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Immagine del redattoreGruppo Studi Girard

Per una decifrazione di The Witch | Proposta di lettura, tra Girard e Foucault (parte 2)

Aggiornamento: 5 nov 2023



La scena la cui analisi ha chiuso la prima parte di questo articolo, ci ha lasciato sulla soglia di un episodio al cui interno troviamo uno degli elementi più interessanti per questa scritto, che mantiene al centro delle proprie riflessioni e dei propri contenuti le analisi Foucault.


Padre e figlio si dirigono verso il bosco, il padre davanti, il figlio a ruota, col fucile in spalla; si inoltrano entro l'indistinto interdetto, in cerca di una soluzione che l'orgoglio preclude a William, spingendolo a scendere nel sottosuolo. E dopo aver visto i due allontanarsi da casa, una brevissima scena ci mostra Thomasin spiare la madre, in lacrime sul letto appartato solo da un tendaggio, sovrastata dai belati dei bambini, che, imitando i versi delle capre, sembrano canzonare le lamentele di un gregge, che non ha però la forza di mettere davanti alle proprie inadempienze il cattivo pastore; e, subito dopo, vediamo Thomasin, caricato sul capo un recipiente per portare l'acqua, inciampare (1), ed è immediata la suggestione del suo scandalo davanti a questa giullaresca rivelazione dei gemellini Marcy e Jonas, funzione didascalizzante assunta dalle parole e dai gesti dei fratelli, che fa in questa scena la prima apparizione, ma andrà evidenziandosi nel proseguimento del film.


Tornati a scrutare la tetra e fredda omogeneità boschiva, vediamo padre e figlio inoltrarsi nella vegetazione, per controllare se le trappole per animali, piazzate all'insaputa della famiglia, siano state efficaci; mentre avanzano in fila, William interroga e istruisce Caleb su dogmi e precetti. La scena è altamente simbolica: Caleb, diligente soldatino della fede, gli occhi alti verso il modello di cui cerca l'approvazione, procede marciando fucile in spalla e ripetendo al padre le lezioni mandate a memoria. Sembra di sfogliare l'apparato iconografico di Sorvegliare e punire, recante le riproduzioni delle incisioni che illustravano l'organizzazione e la disciplina militare dell'esercito francese della seconda metà del 1600. Il corpo di Caleb, nei gesti, nei micromovimenti del capo, nelle cadenze del discorso e del passo, nella pedissequa ripetizione di frasi che non possono che suonare come formulari nella bocca di un ragazzino, è attraversato dall'organizzazione che in lui e di lui operano dei dispositivi (2) normalizzanti, che fanno delle sue singolarità il proprio obiettivo; attraverso tali dispositivi – pratiche discorsive e pratiche di relazione, rapporti di potere e relazioni di sapere (3) – ne sono state pazientemente ed efficacemente disciplinate e modellate le forze, e conferitagli una forma di soggettualità. Dopo aver proferito correttamente le parole volute dal padre e ricevuto il complimento di ricompensa, all'invito di questi al silenzio, Caleb abbassa lo sguardo con mestizia: nel sostenere questo esame (4), Caleb articola per sé quella forma di soggettualità che tali pratiche gli hanno consegnato; ma, come vediamo subito dopo, esse non sembrano aver potuto del tutto addomesticarne la sensibilità né smorzarne l'intelligenza, che anzi qui sembrano percorrere in lungo e in largo il diagramma dell'intreccio sapere-potere che lo ha informato, cogliendone le direzioni e accelerandone il movimento, attualizzandone con la fantasia e le emozioni lo stato degli oggetti e dei soggetti che esso prescrive, prima ancora che tale stato si presenti come dato emergente dall'attualità condivisa: mentre risistemano le trappole, trovate scattate a vuoto per della selvaggina che è stata evidentemente più lesta a sottrarsi alla presa, Caleb comincia a porre a William alcune domande, che dapprima chiedono conferma delle conseguenze configurate dalla dottrina appresa per il fratellino morto senza essere battezzato, poi incalzano il padre, chiedendo direzione affinché lui possa trovare come interpretare e sistemare gli eventi e le emozioni da cui è attraversato.


Le pratiche di potere e di sapere chiedono la propria complicità (5) nel loro porsi e imporsi, nel loro informare e conformare il mondo, così come nel nostro assoggettarci a esse e farci loro ripetitori e propugnatori verso ogni frammento che mostri accenno di resistenza. Così Caleb si trova preso tra le energie delle forze vitali e le dinamiche che esse assumono nei suoi rapporti mimetici, e preso tra le forme del sapere dalle quali è costituito, che chiedono la sua complicità nell'esercitarsi su di lui, la sua partecipazione nel completare i discorsi e le pratiche che lo informano, la sua complicità nel darsi perfino le angoscianti risposte che teme e che sembra piuttosto chiedere al padre di tenere lontano da sé, anziché richiederle come funzione sistematizzante, perché quelle risposte che le pratiche richiedono a Caleb di dare a se stesso, ingiungono infatti che egli si assuma anche la parte di giudice e aguzzino di sé.


Ma quanto vediamo in questo scambio è anche e soprattutto la comparsa di un altro aspetto analizzato da Michel Foucault nel corso al College de France del 1975, e raccolto nel volume Gli anormali (6), che sarà di grande utilità nell'analizzare non solo questa scena, ma anche le successive e diverse sorti di Caleb e Thomasin.


Nella lezione del 26 febbraio 1975 Foucault introduce la distinzione tra stregoneria e possessione. Innanzitutto i due fenomeni, per quanto in parte cronologicamente sovrapposti, presenti comunque reciprocamente e parzialmente come aspetti dell'uno e dell'altro fenomeno, nella loro formalizzazione e identificazione specifica sono propri di due momenti diversi della storia della civiltà cristiana e delle sue pratiche: mentre il primo fenomeno caratterizza soprattutto il periodo compreso dal XV secolo all'inizio del XVII, il secondo fenomeno, che comincia dalla fine del XVI secolo, caratterizza i due successivi, fino alla fine del XVIII.

I caratteri principali della stregoneria sono innanzitutto di essere un rapporto contratto volontariamente attraverso un atto giuridico con le potenze malefiche: la strega o lo stregone firmano un contratto, un patto di scambio, che pone anima e corpo indivisi a esclusivo e totale servizio della potenza infernale che sigilla l'atto formale; in secondo luogo, Foucault sottolinea come si tratti di un fenomeno liminale, un fenomeno che si situa ai margini delle zone abitate, spesso nei boschi, in montagna, trattandosi questi di luoghi dove, riporta l'autore, la prima ondata di cristianizzazione di epoca medievale non aveva attecchito o non era giunta pienamente, ed erano sopravvissuti culti o tradizioni pagane e agresti (7): si trovavano qui personaggi che ancora appartenevano all'espiteme di queste tradizioni, alle loro pratiche, e di cui l'Inquisizione formalizzò la resistenza come fenomeno di stregoneria, per ottenere e disporre di una miglior presa nei loro confronti, al fine di produrne la normalizzazione, fino alla loro vera e propria rimozione. Altro carattere non irrilevante, soprattutto per un'analisi girardiana, è il suo caratterizzarsi, secondo la formalizzazione prodotta dal dispositivo inquisitoriale, come pratica che presenta due poli, Satana e la strega o lo stregone.





La possessione, invece, è un fenomeno che non si colloca alle frontiere della nuova ondata di cristianizzazione, ma un suo effetto interno, che appartiene e si colloca nel cuore dei luoghi e dei corpi istituzionalizzati (fenomeno che assume la forma del misticismo, che l'autore ritiene contiguo alla possessione ma distribuito solo nella parte apicale della popolazione, mentre questa lo era nella parte inferiore), fenomeno proprio ad esempio dei conventi, perché consegue l'implementazione di una serie di pratiche che costituiscono, foucaultianamente, una tecnologia del corpo e delle anime: innanzitutto la pratica della confessione e della direzione spirituale; in base a queste, il discepolo deve confessarsi con la propria guida spirituale, e confessare tutto e a lei sola: esclusività e totalità. E in questa confessione dei propri pensieri e desideri, in questa pratica della parola, i cui discorsi devono percorre ogni momento e ogni piega della propria anima tormentata, l'autore sottolinea come venne ritagliandosi, entro quella che prima era una materialità generale del corpo e, come tale, generale causa di peccato, una corporeità più specifica: la carne.



La carne, attraversata da microforze, da linee di fuga del desiderio, da piccoli piaceri, da piccoli conflitti accompagnati dalla voluttà del cedervi. Un campo «al tempo stesso di esercizio di potere e di oggettivazione […] attraversato da tutta una serie di meccanismi chiamati “allettamenti” e “titillazioni” [terminologia tanto affine a quella di una successiva battuta di Thomasin. nda.] […] sede delle intensità multiple di piacere e di dilettazione; […] copro animato, sostenuto (eventualmente contenuto) da una volontà che consente o non consente, che si compiace o rifiuta di compiacersi.» (8). Ed è proprio cedendo a questi piaceri, proprio attraverso piccoli, continui e maliziosi cedimenti che si acconsente, così come riportarono gli stessi soggetti coinvolti, all'entrata nel proprio corpo delle entità demoniache, alla possessione (9).



Nel confronto tra i due fenomeni e il loro corrispondere a due ondate diverse e successive di cristianizzazione, Foucault presenta stregoneria e possessione come due fenomeni di resistenza: la prima a una cristianizzazione quale ricerca di egemonia territoriale e discorsiva da parte della religione, la seconda all'implementazione di una tecnologia delle anime e dei corpi come ricerca di una egemonia e modellazione entro i corpi e le anime stesse, attraverso pratiche discorsive e non discorsive che costituissero l'articolazione stessa dei corpi, così che da essi emergesse l'anima addomesticata.


Pertanto, nel passaggio dalla stregoneria alla possessione, avviene quindi anche il passaggio da una forma di resistenza netta – i culti agresti e pagani –, anch'essa riconducibile a una forma istituzionale – in quanto appartenente a una forma di sapere-potere, a una tradizione che si vedeva portare allo scontro con una diversa istituzione in cerca di egemonia – ad una forma di piccole frammentarie resistenze (10) alle pratiche discorsive di verità del sistema sapere-potere, resistenze che attraversano il corpo come forze che si impadroniscono degli arti, dei gesti, o delle frasi pensate e pronunciate involontariamente; non più un rapporto contrattuale, la cui firma sancisce un assenso dato pienamente, consapevolmente e una volta per tutte, ma un lento scivolare, rotolare, un gradino di piccolo piacere dopo l'altro, nella presa delle entità malefiche, cioè nei modi di deterritorializzazione dei dispositivi disciplinari, modi cui verrà attribuita la formalizzazione soggettuale del posseduto, forma di soggettualità anormale; ed e proprio questa la sorte che toccherà a Caleb, e che differenzierà la sua da quella di Thomasin: due espulsi, due anormali, ma lungo traiettorie e conflitti che presentano delle differenze: Caleb, il soma di un conflitto tra forze entro lo stesso corpo-anima, resistenti l'una all'altra, che produrrà da sé la propria espulsione; Thomasin, luogo di una resistenza tellurica a una forza che è riuscita ad attraversare ma non totalizzare il corpo e l'anima della ragazza, che verrà espulsa da un discorso e da pratiche che l'accerchieranno e che non le lasceranno altro, una volta sancita appunto negli atti la propria espulsione, che assumere pienamente su di sé la condanna stessa e la forma ritagliatale dall'accusa, percorrerle in accelerazione, in una linea di fuga che rievoca il finale di un altro film sulla caccia e la condanna dei punti di resistenza al sistema sapere-potere: Brazil, di Terry Gilliam.


Ma tornando alla scena corrente del film, una delle differenze che intercorrono tra Caleb e Thomasin possiamo già vederla nel dialogo tra padre e figlio, chini sulle trappole. Le parole di Caleb sono una confessione, nella quale vediamo emergere la consapevolezza di questa carne, e della condanna che essa comporta per la propria anima. La disperazione del piccolo è straziante: abitato dalle parole del sapere, che chiedono di pronunciare la propria sentenza, invoca l'aiuto del padre. Ma in questa confessione possiamo appunto notare le differenze che intercorrono tra la sua verbalizzazione e quella della sorella, e possiamo notarle proprio a partire dalla modalità della confessione che Caleb fa a William, rispetto a quelle che Thomasin ha offerto allo spettatore a inizio film, in una scena a cui si è già fatto riferimento nella prima parte di questa analisi. Thomasin si rivolgeva direttamente a Dio, mentre Caleb si confessa al padre; le frasi pronunciate da lei hanno l'aspetto di una ritualità formulare, escono dalla sua bocca come la voce di un predicatore che definisce con linguaggio formale i peccati che minacciano la salvezza dei fedeli e ricorda loro la via da seguire, mentre le frasi di Caleb alternano quella stessa formalità della sorella, alla disperazione e alle domande informali di un anima che sonda il proprio cuore e ne verbalizza ogni angolo.


Abbiamo qui l'esemplificazione di un altro aspetto – già evocato poco sopra – che Foucault sottolinea quando analizza le differenze tra stregoneria e possessione, quindi tra le diverse tecnologie del corpo e del linguaggio che caratterizzavano i relativi periodi della cristianità (11): nel periodo in cui la stregoneria venne formalizzata e perseguitata dall'Inquisizione, le confessioni erano ancora pubbliche, ma, soprattutto, non era ancora stata implementata in maniera diffusa l'istituzione del direttore spirituale e confessore, figura che guida il discepolo in un percorso discorsivo, nel quale questi è portato a indagare e dire al confessore – e a lui soltanto, come già evidenziato – la verità di ogni movimento della propria anima.


Alla luce del rapporto modello-discepolo che intercorre tra Caleb e suo padre William, l'analisi di questa scena della confessione del figlio al padre ci porge la possibilità di meglio vedere qualcosa che Foucault solo lambisce nella sua lezione, quando commenta le vicende della possessione di Loudun, ma le cui parole ci offrono la possibilità di quell'incrocio Girard-Foucault che si sta qui tentando. Laddove durante la lezione evidenzia come la scena della stregoneria sia caratterizzata da un rapporto duale strega/stregone-diavolo, riteniamo – e in questo ammettiamo di non aver ad ora colto alcuno specifico appiglio nel testo di Foucault – che questo rapporto potrebbe benissimo essere letto come rapporto di mediazione tra i due: in questa riduzione a due possiamo vedere il secondo come mediatore esterno, di cui però è possibile immaginare che streghe e stregoni ne imitino lo stesso mimetismo nei confronti di Dio, il suo imitarne la disponibilità di una potenza in grado di piegare l'ordine degli eventi e le volontà al proprio arbitrio, finanche signoreggiando sulla morte; i primi, quindi, come discepoli di Satana ma scandalizzati quanto lui dalla maestà Divina. Ma non riteniamo velleitario domandarsi, alla luce del discorso foucaultiano-girardiano e delle ricerche dello stesso Ginzburg, se tale formalizzazione non abbia proiettato nella figura della stregoneria uno scandalo vissuto in prima persona da quegli inquisitori che andarono producendo la verità che l'episteme cui appartenevano chiedeva loro.



Ma è nella sua descrizione della scena di possessione di Loudun che l'autore offre appigli piuttosto evidenti per un confronto con la lettura Girardiana: la scena della possessione, nelle parole dello stesso Foucault, presenta «un sistema di rapporto triangolare […] una matrice a tre termini: il diavolo da un lato la religiosa indemoniata dall'altro e, fra di loro, triangolando il rapporto, il confessore.» (12); quando riporta poco dopo la scena della possessione di massa di Loudun, l'autore riferisce inoltre che le indemoniate «cominciarono a gridare e a chiamare Grandier, di cui erano invaghite […] volevano andarlo a trovare» (13) – Grandier era il loro confessore, guida spirituale delle monache.


La scena della possessione evidenzia quindi la molteplice mediazione interna che corre nel convento: tra le monache, rivali l'una dell'altra di fronte e a causa del confessore; ma mediazione anche tra le monache e il confessore, il cui ruolo lo pone quale figura loro superiore, ma non abbastanza da non suscitare scandalo con la propria indifferenza, e quindi suscitare desiderio di un possesso che si porrebbe come ribaltamento di tale indifferenza e superiorità. Abbiamo un indizio nelle parole dello stesso Foucault della possibilità che intercorresse questo scandalo tra confessore e discepolo, quando riporta la vicenda di Madre Jeanne des Agnes, scandalizzata dalla condotta di padre Lactance, assegnatole come direttore ed esorcista, del quale leggiamo questa poter in cuor suo criticare le nuove disposizioni date alle religiose, mancando appunto una distanza sufficiente a lasciarlo in una posizione di mediazione esterna (14).


Ma la possibilità di questo incrocio tra la lettura girardiana e quella foucaultiana, non si limita all'analisi delle dinamiche del desiderio che intercorrono tra i protagonisti: Foucault analizza la condotta della Chiesa, tanto nell'implementazione della nuova tecnologia, quanto di fronte al manifestarsi dirompente di un fenomeno nuovo, quello della possessione, letto come effetto di resistenza, contraccolpo del nuovo «grande controllo discorsivo e il grande interrogatorio della carne» (15), e sottolinea come la Chiesa metta in atto dei meccanismi per arginare questi contraccolpi: Foucault li chiama «i grandi anticonvulsivi» (16).


Il primo di questi viene definito dall'autore «moderatore interno»: alla confessione e alla direzione di coscienza si aggiunge la regola della discrezione, un disciplinamento del linguaggio che veicola rigidamente la descrizione dei peccati di cui ci si è macchiati.


Riteniamo di poter trovare, nelle parole di Foucault, dei precisi cenni che permettano di poter estendere anche alla forma della sola confessione e direzione di coscienza la portata girardiana di questo elemento: la figura del direttore di coscienza già si poneva quale mediatore intenzionale, modello da imitare, quasi la nuova tecnologia del corpo e delle anime prevedesse di utilizzare intenzionalmente un rapporto mimetico, di mediazione in senso per noi girardiano, come dispositivo disciplinare. Nella nuova regola che l'autore definisce anticompulsiva, riteniamo sia quindi possibile rintracciare l'esito di queste strategie che implementarono la tecnologia mimetica in funzione disciplinante all'interno della tecnologia (17) della confessione e della direzione di coscienza , dispositivi come forme-relazioni nelle quali si è prepotentemente manifestata la portata indifferenziante dello scandalo tra confessore e confessato, ed è Foucault stesso a suggerire questa possibilità di lettura, innanzitutto quando evidenzia come «per ostacolare gli effetti induttori della regola del discorso esaustivo, sono stati formulati alcuni principî d'attenuazione. […] la necessità dell'ombra; la comparsa della grata […] la regola secondo cui il confessore non deve guardare il penitente negli occhi, se il penitente è una donna o un giovane uomo […]» (18); poi quando sottolinea come i dettagli dei peccati dovessero essere confessati solo la prima volta, mentre nelle successive ci si dovesse riferire a quella prima confessione per evitare di ripeterli o, soprattutto, far agire il metodo dell'insinuazione per evitare che con la confessione si inducesse a nuove tentazioni, in particolar modo quando i penitenti fossero i bambini, con i quali si dichiarava necessario evitare anche che domande troppo esplicite potessero «essere la causa per la quale potrebbero apprendere il male che non conoscono o ispirare loro il desiderio di saperlo» (19); «Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare.» (20). Per questo venne quindi ad aggiungersi quella codificazione e disciplina linguistica, nel tentativo, arginando i racconti diretti della carne, di allontanare la possibilità di scandalo sia per il penitente che tra chi si confessava e chi accoglieva tale confessione.


Benché “interno” per Foucault indichi solo l'essere un elemento posto internamente al campo della normalità sancito dal sistema sapere-potere, le vicende anche da lui riferite ci sottolineano come non fosse improbabile che tale mediazione divenisse effettivamente interna in senso girardiano, proprio per la contiguità tra i soggetti coinvolti in quanto tutti abitati da quella carne oggetto della nuova tecnologia: è la carne, elaborazione della Chiesa per ottenere il controllo disciplinare delle anime e dei corpi, che ha avvicinato i soggetti, che li ha posti su di un medesimo piano, favorendo la proliferazione della mediazione interna, nonostante le differenze gerarchiche e di rango. Ed è la carne, la sua tecnologia, i dispositivi sorti correlativamente a essa, ad aver avvicinato e omogeneizzato l'umanità moderna, favorendo la proliferazione della mediazione interna nella società che diverrà, così, di massa.


Il secondo meccanismo è l'espulsione del convulsivo: nel tentativo di preservare il proprio episteme, messo in crisi da questo fenomeno che poneva in discussione la capacità disciplinante della propria tecnologia, la Chiesa fece appello all'aiuto della medicina, che intervenne facendo propria l'oggettualità della possessione elaborata dall'insieme delle prassi ecclesiastiche, e riattualizzandola secondo il proprio campo discorsivo e le proprie prassi. La Chiesa espulse così il fenomeno scomodo della possessione, zona di anormalità che incrinava le certezze epistemiche, consegnandolo al braccio secolare della medicina che, tramite questo intervento, si insinuerà sempre più nell'indagine e nel trattamento dei corpi, indagati sotto l'aspetto delle forze che li abitano e che vi si manifestano.



Il terzo meccanismo anticonvulsivo, è quello dell'implementazione della direzione di coscienza e della confessione nei sistemi disciplinari attivati in quella stessa epoca: caserme, scuole, ospedali, luoghi composti innanzitutto da un reticolo disciplinare, uno spazio analitico, un'organizzazione panoptica della loro continua visibilità.


La possibilità di leggere anche il sistema sacrificale come un episteme, come un ambito del discorso di volta in volta fatto proprio e attualizzato anche da diversi e successivi sistemi del sapere-potere, emerge allora nella lettura di questi dispositivi anticonvulsivi, che ne dispiegano la strategia ritagliando tra i fenomeni le forme entro cui racchiudere forze dalla portata eversiva – che siano modalità del linguaggio o l'intero fenomeno del corpo preda delle convulsioni – ed espellendole. Ma, prima che nell'articolazione dei tre anticompulsivi, tale possibilità compare innanzitutto nelle pagine in cui Foucault evidenzia come la Chiesa, di fronte a un fenomeno come quello della possessione di massa di Loudun, trovandosi ancora priva degli strumenti per controllare gli effetti e i contraccolpi della nuova tecnologia del corpo e delle anime, si fosse risolta a ritrascrivere (21) entro il sistema della stregoneria il fenomeno nuovo davanti cui si si trovava, a ricondurne le singolarità, che facevano la loro comparsa nella resistenza alle forze di tale nuova tecnologia, a quello che era allora ancora il suo discorso repressivo dominante; per fare questo, nell'episodio riportato «La Chiesa è stata così obbligata a privarsi di uno dei suoi membri e a designare come stregone un curato. Urbain Grandier, curato di Loudun, è stato costretto a interpretare il ruolo dello stregone; gli è stato assegnato a forza il ruolo dello stregone […] In questo modo Gandier è stato, al tempo stesso, consacrato come stregone e sacrificato in quanto tale» (22).



Il meccanismo sacrificale è stato messo in atto cercando una vittima; meglio: creando una vittima, disponendo una soggettualità che incorporasse e assumesse e su di sé la forma vittimaria, e che caricasse su di sé l'indifferenziazione del discorso stesso e dei soggetti stessi – la carne, tanto come sistema disciplinare quanto come superficie di resistenza a tale disciplina, superficie comune e pertanto principio della stessa indifferenziazione – che si stava producendo sotto la pressione della nuova tecnologia, ed espellendola affinché l'episteme che andava formandosi potesse ripristinare la differenza di cui si faceva portatore, e potesse provvedere alla propria ulteriore imposizione.


Nel confronto tra la stregoneria e la possessione abbiamo quindi il confronto tra due dinamiche che differiscono per il modo in cui in esse si articola il conflitto tra forze, attualizzato come conflitto tra episteme nel primo caso e conflitto intraepistemico nel secondo caso, e, quindi, differiscono anche nel modo in cui le soggettualità da essi informate si vedono essere articolate dalle dinamiche in cui sono prese.


Nella stregoneria abbiamo il confronto esterno tra due episteme, una subentrante e una retrocedente, e tra forme di soggettualità loro corrispondenti che, già costituite presso il proprio discorso, si trovano rimodellate entro il momento di scontro tra i due; quella appartenente all'episteme subentrante, l'inquisitore, cerca di produrre nella sua indagine la verità stessa del fenomeno, di ritagliare le forme dei soggetti e degli oggetti da assegnare e cui ricondurre ciò che gli si pone innanzi, per meglio dominarlo ed espellerlo (23); quella appartenente all'episteme che deve venir espulsa difende la propria differenza, finché la pressione processuale non produce, con le sue stesse parole quella verità che corrisponde all'assunzione di forme per essa ritagliata dall'episteme subentrante, funzionali alla sua rimozione. L'inquisitore diviene produttore di verità, la singolarità pagana diviene stregoneria. Il dispositivo processuale produce la verità non solo dei fatti, ma anche dei soggetti coinvolti.


Nella possessione, abbiamo il conflitto interno a un episteme egemone e alle soggettualità da esso costituite, che vedono entrambi l'emergere di punti singolari di resistenza, linee di fuga di forze che vanno agglutinandosi in un discorso altro e in una forma soggettuale altra.


Tanto nel conflitto esterno proprio alla caccia alla stregoneria, quanto in quello interno della possessione, l'esito comune è però quello di un'espulsione: il momento del conflitto presenta una equiparazione tra le istanze – altrimenti non vi sarebbe conflitto, confronto, ma immediata risoluzione dello stesso, bypassato dal superiore – e, quindi, un momento di indifferenziazione tra le due: nel primo è l'indifferenziazione dei due regimi di verità, tra chi possa stabilire la verità dei soggetti e degli oggetti coinvolti, se quello dell'inquisitore o quello dell'inquisito; nel secondo è l'indifferenziazione tra confessore e penitente, entrambi abitati da quella carne le cui linee di fuga sono pronte a emergere mimeticamente e disperdere la capacità disciplinante della tecnologia: un'indifferenziazione tra modello e discepolo, tra poli che colliquano nel ribollire omogeneizzante della carne. Questa crisi necessita come risoluzione l'espulsione delle singolarità che resistono al campo epistemico che cerca di affermare la propria egemonia, e tale espulsione prevede innanzitutto la costruzione, entro il discorso e le pratiche di relazione, di una forma di soggettualità da attribuire e cui ricondurre quelle singolarità, per garantire una loro visibilità e una presa su di esse tali da non consentire interstizi entro cui possano sottrarsi all'espulsione necessaria: tale è la forma dell'anormale. La lotta processuale e quella esorcistica sono innanzitutto una lotta nella forma del linguaggio, una lotta in cui il linguaggio in cerca di egemonia cerca di produrre la verità del mondo, delle relazioni e dei soggetti, cerca definizioni, nomi, confessioni, appunto, la partecipazione e la complicità delle singolarità imputate, che devono, con le proprie parole, ricondurre se stesse entro quelle forme di verità e soggettualità che il potere – tanto l'inquisente quanto l'esorcizzante – sta predisponendo per loro, per poterle afferrare ed espellere. L'esorcismo, il processo, l'esame, sono a tutti gli effetti un rito sacro, un rito di espulsione delle singolarità che non si riconduco entro il campo epistemico che rivendica la propria egemonia; un rito sacro che richiede il sacrificio di tali singolarità: ogni volta che si incontrano singolarità che abitano un linguaggio pur condiviso ma ciascuna con la propria topologia di forze e linee di fuga, il sistema-potere egemone deve risolvere in proprio favore l'indifferenziazione che incombe. Non esiste, pertanto, forma di potere e sapere che, imponendosi come sistema di visibilità e di dicibilità, non racchiuda nella forma dell'anormalità quelle singolarità su cui deve esercitarsi la violenza dell'espulsione.



In questo dialogo tra padre figlio, tanto nelle domande di Caleb quanto nelle risposte di William possiamo vedere in atto la forza di un regime discorsivo, che non solo abita i soggetti, ma conferisce loro forma, ne indirizza il gioco interno di forze, lasciando eventualmente esigue faglie tra le quali il discorso può ripiegarsi su stesso, rendersi visibile a se stesso e aprire lo spazio del dubbio, spazio inaugurale di un possibile disassoggettamento e risoggettivazione, spazio che ci si offre e che possiamo estendere anche per l'altro. L'angoscia che Caleb offre a suo padre è priva di accuse e rivendicazioni: non è solo il dolore che viene qui offerto, tanto meno il dolore che si tramuta in violenza per cercare risentitamente il proprio riscatto, bensì il dolore di un'anima che si denuda davanti a William e che quasi si offre in sacrificio, poiché si dispone e invita a quell'esercizio del discorso – Caleb infatti implora al padre il discorso: “ditemelo!” – attraverso il quale il sistema sapere-potere rimuoverebbe le singolarità deterritorializzanti e imporrebbe le proprie forme. Ma in questo chiedere la prova della forza ma anche della pietà del discorso, che è soprattutto – come detto – un denudarsi, la vittima che si offre al giudice ed esecutore per procura apre in questi, William, un istante kairologico in cui poter vedere la violenza del sistema-sapere di cui si fa portatore e agente, così come vedere lo scandalo che egli vive e che alimenta il vortice mimetico che origina dalla sua ossessione pastorale; poter vedere la violenza che questi esercitano nel corpo e nell'anima di Caleb; le prime parole di William quando, travolte le sue prime risposte dalle frasi incalzanti del figlio, si china ad altezza del suo sguardo, ci danno il segno di questa apertura, poiché dicono al figlio l'amore che il padre ha per lui. Subito dopo, però, vediamo ricomparire il discorso del sapere e offrire in William l'occasione di bloccare l'oscillazione e rinsaldarsi nel suo scandalo pastorale: le parole successive ripetono infatti a Caleb l'insegnamento dottrinario e prescrivono la riconduzione di sé e dei suoi dubbi entro l'alveo delle posizioni soggettuali ritagliate dal discorso, dalle quali non può essere indagato e questionato quanto esso predispone. Caleb abbassa lo sguardo, ma il conflitto di forze che lo abita trova nella domanda sulla provenienza delle trappole la possibilità di manifestarsi ancora come dubbio sulla loro condizione presente.



***


(1) Si ricorda che il termine scandalo deriva proprio dal greco skàndalon, che significa “inciampo”, “pietra di inciampo”, come ricorda Girard.

(2) Le prime occorrenze di questo termine nell'uso precipuo dell'autore, si può far riferimento a M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), tr. it. di A. Tarchetti, Giulio Einaudi editore, Torino 2020, dove, a pagina 224, possiamo trovarne una prima definizione efficace, applicata al Panopticon: «Ma il Panopticon non deve essere inteso solamente come un edificio onirico: è il diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale […] è in effetti una figura di tecnologia politica che si può e si deve distaccare da ogni uso specifico. Esso è polivalente nelle sue applicazioni […] È un tipo di inserimento dei corpi nello spazio, di distribuzione degli individui gli uni in rapporto agli altri, di organizzazione gerarchica, di disposizione dei centri e dei canali di potere, di definizione dei suoi strumenti e dei suoi modi di intervento». (corsivo dell'autore). Ma si ricorda anche un'ottima definizione fornita dalla Professoressa Rossella Fabbrichesi durante una lezione tenuta in data 09/10/2020: «tutto ciò che dispone un soggetto atteggiato in un certo modo rispetto a degli oggetti che vengono conosciuti in quel modo, entro una rete di saperi-poteri complessa […] ciò che è in opera in una determinata episteme cioè costituisce individualità precise».

(3) Si riporta, a titolo di esempio esaustivo, la descrizione del dispositivo d'esame, pratica insieme discorsiva, gestuale, di visibilità e di disposizione dei corpi, offerta Foucault in Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, cit., p. 202: «L'esame combina le tecniche della gerarchia che sorveglia con quelle della sanzione che normalizza. È un controllo normalizzatore, una sorveglianza che permette di qualificare, classificare, punire. Stabilisce sugli individui una visibilità attraverso la quale essi ne vengono differenziati e sanzionati. Per questo, in tutti i dispositivi disciplinari, l'esame è altamente ritualizzato. In esso vengono a congiungersi la cerimonia del potere e la forma dell'esperienza, lo spiegamento della forza e lo stabilimento della verità. Nel cuore delle procedure disciplinari, manifesta l'assoggettamento di coloro che vengono percepiti come oggetti e l'oggettivazione di coloro che sono assoggettati. La sovrapposizione dei rapporti di potere e delle relazioni di sapere assume nell'esame tutto il suo splendore visibile.».

(4) Cfr. nota precedente.

(5) Ivi, p. 221: «L'efficacia del poter, la sua forza costrittiva, sono, in qualche modo, passate dall'altra parte – dalla parte della superficie di applicazione. Colui che è sottoposto ad un campo di visibilità, e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni del potere, le fa giocare spontaneamente su se-stesso; inscrive in se-stesso il rapporto di potere nel quale gioca simultaneamente i due ruoli, diviene il principio del proprio assoggettamento».

(6) Cfr. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975) (1999), tr. it. di V. Marchetti e A. Salomoni, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2000.

(7) Ivi, p. 182.

(8) Ivi, p. 179. (virgolette, e parentesi dell'autore, dove non diversamente specificato)

(9) Ivi, p. 186-187: «Ella riconosce che la cosa non è così semplice e che, se il demonio ha potuto mettere in lei quelle sensazioni dietro le quali si nasconde, è perché lei lo ha permesso. Quest'inserzione si è operata con un gioco di piccoli piaceri, d'impercettibili sensazioni, di minuscoli consensi. […] Come la religiosa dice nella confessione: “Il diavolo m'inganna spesso tramite un piccolo piacere che provo dinnanzi alle agitazioni e altre cose fuori del comune che egli faceva nel mio corpo […] mi accade, per mia grande vergogna, di disapprovare in molte piccole cose la sua condotto [si riferisce a padre Lactance, direttore ed esorcista assegnatole. Nda] Pensai in me stessa che avrebbe fatto molto meglio a seguire le maniere degli altri preti. Mentre indugiavo con negligenza su questo pensiero, mi venne in mente che il demonio, per umiliare questo padre, avrebbe fatto qualche irriverenza davanti al santissimo sacramento. Fui così miserabile da non resistere con sufficiente determinazione a quel pensiero. Quando mi presentai alla grata per ricevere la comunione, il diavolo s'impadronì della mia testa e, dopo che ebbi umettato l'ostia santa, esso la sputò in faccia al sacerdote. So bene di non aver compiuto questa azione liberamente, ma sono certa, per mia grande vergogna, di aver dato modo al diavolo di compierla, e che egli non avrebbe avuto questo potere se non mi fossi legata a lui”».

(10) Ivi, p. 184: «l'indemoniata frammenta e frammenterà all'infinito il corpo della strega, che fino a quel momento […] era una singolarità somatica […] Il corpo dell'indemoniata è invece un corpo multiplo che si polverizza in una pluralità di potenze che si affrontano le une con le altre, in una pluralità di forze e sensazioni che l'assalgono e l'attraversano. Più che il grande duello del bene e del male, è questa molteplicità indefinita che caratterizzerà, in generale, il fenomeno della possessione. […] Il corpo dell'indemoniata è la sede d'una molteplicità indefinita di movimenti, scosse, sensazioni, tremori, dolori e piaceri». Ivi, p. 189: «La carne prodotta dalla dalla pratica di direzione spirituale del XVI-XVII secolo diventa, una volta sottoposta a una determinata pressione, la carne convulsiva. Nel campo della nuova pratica della direzione di coscienza, emerge come il punto d'approdo del nuovo investimento del corpo costituito dal governo delle anime dopo il concilio di Trento. La carne convulsiva è il corpo attraversato dal diritto di esame e sottomesso all'obbligo della confessione esaustiva: è il corpo insorto contro il diritto di esame e contro l'obbligo della confessione esaustiva. […] È il corpo che oppone alla regola della direzione obbediente le grandi scosse della rivolta involontaria o i piccoli tradimenti delle compiacenze segrete. […] La carne convulsiva è l'effetto di resistenza della cristianizzazione a livello dei corpi individuali».

(11) Ivi, p. 181-182.

(12) Ivi, p. 183. (corsivo aggiunto)

(13) Ivi, p. 185. (corsivo aggiunto)

(14) Cfr. sopra, nota 8.

(15) Ivi, p. 192.

(16) Ibidem.

(17) Riteniamo possibile, anche alla luce di quanto riportato nella nota 2, utilizzare i termini tecnologia e dispositivo come sinonimi entro il linguaggio foucaultiano.

(18) Ivi, p. 194.

(19) Ivi, p. 195.

(20) Matteo, 18, 6

(21) Ivi, p. 191: «Credo che la Chiesa – quando in questa vicenda […] si è trovata di fronte a fenomeni che erano nella traiettoria della sua nuova tecnica di potere e che, allo stesso tempo, rivelavano che queste tecniche incontravano i loro limiti e il loro punto di rovesciamento - abbia tentato di controllarli. Ha tentato di liquidare i conflitti nati dalla tecnica stessa impiegata per esercitare il poter. Non avendo i mezzi per controllare gli effetti del nuovo meccanismo di potere messo in opera, essa ha reiscritto nei vecchi procedimenti di controllo, caratteristici della caccia alle streghe, il fenomeno che doveva osservare, e ha potuto dominarlo solo a condizione di ritrascriverlo in termini di stregoneria».

(22) Ibidem (corsivo aggiunto).

(23) Cfr. C. Ginzburg, L'inquisitore come antropologo (1989) in Il filo e le tracce. Vero falso finto (2006), Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2020, p. 275: «I personaggi che vediamo scontrarsi in questi testi non si trovano, com'è ovvio, sullo stesso piano […] Questa disuguaglianza sul piano del potere (reale e simbolico) spiega perché la pressione esercitata dagli inquisitori per strappare agli imputati la verità che andavano cercando fosse, in generale, coronata da successo. […] Ma nonostante i loro sforzi, ci volle mezzo secolo per superare lo scarto tra le aspettative degli inquisitori e le confessioni spontanee dei benandanti. Tanto lo scarto quanto la resistenza dei benandanti alle pressioni degli inquisitori indicano che ci troviamo di fronte a uno strato culturale profondo, del tutto estraneo alla cultura degli inquisitori. La stessa parola “benandante” era loro ignota: il suo significato […] fu, in un certo senso, la posta in gioco della lunga lotta che vide contrapposti in Friuli, tra il 1570 e il 1650 circa, inquisitori e benandanti. Alla fine questa disputa semantica fu risolta da chi aveva più potere […] I benandanti si trasformarono in stregoni»; cfr. anche p. 279: «Essi [inquisitori e predicatori. nda] non erano studiosi neutrali, distaccati: il loro scopo – non di rado raggiunto – era quello di indurre altre persone (imputati, ascoltatori, fedeli in generale) a credere ciò che essi ritenevano fosse la verità». Cfr. anche C. Ginzburg, Storia Notturna. Una decifrazione del sabba (1989), Edizione CDE, su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano 1991, pp. 70-73.

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