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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Giustizialismo, Superlega, Iperrealtà | Dispositivi sportivi di governo

Aggiornamento: 5 nov 2023



L'ottimo articolo di Andrea Antonioli per la rivista Contrasti ha convinto il vostro Bartleby a dedicare poche righe a una vicenda che mi risulta tenga banco in maniera sorprendentemente quasi totale le tribune sportive dei vari media, e la sorpresa sta nel fatto che lo tenga più degli eventi sportivi stessi. Qualcuno su twitter sostiene che sia perché questa vicenda ottenga più ascolti, poiché interessa una squadra che ha più tifosi delle altre, anche perché sarebbero distribuiti su tutta la penisola. Ma le ottime riflessioni di Andrea Antonioli, non scevre da una eco di famiglia girardiana e a tratti schmittiana, portano ragionevolmente a pensare che la motivazione della quantità di spazio dedicato e dei maggiori ascolti che comporta dipendano da un bel tellurico risentimento, e, in questo, le parole dell'autore lasciano poco spazio per altre interpretazioni: la mancata assunzione di un odio in quanto tale e la necessità di imbellettarlo di rigore morale, legalismo e bene comune, un risentimento che si incarna in quel vittimismo che, secondo la lezione di Girard, non è che la volontà – da parte di chi si avverte come condannato ad essere succube di un modello – di brandire con altrettanta violenza la posizione della vittima, in quanto diviene privilegiata (perché, nel processo vittimario, la vittima frutto della violenza polarizzata viene poi divinizzata dalla comunità di carnefici in quanto portatrice dell’agognata pace), per contro-lanciare la folla verso lo sparagmos del modello, rovesciando così la polarità del desiderio-violenza e diventando, proprio in quanto vittima divinizzata, il modello del desiderio della folla. Ci risparmiamo qui di enunciare altri e più generalizzati esempi non sportivi e recenti di questa politica del risentimento.


Ma il vostro Bartleby non vuole nascondersi dietro un dito sulla tastiera e, oltre a rendere chiaro come non abbia alcuna competenza di diritto, né sportivo, né finanziario, né niente (nemmeno i piedi diritti aveva quando giocava a calcio al campetto), ci tiene a confessarvi subito che nasce gobbo, e, quando dice «nasce», intende proprio che, tra gli altri aneddoti e ricordi famigliari, gli veniva recitata la formazione della Vecchia Signora quando era in passeggino e quando la formazione annoverava gente come Scirea, così che tale identità calcistica si radica in un ambito dove tutte le considerazioni politiche-finanziarie – ma soprattutto genealogiche – possono attenuare, ma non eradicare l'aura mitologica che circondano alcune immagini e sensazioni (una su tutte, il primo gol di Del Piero in Coppa Campioni contro il Dortmund, visto in diretta televisiva). Questa confessione era d'obbligo, così che, chi vuole, si senta libero di congedarsi ora con immutata amicizia. Per chi vorrà continuare la lettura, sappia che non troverà alcun panegirico, tanto meno una qualche difesa. Anzi: vorrei inserire alcune peregrine riflessioni nel lucido quadro sacrificale offerto dall'articolo di Andrea Antonioli, in particolare prendendo una deriva tangente la citata sovrapposizione delle questioni sportive a quelle giudiziarie e, soprattutto, finanziarie.


Al di là di quelli che potranno essere gli illeciti finanziari, di cui non mi interessa nulla – nel senso che se ne accerterà chi di competenza – la sensazione condivisibile è sì quella messa in luce dall'articolo – che tra tifoserie si stia sì brandendo il giustizialismo extrasportivo per aver ragione di questioni nate in ambito sportivo – ma non solo questo: ché le cose, girardianamente, occorre guardarle da ambo i lati. Difficile infatti non rilevare una forma di vittimismo anche dall'altro lato, ed è qui che sovvengono le peregrine riflessioni.


Queste riguardano la questione della Superlega, perché una narrazione che della vicenda è subito emersa sui social e da ambo i lati delle barricate dei fan, intrecciava in vario modo proprio la questione della Superlega, in maniera vittimistica o in maniera sbeffeggiante e accusatoria.


Ad oggi la Superlega è un progetto a bordo del quale si presentarono le più importanti e/o blasonate società calcistiche d'Europa, ma che, al primo abbaiare della sicurezza, ci ha offerto una scena che manco i topi su una nave in un naufragio. Ma, attenzione: la perplessità suscitata da questo spettacolo antropologico, non è associata qui ad alcun entusiasmo per tale progetto, anzi. Che l'idea di un tale progetto sia, però, nella logica di ciò che è diventato il dispositivo (1) dello spettacolo calcistico, credo sia incontestabile, almeno da quando si è lasciato che la finanza e la libera circolazione dei capitali diventassero il nuovo logos del calcio professionista (come dell'economia tutta), che ha fatto i successi leggendari di alcuni club europei, e che ora possiede le squadre più importanti.




Quale sia la dinamica, la logica di ogni finanziarizzazione, a maggior ragione se internazionale, credo che nell'Anno Domini 2023 sia chiaro anche senza scomodare signori di due secoli fa e dalla barba importante.


Il dispositivo finanziario inaugura un episteme che ha nella deterritorializzazione (2) continua la dinamica della sua affermazione e totalizzazione dell'esistente, al punto che la deterritorializzazione diviene dispositivo di governo dei corpi e delle anime, l'asse di affermazione di un regime di sapere-potere; la deterritorializzazione diviene la nuova istituzione, il Grande Fratello prescrittivo-pedagogico, neutralizzatore di coscienza, che prescrive appunto, come ogni potere totalitario, forme uniche di relazione. Quella che potremmo riconoscere come l'analisi deleuziana viene cioè rovesciata nella prescrizione di una deterritorializzaizone come forma di potere, che diviene relazione molare e totalitaria, pronta a sanzionare qualsiasi altra forma di relazione. Con buona pace di tutte le ribellioni, le contestazioni, le sensibilizzazioni contemporanee, incredibilmente consonanti con quanto prescrivono i megafoni culturali allineati a quelli governamentali.


Vista attraverso lo sguardo filosofico, la questione della Superlega è un altro ambito in cui si manifesta tale deterritorializzazione come abbandono di qualsiasi radicamento culturale-territoriale dell'evento sportivo: la Superlega appare infatti per il soggetto come l'abbandono di qualsiasi radicamento territoriale e una fuga in avanti verso un spazio iperreale dove le squadre esisterebbero solo come brand internazionali, cioè come immagini iperreali e non come soggetti in una relazione territoriale concreta, in un processo di virtualizzazione e apolidismo internazionale analogo a quello dell'economia che diviene finanza internazionale; questa, d'altra parte, è ormai la realtà economica che ride unita del popolo dei tifosi (come delle popolazioni in generale) alle spalle dello schermo spettacolare costituito dalle squadre di calcio di loro proprietà (come alle spalle delle divisioni politiche strumentali, condotte lungo narrazioni tenute in piedi solo per la loro capacità divisiva).


Ma se a un orecchio girardiano non può sfuggire come quella distorsione pedagogico-prescrittiva dei concetti deleuziani riecheggi lo scandalo per il potere che si vorrebbe detenere e agire contro chi lo esercita (ma essendone foucaultianamente agito), questa fuga in avanti di cui stiamo qui trattando sembra potersi ricondurre quale caso particolare di questa generale dinamica del desiderio mimetico e del risentimento a esso associato, e avere quindi non solo la ragione economica quale motore sotto di sé, giacché, se è vero che il Capitale come dispositivo segue logiche sue proprie – ma sempre di rapporti di forza parliamo, anche in senso foucaultiano –, l'astuzia della Storia, che altro non è che la logica dei dispositivi, passa attraverso le passioni e le emozioni umane, troppo umane – e la forma che esse assumono in base ai dispositivi – ed è qui che interviene il nostro René a indicarci quali. Perché tanto questa fuga in avanti quanto la resistenza a essa, non riescono a non evocare lo spettro della mediazione: se da un lato la fuga da qualsiasi radicamento territoriale verso lo spazio iperreale sembra il tentativo di fuga romantica dallo scandalo del mimetismo tra rivali territorialmente prossimi, la resistenza a essa si è presentata come il tentativo risentito di trattenere il mediatore-rivale nella prossimità di una relazione mimetica dalla quale mutuare il proprio valore e la propria identità, magari cercando di rovesciare i rapporti di forza.


Sul primo fronte avremmo quindi la ricerca romantica e scandalizzata di una differenza ulteriore, che sancisca la propria superiorità quale modello del desiderio nei confronti di un territorio e dei club che ancora con esso presentano maggior legame, se non una vera e propria escatologia delle genti, messianesimo di popolo – magari più sognati che effettivi, giacché anch'essi intramati in relazioni economiche e mediatiche anche internazionali, e risparmiamo qui i nomi per carità di patria tutta; la rivendicazione del proprio ruolo di modello verso chi si vuole portare a essere il proprio discepolo da cui mutuare, però, quella distanza che faccia di sé un modello destinato alla smaterializzazione iperreale, una distanza che quindi lo collocherebbe al riparo da qualsiasi possibile nuova crisi di indifferenziazione con discepoli non pronti per l'iperrealtà. Ma, lasciando indiscussa la ragione economica di questa fuga in avanti verso lo spazio iperreale, tutto questo non può non suggerire ulteriormente alle nostre orecchie girardiane la possibilità che le ragioni di chi azzarda un tale tentativo di fuga non siano anche – come da discorso-confessione finale – nel proprio scandalo per un altro modello che sembra ormai irraggiungibile, al punto da portare a invocare l'autorità di supposte giustizie internazionali per regolare le disparità tra sé ed esso – senza ovviamente mai rilevare il sostrato giuridico-politico-economico che ormai da decenni ha provocato questi squilibri ma di cui, evidentemente, fino a poco fa si era beneficiato, magari in altri ambiti, e che vengono qui taciuti per carità continentale.




Sul secondo fronte avremmo invece il tentativo di trattenere questa fuga indossando l'innocenza di maniera, scandalizzati probabilmente dal fatto che qualcun altro abbia pensato per primo a radicalizzare cioè le dinamiche su cui per primi si era fino a ora costruito il proprio prestigio e la propria forza, saccheggiando un po' ovunque i territori di persone e risorse da accentrare in poche superpotenze, non consentendo così mai che questi territori si sviluppassero fino in fondo.


Come detto più sopra, nella vicenda di giustizialismo sportivo da cui siamo partiti la questione della Superlega si è subito intrecciata alla narrazione che ne è emersa sui social e da ambo i lati delle barricate dei fan. Nella disputa tra le due parti, disputa che sembra fare un po' comodo a entrambe, chi sembra però trarne maggior forza è, di nuovo, l'episteme del virtuale, l'iperrealtà.


L'episteme del virtuale fa dell'evento culturale territoriale uno spettacolo simulato, che deve trattenere i tifosi e conferire al brand-club una parvenza di un radicamento territoriale da portare come legittimazione di quella fuga; quindi, di fatto, l'evento iperreale in cui si risolve il calcio strumentalizza da un lato il radicamento territoriale e passionale, dall'altro la sempre più diffusa condizione del tifoso esule, legato a un brand-club che non appartiene al territorio in cui si trova a vivere (come, del resto, nel mio caso, in cui, ad esempio, è tutto da sempre legato all'immagine, a nessun evento territoriale se non le baruffe con i miei compagni alle elementari, quando essere gobbo in una città esaltata da gente come Bergomi o Baresi, come Van Basten o Klinsmann, come Gullit o Matthäus era proprio da sfigati, non certo da vincitori), e che non ha più nemmeno quella giustificazione che poteva avere presso le popolazioni migrate che finivano a tifare la Juve proprio perché non erano territorialmente rappresentate e integrate, ma nemmeno la giustificazione che aveva una volta tifare Milan o Inter in quanto appartenente al ceto dei lavoratori proletari per quanto riguarda il tifo del primo, o in quanto appartenente al ceto della buona borghesia per il tifo della seconda.

Nell'iperrealtà, il tifo corrisponde all'adesione all'immagine di un brand.




Considerando i tratti sopra discussi della Superlega come fuga iperreale dell'evento sportivo (in tutte le sue componenti, non solo nell'immagine brandizzata dei club ma anche in quella dell'immaginario di appartenenza del tifoso, entrambi apolidi e transnazionali), questa disputa social-mediatica attorno alle questioni della giustizia sportiva e della Superlega potrebbe benissimo rientrare nella serie degli episodi di fan-baiting; la particolare sfumatura nella quale viene qui brandito in salsa sportiva risulta funzionale a mantenere un qualche radicamento dell'immaginario dei tifosi negli incontri territoriali concreti delle popolazioni italiche, in quanto ammicca a remote rivalità più o meno locali, nate nella concreta fisicità del tifo, degli stadi, delle trasferte, e via dicendo, e nascondere – ma anche dare fondamento – a quella transizione totalmente iperreale dell'evento sportivo, che vivrà ormai solo in immagini televisive e commerciali nei progetti di superleghe e di squadre-brand iperreali. Se questa cosa trova in fondo il plauso e l'ambizione dei tifosi tutti, è perché, in fondo, la vita di tutti è intrecciata in quotidiane pratiche di virtualizzazione, di micro-deterritorializzazioni, micro-eradicamenti dal proprio territorio. È l'episteme in cui siamo immersi.

Per questo: «no, grazie: non compro più niente», «I would prefer not to», e mi tengo il ricordo di un calcio come poesia delle traiettorie.




***

(1) l'uso di questo termine ha in questi testi sempre la valenza conferitagli dagli studi di Michel Foucault, per il quale si rinvia, ad esempio, a M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione(1975), ma anche a questo articolo sul nostro blog, precedentemente citato nel testo.

(2) per il termine deterritorializzazione (e il suo antonimo territorializzazione) si rimanda ovviamente all'opera di Gilles Deleuze. Per darne un agile significato (che non suggerirei mai di portare a un esame per non incorrere nelle pedantesche ire), potremmo dire che, se Deleuze può immaginare ogni forma (di sapere, di potere, di identità) come un territorio organizzato, con i suoi profili, i suoi punti nevralgici, le sue soglie e la gestione di queste, la deterritorializzazione è quel movimento che, dall'interno, porta questo equilibrio a rompersi e, così, a far venir meno la forma che tale territorio aveva assunto; la (ri)territorializzazione è, quindi, il movimento opposto, la formazione di un equilibrio come forma. Non è data teoreticamente precedenza dell'una sull'altra, esse sono in circolarità, anche dal punto di vista morale. Se può sembrare che l'ampio spazio dedicato da Deleuze alla deterritorializazione sia indice di una maggiore eticità o preminenza teoretica di questa, di una sua univoca prescrizione di questa dinamica, tale impressione dice più di chi la prova, e dimentica di collocare il pensiero di quell'autore nell'intreccio storico di pratiche in cui era preso.

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