzione di un doppio allucinatorio del reale.

Dalla regia e dalla scrittura della serie emerge anche con chiarezza la dinamica propria dell'iperrealtà e il suo intrecciarsi con le dinamiche mimetiche del desiderio: ribaltando i ruoli reciproci del mondo delle immagini con il mondo del reale e portando quindi quest'ultimo ad essere vissuto quale simulacro del primo, l'iperrealtà scioglie, assieme alla loro distinzione, anche la soglia che separa il bene dal male. Una realtà svuotata della portata ontologica propria di ciò che è legittimamente altro da sé e dal proprio orizzonte del desiderio, non viene infatti più rilevata come qualcosa che chiami ad assumere il collocarsi in maniera orientata rispetto ad essa, cioè relazionale e temporale, ma viene vissuta solo come supporto dell'immaginario, dispersa nei diversi estemporanei momenti di fruizione. Quando questa fruizione rincorre in maniera frustrata e ricorsiva tale immaginario, si apre quella china che può condurre al tentativo di realizzare tutto in una volta tale fantasmagorica pienezza ontologica: un'escalation che coincide con la tentata negazione stessa della realtà, con l'atto mediante il quale si tenta la sua soppressione. Si tenta, perché il corpo resta quale sua traccia.




Una nota merita anche l'agghiacciante primo interrogatorio del personaggio di Michele Misseri: con questo episodio si aggiunge ai numerosi elementi di riflessione l'effetto angosciante delle strategie con cui il sapere-potere trasforma in una possibile presa nei confronti del soggetto ogni punto attorno cui questo si agglutina, per portarlo mediante tali prese a produrre la verità che consente al sapere-potere di mettersi in moto. Viene infatti mostrato che, per ottenere questo, il sapere-potere utilizza l'imitazione – dello stato d'animo dell'inquisito, delle sue credenze, delle sue inclinazioni – come offerta di un riconoscimento nella quale il soggetto inquisito possa sciogliere la propria tensione e liberarsi del peso che grava sulla sua coscienza; ed è di notevole rilievo come la costruzione mimetica dell'interrogatorio abbia tra gli elementi della sua strategia anche quello di presentare tale peso come l'elemento a causa del quale – sottolineo: per come viene fatto percepire al soggetto mediante l'interrogatorio – questi si auto-condanni alla solitudine di una auto-espulsione costruita nel proprio silenzio e dal proprio silenzio, e di come a ciò sia di soluzione – paradossalmente – diventare il colpevole riconosciuto su cui converge lo sguardo-riconoscimento della folla. Sarebbe davvero interessante illustrare tutto questo – e magari si potrebbe e si potrà anche fare – ma ora no: ora urge un'altra parola.

Sì, perché il punto dirimente è che questa serie (non è la prima, né sarà l'ultima, ma di questa ora si tratta) ha come fondo di riferimento dei fatti reali, pertanto essa non può non proiettare su di essi un'ombra ermeneutica, che diviene anche ombra morale, proprio in quanto il reale di fondo resta la presenza inalienabile rispetto alla quale siamo chiamati sempre a prendere posizione e sempre prendiamo posizione anche nostro malgrado, anche qualora scegliessimo di raccontarci di non prenderla, in quanto l'ignavia è anch'essa una posizione. Avere una posizione coincide con l'esistere stesso.

Attenzione, però: non sto qui affermando che di certe cose non si debba parlare, soprattutto se sono tragiche. Di tragedia parlano le opere dalla notte dei tempi, a partire dall'Iliade, ed è opportuno che sia così: anche questo è testimonianza. Il punto è quando questa operazione si avvolge di alcune ombre, e solo a queste mi voglio riferire con questa domanda: ciò che viene mostrato arriva a sciogliere a tratti il confine netto che separa il bene dal male?




Un omicidio è male. Sempre. Non possono esserci dubbi su ciò. Non sto dicendo che non esistano motivazioni o situazioni in cui si possa allentare il biasimo. Non so se biasimerei qualcuno che commettesse un omicidio solo per la difesa della propria prole o del proprio partner. Ma – sebbene sappia che questa affermazione possa anche risultare dura – ciò non potrebbe risparmiare il giudizio e la condanna. Non da parte della giustizia. Da parte del senso morale. Si potrebbe ragionare a lungo a questo riguardo, ma non credo sia qui necessario. Ci preoccupiamo, come girardiani, del portato scandaloso del desiderio e dei rischi di escalation: pensare allora di dover qui argomentare minuziosamente la nettezza morale attorno al tema dell'omicidio risulta quanto meno grottesco.

A fronte di questo, le modalità con cui vengono presentate nella serie le due prime (in termini di gravità) responsabili dell'omicidio indugiano in maniera assai problematica su quegli aspetti della loro sfera emozionale e biografica, della loro percezione di sé, che costruiscono un nesso di correlazioni al quale manca infine solo il passo compiuto dall'interpretante per trasformarlo in una relazione causale. Le modalità di presentazione, insistendo a volte sul carattere drammatico di alcune dinamiche personali – grazie anche alle ottime interpretazioni di un cast davvero coinvolgente – e consegnandole nella loro solitudine alla solitudine dello spettatore, passano in maniera davvero tangente a quanto può diventare una condizione di empatia (non con l'azione compiuta, sia assolutamente chiaro, ma con il dolore provato per l'inadeguatezza del proprio corpo, per le difficoltà a trovare una corrispondenza sentimentale o per l'incipiente senescenza e i fantasmi di un passato sorridente che si perdono giorno per giorno nell'abbacinante sole sui muretti riarsi o sulla terra secca).




Il problema, però, è il rischio che, nel momento in cui si stabilisce una catena che porta in maniera causale da un dolore personale a un gesto violento, la libertà morale (non dalla morale, ma di giudizio e di condotta morale) nei confronti delle proprie azioni e nei confronti della vita altrui venga velata dallo spettro di un determinismo che sopraggiunge a privare il campo esistenziale di tale libertà; il rischio che si corre nel momento in cui si chiama in causa l'ombra di una possibile empatia con le sofferenze, è appunto innanzitutto che si sciolga la distinzione tra bene e male.

Questo vuol dire che non si possa o non si debba riconoscere anche nell'omicida i tratti dell'umanità? No, certo. È anzi forse anche questo un dovere, e tale anche a uno sguardo girardiano, giacché forte è il rischio che l'evento tragico diventi mito con cui immunizzarsi dalla prossimità che ci accomuna, per proteggerci dall'esiguità delle soglie che tracciamo tra noi e il colpevole, rivendicando che mai avremmo potuto. Certo: mai avremmo potuto, perché netta è la distinzione tra ciò che è bene e ciò che – come un omicidio – è male, ma siamo tutti esseri umani. Non è un'attenuante, né una giustificazione, ma è il monito a ricordarsi che siamo sempre tragicamente tutti chiamati a scegliere.

Il punto, allora, per congedarci dopo queste cupe riflessioni, è che bisogna parlarne, che devono essere ristabiliti tanto il problema morale quanto la distinzione tra il reale e l'immaginario, al di là dei problemi suscitati dalla fruizione estetica di una serie, al di là dei discutibili dibattiti sui nomi dei luoghi, sull'opportunità di un prodotto che finisce per spettacolarizzare una tragedia o al contrario sulle apologie basate sulla pietà (in senso di pietas) che suscita il personaggio di Sarah. Al di là di tutto questo e delle eventuali domande riguardo al perché una serie presenti quell'ombra che fluidifica la soglia del giudizio morale, è opportuno alla fine chiedersi: noi, chi siamo? Lo sappiamo ancora cos'è il bene e cosa il male e cosa è il reale?

Questa volta non mi congederò con la mia abituale forma di commiato: non ne ho cuore.





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