La maschera più diffusa del Carnevale 2020 è stata questa:
Apparentemente i due fenomeni del carnevale e del contagio virale non hanno niente in comune, anzi sembrano antitetici: la festa contro la paura, il divertimento contro l’asserragliamento impaurito, il poter fare qualunque scherzo contro lo stare attenti persino a tossire.
Eppure, forse Girard ci aiuta a capire qualcosa di più sulla questione, individuando degli elementi comuni tra carnevale e epidemia, considerati dal punto di vista antropologico.
Abbiamo già parlato di quanto il Carnevale, per quanto oggi estremamente secolarizzato, possa essere interpretato alla stregua di un rito collettivo di violenza mimetica simbolica, che esprime la crisi indifferenziante e la caduta dei tabù tramite la maschera e la liceità, e al contempo l’uscita dalla “anarchia sociale” tramite l’individuazione di un fantoccio, il Re del Carnevale, solitamente bruciato o percosso nel Martedì Grasso, prima di entrare nel periodo penitenziale della Quaresima in cui si ristabiliscono i confini, i ruoli, le gerarchie, e al contempo si sconta la pena dell’essersi lasciati andare.
Bene, questa sorta di isteria collettiva si ripresenta anche nel caso delle epidemie. Secondo Girard le numerose pestilenze presenti nei miti esprimono il dilagare della violenza mimetica nei momenti di crisi sociale: qualcosa che serpeggia e si propaga contagiando tutti indistintamente. E quando questa dinamica arriva al parossismo, o la società si autodistrugge oppure scatta il salvifico meccanismo vittimario: si individua “qualcuno” che sarebbe responsabile della crisi – quindi, nel linguaggio allegorico del mito, dell’epidemia – a cui imputare una fantomatica “colpa” e su cui scaricare catarticamente la propria violenza. Pensiamo ad Edipo, colpevole di aver infranto il tabù dell’incesto e perciò responsabile della pestilenza tebana. Ma gli esempi sono numerosissimi, e basta aprire un qualsiasi volume di Girard per trovarne raccolti e interpretati molti altri.
Ora, guardando ciò che è accaduto in questi giorni di coronavirus in Italia, possiamo capire meglio il legame non soltanto metaforico, ma reale, realissimo, tra il contagio del virus e il contagio del panico: nei miti il primo può significare il secondo perché nella realtà il primo spessissimo produce il secondo. Nel caso specifico del COVID-19, si tratta di un virus poco letale e al contempo molto contagioso, e ciò acuisce ancora di più il distacco tra il pericolo effettivo e la paura immaginaria, tra l’asettica mortalità scientifica e il timore di essere preda di un essere maligno invisibile che si diffonde a macchia d’olio in maniera incontrollata. Questo timore diventa esso stesso quel demonio invisibile e contagioso, trasformando una comunità strutturata in una collettività indifferenziata, in cui a dominare tutti è l’egoismo di ognuno, e in cui si svela la precarietà di qualsiasi sbandierato valore di “senso civico”. Pensiamo all’assalto dei supermercati per fare scorta di prodotti alimentari, o all’afflusso indiscriminato verso gli ospedali.
Non solo il virus produce la crisi sociale, ma fa intravedere anche il meccanismo vittimario. Si cerca sempre “qualcuno” a cui dare la colpa, si cercano sempre gli untori. In questo caso inizialmente erano i cinesi, colpevoli di non aver adeguato i loro mercati popolari agli standard igienici occidentali, o di aver tenuto per troppo tempo nascosto questo pericolo prima che diventasse un fenomeno mondiale… insomma colpevoli di aver fatto iniziare il contagio. “È stato lui! Ha iniziato lui!”, è questo ciò che si dice sempre quando ci si vuol scaricare di una colpa! Bisogna individuare il virus sociale prima ancora che monitorare quello reale.
E questa individuazione è già in qualche modo un paradossale vaccino, perché permette di scaricare la colpa su qualcuno, di illudersi di controllare il fenomeno individuandone la causa. “Cinesi di merda!!” ho sentito dire più e più volte in questi giorni – versione aggiornata del “Governo ladro!” per le magagne quotidiane. Purtroppo a fare le spese di questo meccanismo allucinatorio di sopravvivenza sono proprio i cinesi, e intendiamo qualsiasi cinese, anche se nato in Italia e mai stato dalle parti di Wuhan. Sarà comunque guardato in cagnesco, e guai se si mette a starnutire! (Non parliamo del danno economico connesso a tutto ciò, ci porterebbe lontano e non ne abbiamo le competenze, ma basti guardare la desolazione di negozi e ristoranti cinesi in questi giorni per farsi un’idea).
Insieme ai cinesi, si sono anche trovati dei responsabili nazionali del contagio globale: i primi sono stati coloro che provenivano dalla Cina. Anche se negativi ai test, sono stati comunque messi alla berlina. E chi creda che questi meccanismi siano lontanissimi dai sacrifici violenti arcaici, dai linciaggi collettivi, guardi il video del bus di cittadini ucraini rientranti dalla Cina preso a sassate dai propri connazionali.
Infine, specialmente in Italia, abbiamo avuto forse l’esempio più interessante di sostituto del capro espiatorio: il “paziente zero”! Già dal nome evoca scenari postatomici… Il paziente zero, colui che avrebbe introdotto il virus negli italici confini, ancora oggi non si trova! Lo si cerca costantemente, anche se dal punto di vista matematico-scientifico tale ricerca non ha molta importanza: ormai il contagio si è diffuso, l’incidenza potenziale del paziente zero è uguale a quella di qualsiasi altro potenziale infetto. Eppure, si moltiplicano articoli in cui si dice che si continua la “caccia”, termine di per sé piuttosto indicativo, al paziente zero. Come mai? Perché la scienza qui non c’entra, e nemmeno c’entra molto il virus. C’entra molto la paura collettiva, quella sì, e da quella se ne esce in un solo modo: polarizzandola su qualcuno da espellere. O, nel caso del paziente zero, da isolare in quarantena. Quello sì che darebbe un po’ di tranquillità, non è vero?
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