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Il tremendo Joker di Joaquin Phoenix | Una prospettiva inattuale e un po’ bigotta

Aggiornamento: 10 ott 2019


Joaquin Phoenix nel ruolo di Arthur Fleck

Sarebbe stato solo un brutto film, se Joaquin Phoenix non fosse stato così tremendamente bravo. Invece, proprio per colpa di quella performance eccezionale, che riesce a commuovere e straziare dopo neanche dieci minuti, Joker è un film cattivo, colpevole e soprattutto pericoloso. Perché lo spettatore, abbagliato dall’interpretazione di Phoenix, che chiama qualsiasi essere umano all’appello di un’empatia immediata e verissima, è portato suo malgrado ad approvare e giustificare gli orrendi sottintesi narrativi e antropologici che la sceneggiatura inconsapevolmente veicola.


Sottintesi mostruosi, da una prospettiva girardiana, perché fanno della vittima sacrificale (Joker) non il martire e testimone del fallimento storico della violenza, ma piuttosto un nuovo dispositivo catalizzatore della violenza stessa, tanto più efficace in quanto presentato fin da subito come vittima innocente (della madre pazza a sua volta, dei colleghi, della società, di Gotham ebbra di sangue). La speranza che fu di Girard, che il mondo aprisse gli occhi sulla vera natura della violenza, nella comune intesa del significato storico della vittima innocente (Cristo come Joker), viene non soltanto magistralmente contraddetta, ma dolorosamente ribaltata dal film di Todd Phillips: la vittima innocente non è agnello che chiama alla pace, ma stregone e sacerdote di un sabba di violenza collettivo nel quale le frustrazioni e le angosce dell’umanità di inizio millennio trovano finalmente la loro catarsi. Si potrà obiettare che non è la prima volta che si sente tossicchiare intorno a questo mitologema allo stesso tempo superomistico e consolatorio, di cui lo stesso Nietzsche avrebbe provato vergogna; mai però questa narrazione era stata resa così profondamente seducente e plausibile, prima che Joaquin Phoenix, attore eccezionale, vestisse i panni dell’uomo qualunque sul bilico della pazzia.

Si intende che non pavento un risveglio collettivo di violenza veicolato dal film, un movimento alla V per Vendetta o un’apocalisse socio-antropologica nei prossimi mesi. Dico che un film come questo alimenta e giustifica una narrazione seducente, irenica e consolatoria della violenza. Uso volontariamente un termine che appartiene alla semantica nicciana (e non a Nietzsche) dell’interpretazione del religioso: la violenza in Joker consola delle frustrazioni e dei patimenti quanto e anzi più dell’amore di Cristo nella rivelazione evangelica – e se non lo fa, allora nemmeno lo fa la via dissestata e dolorosa della fede religiosa, mai garantita dalle certezze dogmatiche. La morale del gregge, dopo cento anni, non è più quella che si imputava agli ingenui cristianucci: è invece la morale della violenza liberatoria, alla quale tutti crediamo o ci conformiamo involontariamente: la morale del nemico a tutti i costi, la morale del silenzio e dell’odio.


La vicenda individuale di Arthur Fleck è paradigmizzata e proiettata come destino sulla massa dei diseredati di Gotham City e di conseguenza sugli spettatori: loro come il Joker frustrati, delusi, arrabbiati, loro come il Joker privi di speranza, abbandonati e disprezzati, loro come il Joker in attesa non della pace, di una risoluzione, della salvezza, ma di una catarsi di fuoco e fiamme, oltre la quale non si vedano che rovine e ceneri. A questo riguardo, ancora più pericolosa della rappresentazione del Joker (pazzo deterministicamente patologico e al contempo vittima della società) è la messinscena dei benestanti e dei politicanti di Gotham, su tutti la figura di Thomas Wayne. Sono loro, i benestanti, la vera vittima sacrificale del film, il vero capro espiatorio. Si ascoltino le parole di Wayne: la sceneggiatura del suo personaggio non è solo mille volta più scialba di quella del Joker, ma volutamente sciocca, arrogante e inverosimile, quale non la sentiremmo mai dalla bocca di un politico. Wayne nemmeno si cura di blandire i suoi elettori, ma anzi li insulta pubblicamente, presentandosi come loro unica speranza, in un’apoteosi di idiozia. In una narrazione mitologica classica, la vittima è sempre disumanizzata, le si fanno dire le peggiori mostruosità appunto per giustificare la violenza che si prepara nei suoi confronti. Thomas Wayne e l’1% (i ricchi, i benestanti) servono a questo scopo in maniera molto più geniale di qualsiasi narrazione vittimaria classica: perché proprio come il Joker, vittima innocente, ribalta la speranza di Girard evocando la violenza invece della pace, allo stesso modo il politicante benestante, che davvero è responsabile dell’ingiustizia sociale (al di là di qualsiasi prospettiva marxiana: dico oggettivamente responsabile), disattiva il meccanismo di identificazione con la vittima che il cristianesimo ci ha permesso di sviluppare proprio in virtù delle sue colpe sociali oggettive, rese tanto più mostruose dalla caratterizzazione ridicolmente inverosimile del personaggio. Insomma, il politico è la vittima perfetta: colpevole e disumana, senza attenuanti. In un secolo come questo, non serve che spieghi quanto una narrazione consimile sia pericolosa in sommo grado.

Tanto più ridicola e pelosa è la rappresentazione di Thomas Wayne e dell’1%, se si pensa che a produrla sono verosimilmente registi, sceneggiatori e attori che vengono precisamente da quel bel mondo di benestanti che si arroga il diritto di rappresentare la condizione dei disperati e “fare arte” delle loro idiosincrasie, senza il minimo senso di responsabilità per il ruolo e la funzione sociale dell’artista. Si rendono conto, questi signori, di cosa significa, dalla loro posizione, suggerire ai diseredati il fascino di questo sabba rivoluzionario e violento? Qualcosa a metà tra un’idiozia meravigliosa e un progetto di suicidio di classe sullo stile di certi anime giapponesi.


Si potrebbe essere forse clementi con il film abbandonando la mia prospettiva bigotta e moralistica? Nemmeno: la sceneggiatura, nemmeno la parte curatissima del Joker, è all’altezza dell’interpretazione del divino Phoenix. Soprattutto nella seconda parte, una sequela di rivelazioni a orologeria (fidanzata immaginaria, adozione, abusi, madre pazza) trasmettono piuttosto la noia del classico copione vittimistico (non vittimario) che il progresso di un’autentica escalation di disgrazie. L’omicidio della madre, poi, è un capolavoro di inverosimiglianza psicologica, al quale lo stesso Phoenix non sa comprensibilmente tener testa. Atroci le scene della madre giovane osservata con severo cipiglio dal fantasma del figlio – rendere goffo e cringe Joaquim Phoenix, ce ne vuole.

Queste però sono considerazioni personali, che giustamente qualcuno riterrà superflue o gratuite. A mia parziale ammenda, concludo con la scena più bella e commovente, che forse vale tutto il male e la stupidità del seguito. Arthur guarda la televisione con sua madre e si immagina di partecipare come spettatore allo show di Murray Franklin, dal quale viene chiamato ad alzarsi ed esposto a un iniziale ludibrio del pubblico, che presto si tramuta in pacificazione collettiva al cospetto dell’innocenza perfetta dello strambo Arthur. In Murray, mediatore della professione di comico, Arthur trova poi un improbabile padre adottivo. L’interpretazione di Phoenix, la regia, la sceneggiatura (la sceneggiatura stessa!) commuovono a un livello raramente condiviso, e sono sicuro che anche chi ha visto e apprezzato il film nel suo complesso serba un ricordo particolare di quella scena. Oso chiedere: in quella pia illusione, irenica e consolatoria, abitava forse una menzogna peggiore di tutto il male che verrà dopo? Tanto quanto la violenza assoluta, la pace perfetta è un’illusione, se a renderla reale non sono le parole e i gesti delle persone. Quanto è inverosimile che una città si levi in maschera di pagliaccio distruggendo e dando fuoco a tutto, a imitazione di un malato di mente? Quanto che quello stesso malato di mente, per puro caso, trovi la pace e porti “gioia e felicità” nella vita di molte persone partecipando a un programma televisivo? La risposta forse non c’è, ma forse c’è la storia che preferiamo ascoltare.

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