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In morte di Socrate | Il sacrificio fondativo della razionalità occidentale

di Ludovico Cantisani



“La volpe sa molte cose, ma il porcospino sa una sola grande cosa”, scrisse tre millenni fa il poeta greco Archiloco. “René Girard è uno degli ultimi ‘porcospini’ oggi sopravviventi”, chiosò l’adelphiano Roberto Calasso nella sua Rovina di Kasch, e “la sola grande cosa che Girard sa ha un nome: capro espiatorio”.

Dai primi anni settanta de La violenza e il sacro fino agli anni duemila inoltrati delle sue ultime opere e articoli, René Girard ha espresso, comunicato e propagandato una certezza radicale: una comprensione parimenti della storia dell’uomo, del messaggio biblico e di tutto il “tragico” presente in letteratura alla luce di un meccanismo sacrificale che, in riferimento all’immaginario giudaico-cristiano, è sintetizzato nella formula “capro espiatorio”. Sacrifici espiatori di una vittima innocente ma sulla quale sono caricate tutte le tensioni sociali insite in una comunità si ripetono per tutta la storia dell’uomo, dalla più immonda preistoria fino, se vogliamo, ai giorni nostri - non per nulla, il suo pensiero ebbe una riscossa di popolarità all’indomani dell’11 Settembre. Definito non a torto - ma neanche del tutto a ragione - come “l’Hegel del cristianesimo”, insistendo sulla figura del capro espiatorio ha tracciato un percorso di grande rilievo attraverso la cultura occidentale riletta a ritroso.

Chi conosce le opere di Girard sa che in esse si possono trovare letture sorprendenti ma sempre rivelatorie degli elementi più disparati, attraverso il nesso da lui ininterrottamente precisato che fa subentrare un capro espiatorio ad ogni crisi mimetica, ad ogni escalation di vendette e/o di imitazione reciproca tra i membri di una comunità. Ma, tra la rilettura mimetico-espiatoria dell’antisemitismo storico proposta a più riprese a partire da Il capro espiatorio, l’analisi monografica dell’opus shakesperiano che si trova ne Il teatro dell’invidia e il commento quasi apologetico di Giobbe ne L’antica via degli empi, un passaggio epocale della storia del pensiero occidentale e della storia dell’Occidente tout court risulta apparentemente bypassato: la condanna a morte di Socrate all’indomani del timido ritorno della democrazia ad Atene.

Che Girard non abbia mai trattato di Socrate non è del tutto vero - ma l’unica occorrenza significativa, in cui il maître à penser francese ha fissato lo sguardo sulle dinamiche della condanna a morte del filosofo greco, è un passaggio di un’intervista pubblicata a metà degli anni novanta sulla rivista specializzata Anthropoetics. Nel corso dell’intervista, dopo che il suo interlocutore Markus Müller lo aveva spinto a “risalire indietro” fino a Menzogna romantica e verità romanzesca, il saggio d’esordio del francese, Girard proponeva una riflessione sulla morte di Socrate per contrapporvi la dinamica della morte di Cristo e del tradimento di Pietro.

Le affinità tra la condanna a morte di Socrate e la passione del Cristo avevano colpito già i Padri della Chiesa dei primi secoli, e questo confronto era rimasto un topos intellettuale piuttosto ricorrente per tutti i secoli dell’era cristiana: addirittura, nel Cinquecento, un teologo del calibro di Erasmo da Rotterdam arrivava volentieri ad esclamare “Sancte Socrate, ora pro nobis!”. René Girard al contrario riconosceva una superficiale somiglianza tra queste due esecuzioni, certo le due condanne a morte più significative di tutta la cultura occidentale; ma, affinando lo sguardo sulla struttura autentica delle differenti “macchinazioni” che stavano dietro alle condanne capitali di Socrate e del Cristo, Girard le vedeva come due morti quasi contrapposte, almeno rispetto al paradigma del capro espiatorio da lui evidenziato. Ed era proprio l’atteggiamento delle persone che stavano attorno alle due vittime prima del processo e dell’esecuzione - i discepoli di Socrate, gli apostoli del Cristo - ad essere rivelatorio della differenza che sussiste tra le due fini.

“Il rinnegamento di Pietro”, precisava infatti Girard nell’intervista, “non deve essere letto come una riflessione sulla psicologia di Pietro, sulla debolezza personale di Pietro: deve essere letto come la rivelazione del meccanismo del capro espiatorio. Non ne dovremmo avere rivelazione alcuna dal momento che perfino Pietro, il migliore dei discepoli, si unisce alla folla” nel ripudiare gli insegnamenti di Cristo e nel prendere per buona la sua condanna a morte, quasi fosse colpevole. “E questo è molto diverso dalla morte di Socrate. Poiché se si guarda alla morte di Socrate, si vede che il filosofo non soccombe mai al meccanismo del capro espiatorio. Sempre i filosofi vedono che Socrate è innocente e sempre lo difendono contro la città”.

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Una parentesi. Girard, convertitosi al cristianesimo ai tempi della stesura del suo primo libro, ha sempre inteso la sua personalissima “antropologia letteraria” come una forma di apologetica contemporanea: e, come espresso forse nel modo più definitorio in Vedo Satana cadere come la folgore, ha ritenuto il Cristianesimo come la più “matura” delle religioni, proprio perché mostra il meccanismo del capro espiatorio in tutta la sua brutale arbitrarietà. Altre religioni e sistemi di pensiero, in primis quello classico rappresentato dalla cultura greca, quand’anche cronologicamente abbiano sempre di più diminuito l’importanza e la ricorrenza dei sacrifici all’interno dei loro riti cultuali, non sono mai arrivati ad esprimere la verità che il Cristianesimo ha invece incarnato nel corpo stesso del Cristo: la consapevolezza, vale a dire, che la vittima è radicalmente innocente - contrapposta al dato di fatto che, al momento del rito/esecuzione, tutti decidano istintivamente per ritenerla impura, colpevole, nefanda. Solo dopo che il sacrificio è stato compiuto e la vittima giace morta - e anche in questo il Cristianesimo rappresenta un modello e una ricapitolazione essenziale - si consuma la divinizzazione della vittima da parte spesso dei suoi stessi carnefici, assecondando quella polarità etimologica insita nel concetto di sacer.

I vangeli, per la prima e unica volta nella storia delle religiosità occidentali, raccontano la violenza del sacro dalla parte delle vittime: figure analoghe di capri espiatori nella cultura classica, a cominciare dal personaggio tragico di Edipo, sono magari compiante dal Coro e dagli spettatori, ma restano colpevoli dell’impurità che ne causa la morte, oppure l’esilio nel caso dell’eroe sofocleo. I miti classici e il Vangelo cristiano corrispondono in tutto e per tutto, salvo un colpo di coda finale: l’Evangelo è una rivelazione, un’apocalisse che cancella quell’occultamento mitico della violenza arbitraria del sacro. “Invece di trasfigurare, deformare, falsificare e occultare i processi mimetici”, come fanno i miti, “la Resurrezione di Cristo fa entrare tutto quello che da sempre era nascosto agli uomini… l’assassinio fondatore, in cui consiste la genesi della cultura”. Così Girard in Vedo Satana cadere come la folgore.


In realtà, se, come Girard scriveva poche pagine prima, “la struttura della rivelazione cristiana è unica”, anche la morte di Socrate rappresenta una cesura interessante, rispetto al modello girardiano standard. Forse perché non siamo più nel mito, ma nella storia, in un crocevia impervio fra ethos filosofico ed esperienza processuale della giustizia; forse perché appunto passiamo dal sacro dei riti e dei miti al profano della giustizia pubblica ateniese; forse perché i discepoli di Socrate non sono, come gli Apostoli di Gesù, scelti in massima parte tra il popolo, bensì giovani di buona famiglia e abituati dal loro maestro a una ricerca dialettica della verità, e nella congiuntura politica che si consumò ad Atene attorno al 399 a.C. dopo il crollo del regime dei Trenta non sapevano sinceramente da che parte stare; fatto sta che i discepoli di Socrate e in particolare Platone non si ingannarono mai sulla profonda ingiustizia di quando stava accadendo al maestro e, pur “divinizzandolo” o quantomeno idealizzandolo all’estremo nei loro scritti successivi, con il loro dissenso evitarono a Socrate la passività e la solitudine assolute insite nella condizione del capro espiatorio propriamente detto.

“Sempre i filosofi vedono che Socrate è innocente e sempre lo difendono contro la città. Per me questa è la principale differenza tra Platone, che nondimeno è un grande pensatore religioso, e i Vangeli”, continuava Girard il suo ragionamento nel prosieguo dell’intervista. “Il paradosso supremo dei Vangeli è che la rivelazione non dovrebbe mai accadere. E perciò l'opera di Platone non è una rivelazione del meccanismo del capro espiatorio dal momento che la filosofia ne è immune”. Così Girard nel 1996. Ma stanno davvero in questo modo le cose?

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Non è senza rischio, leggere a contropelo delle dichiarazioni rilasciate pur sempre in un’intervista che ha tutta l’apparenza di un colloquio orale, e non il senso statuario di un saggio meditato e messo per iscritto. Eppure, Girard ha sempre dimostrato di apprezzare la forma dialogica: che ha raggiunto vette irripetibili nella conversazione con Benoît Chantre che compone Portando Clausewitz all’estremo, ma che si trova in gran forma anche nell’intervista a cura di Maria Stella Barbieri che costituisce la seconda parte de La pietra dello scandalo. L’intervista apparsa su Anthropoetics è per noi tanto più importante proprio perché fa luce su un passaggio centrale della storia del pensiero occidentale, sistematicamente bypassato da Girard in tutti i suoi scritti maggiori.

C’è da dire che diverse volte Girard aveva affrontato il tema della filosofia platonica, e questo era inevitabile: nessun filosofo, né antico né moderno, aveva attribuito un’importanza - negativa - al concetto di mimesis quanto Platone, presto echeggiato, più positivamente, da Aristotele. Ma “il caso di Platone è strano”, dice Girard in Contro il relativismo, perché il filosofo dell’iperuranio “stabilisce un’ontologia dell’imitazione: ritiene ogni realtà imitativa e, tuttavia, considera l’imitazione umana come insufficiente, e persino pericolosa. Egli finge di disprezzarla, ma ne ha visibilmente paura”, e “non vi è dubbio che questa paura sia legata ai rapporti di rivalità”. La condanna dell’arte in quanto μίμησις μιμήσεως è qualcosa di fin troppo iconoclasta e ancestrale, per non avere un doppio fondo. “Agli occhi di Platone, la maggior parte della poesia, e della mitologia, rappresenta uno sgretolamento mimetico della differenziazione”, proseguì il discorso in Differenziazione e reciprocità, dal momento che “ogni forma d’arte è infatti strettamente collegata con l’indifferenziazione dei miti orgiastici”. E nessuna forma d’arte lo è quanto la tragedia, terreno di scontro privilegiato nel dibattito a distanza tra Platone e Aristotele a proposito della mimesi e della purificazione.

Che Platone volesse tenere fuori la mimesis, almeno ogni forma di mimesi contagiosa, dalla sua città ideale governata da filosofi e tripartita gerarchicamente, questo Girard lo rileva più volte, e lo scandaglia attraverso lo sguardo della sua theoria. Ma se la Repubblica è, dei dialoghi platonici, quello su cui Girard fissa di più la sua attenzione, quel monologo fatale che fu l’Apologia di Socrate resta ai margini della sua riflessione. Ciò è, almeno in parte, paradossale, perché la filosofia platonica prende le mosse, biograficamente, proprio da qui, dallo scandalo per la morte di Socrate: prima, il giovane Platone faceva parte della cerchia degli amici del filosofo, ma desiderava dedicarsi anima e corpo alla politica cittadina. La filosofia non fu un ripiego, ma una reazione, dopo essersi accorto quanto “fosse difficile partecipare all'amministrazione dello Stato, restando onesto”, come Platone stesso rievocò nella discussa e chiacchierata Lettera VII. Con queste premesse, può risultare fecondo andare, con Girard, attraverso Girard - o meglio, benjaminianamente o derridianamente che sia, attraverso un suo silenzio.

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Facta sunt servanda, tanto più che i fatti in questione sono arcinoti: nel 399 a.C., poco dopo la reinstaurazione della democrazia ateniese, il filosofo ambulante Socrate viene pretestuosamente portato in giudizio da tre concittadini, Meleto, Anito e Licone. Le accuse per cui l’anziano viene portato alla sbarra sono esse stesse tre: empietà, corruzione dei giovani, e l’introduzione di nuove divinità e non riconoscimento di quelle tradizionali, in riferimento al misterioso Δαίμων che, a detta di Socrate, guidava la sua vita. Il filosofo dell’agorà però non ebbe peli sulla lingua a dire coram populo che queste accuse erano solo paraventi, rispetto a pregiudizi più antichi che avevano caratterizzato il suo vivere in città: il suo atteggiamento, maieutico e anticonformista ante litteram, gli aveva procurato tanti ammiratori quanti nemici, fino al punto di diventare oggetto di scherno in una popolare commedia di Aristofane.

In cosa, nelle sue premesse, il processo a Socrate può essere accostato ai riti sacrificali studiati da Girard, e in cosa invece ne differisce? Questa semplice domanda può aprirsi a un discorso molto complesso, in virtù dell’indubbia origine religiosa di ogni forma di giustizia e di costituzione politica, anche “laiche” - tanto più che, per un’Atene appena entrata nel IV secolo che contempla tra i capi d’accusa anche l’introduzione di nuove divinità anti-tradizionale, l’aggettivo laico appare quantomeno problematico. Quello a cui è sottoposto Socrate non è un rito nel senso stringente del termine, ma degli antichi rituali può essere visto come una riverberazione dal risultato non prefissato: non serve Carl Schmitt a comprendere l’origine sacrale del diritto e dell’amministrazione della giustizia. Se i riti, però, prevedevano un sacrificio, la giustizia può anche ammettere una dichiarazione d’innocenza: assoluzione che Socrate per poco non ricevette, al termine della prima votazione, ma che paradossalmente riuscì a far ribaltare in una scelta decisa per la pena di morte, quando, al termine della seconda parte del processo, l’assemblea fu chiamata a deliberare tra l’esecuzione capitale o la provocatoria “pena” di essere mantenuto a spese dello Stato, autoproposta da Socrate per ribadire la sua innocenza.

Questi rivolgimenti nel rapporto con la folla esprimono bene un altro punto in comune che la figura di Socrate, almeno per come è stata tratteggiata da Platone nell’Apologia e da tutta la ricca tradizione a venire, condivide con il modello della vittima sacrificale girardiana: il suo carattere polare. Socrate è un personaggio oltremodo divisivo, nella società ateniese del tempo, per un’infinità di motivi diversi: nelle sue autodifese giudiziarie, Socrate attribuisce questo chiasmo tra ammirazione ed astio unicamente alla sua attività dialogica e filosofica en plein air, ma lui stesso sa che non ha giocato a suo favore neanche l’amicizia con il transfuga Alcibiade, o con il tiranno appena deposto Crizia. Se Edipo, nella tragedia sofoclea, passa bruscamente dall’essere stimato da tutta la cittadinanza di Tebe all’esserne esecrato, Socrate ha convissuto per decenni con questo doppio registro: tant’è vero che la votazione sulla sua innocenza o colpevolezza si concluse con 220 a suo favore, e 280 contro, in uno scarto di appena trenta voti. Solo dopo la sua proposta di essere mantenuto nel Pritaneo con i soldi della cassa pubblica, l’assemblea si schiera decisamente a favore della condanna, con 140 a favore e 360 contro: e forse questo mutamento di rotta da parte dell’Areopago lo si potrebbe illustrare anche in riferimento a ciò che le teorie girardiane insegnano, a proposito della psicologia delle masse e della capacità degli uomini in astio di influenzarsi a vicenda.

Rispetto alla cittadinanza di Atene, peraltro, Socrate si trovava in una posizione particolarmente liminare, e questo nutre ulteriormente la possibilità di una lettura almeno in parte girardiana del suo supplizio. Non solo aveva polarizzato la sua audience in un gruppo di discepoli e un gruppo di accesi denigratori - anche rispetto agli stravolgimenti politici del suo tempo, Socrate aveva giocato un ruolo non ambiguo, ma tremendamente super partes. Non allineabile, quindi. Nel corso dell’Apologia, Socrate ricorda orgogliosamente, accanto alla sua partecipazione ad alcune delle principali battaglie della guerra contro Sparta, di essersi rifiutato di compiere un omicidio “su commissione” che gli era stato ordinato dai Trenta Tiranni.

Socrate così si era opposto ai Trenta Tiranni, ma con una sorta di obiezione di coscienza ante litteram, senza partecipare attivamente al loro rovesciamento ad opera di Trasibulo. Nell’Atene del 399 a.C., con tutti i regolamenti di conti che caratterizzano il periodo successivo al rovesciamento di una tirannide, anche questa posizione poco chiara rendeva Socrate al tempo stesso simile e sospetto, alla maggior parte dei cittadini ateniesi. Dire che Socrate fu utilizzato come unico capro espiatorio per tutti i crimini consumatisi durante il regime dei Trenta sarebbe eccessivo, ma concludere che sia stato vittima diretta dell’ansia di purificazione che aveva colto la ri-nata democrazia ateniese è del tutto naturale. Figure così sfuggenti, così inclassificabili, così indipendenti e sfrontate rispetto ad ogni tradizione e prassi non hanno vita facile, nei momenti in cui una comunità deve dividersi nettamente tra bianco e nero. Fu così che la democrazia ateniese arrivò dove la tirannide non era riuscita: ad uccidere Socrate.


Particolarmente suggestiva, in questo senso, è la circostanza che l’esecuzione sommaria che Socrate si era rifiutato di compiere, nonostante le minacce dei Trenta, era un omicidio compiuto in gruppo, perché i Trenta, onde assicurarsi una generale responsabilità di tutti i cittadini agli atti illegali compiuti durante la loro tirannide, ordinavano spesso esecuzioni di questo tipo. Davvero sorprendente che Girard non si sia appigliato a questo dettaglio del testo, per costruirci sopra una delle architetture concettuali a cui ci ha abituato. I compagni di quell’esecuzione sommaria sarebbero dovuti essere altre quattro persone, certo non un’intera massa di concittadini in preda a una “crisi mimetica” - ma omicidi così erano all’ordine del giorno, nell’Atene dei Trenta, e si potrebbe anche dire che, dopo una serie di sacrifici informali, caotici e istituzionalizzati, la condanna a morte del filosofo rappresentò proprio un ritorno all’ordine, e alla prassi schematica della giustizia. Se ci fosse stato qualche errore di forma, rispetto a quanto sancito dalle Leggi della città, nel suo processo, Socrate avrebbe accettato di fuggire dal carcere con l’aiuto di Critone, con la stessa inappellabile logica in virtù della quale si era rifiutato di uccidere Leone di Salamina: invece, Socrate rimase in carcere e bevve la cicuta, in nome del Nomos comune e superiore, che trascende le contingenze di un’accusa falsa e di un giudizio affrettato. A maggior ragione sembra importante affondare lo sguardo nel processo a Socrate, e capire cosa, nel suo bere la cicuta, c’è di sacrificale e di fondativo, e cosa, invece, sfugge a questo modello.

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Ritorniamo all’intervista girardiana per Anthropoetics, e leggiamo tutto il paragrafo, da cima a fondo, per capirne meglio il contesto:

“Questa è la ragione dell'eccezionalità dei testi biblici. In essi si ha una piccola minoranza, un resto, che resiste vittoriosamente al meccanismo del capro espiatorio. Allo stesso tempo, i Vangeli mostrano che i discepoli di Gesù sono quasi risucchiati entro il meccanismo del capro espiatorio. Questa è la ragione per cui il rinnegamento di Gesù da parte di Pietro è uno dei testi più importanti dal punto di vista teoretico, poiché lo stesso Pietro è catturato nel meccanismo del capro espiatorio. Il rinnegamento di Pietro non deve essere letto come una riflessione sulla psicologia di Pietro, sulla debolezza personale di Pietro: deve essere letto come la rivelazione del meccanismo del capro espiatorio. Non ne dovremmo avere rivelazione alcuna dal momento che perfino Pietro, il migliore dei discepoli, si unisce alla folla. E questo è molto diverso dalla morte di Socrate. Poiché se si guarda alla morte di Socrate, si vede che il filosofo non soccombe mai al meccanismo del capro espiatorio. Sempre i filosofi vedono che Socrate è innocente e sempre lo difendono contro la città. Per me questa è la principale differenza tra Platone, che nondimeno è un grande pensatore religioso, e i Vangeli. Il paradosso supremo dei Vangeli è che la rivelazione non dovrebbe mai accadere. E perciò l'opera di Platone non è una rivelazione del meccanismo del capro espiatorio dal momento che la filosofia ne è immune”

L’eccezionalità dei testi biblici è duplice, e in netta antitesi con il mito: da un lato, non c’è un’unanimità violenta che si scaglia contro un’unica vittima, bensì una totalità quasi completa di persecutori, entro la quale magari vengono risucchiati finanche alcuni amici del perseguitato, ma rispetto ad essa sussiste sempre uno scarto, una minoranza dissidente che si allontana non dalla scena bensì dalla scelta del sacrificio. Dall’altro lato, anche grazie a questa minoranza, i Vangeli fanno emergere una verità costantemente nascosta: l’innocenza della vittima sacrificale. Nel mito e nella tragedia, Edipo, benché inconsapevole, è realmente colpevole: Gesù, al contrario, è consapevole e innocente.

In questo chiasmo abituale del sistema di pensiero girardiano, Socrate riveste una posizione su più livelli difforme. Non meno di Gesù, è consapevole e innocente - e al pari di Gesù, è proprio la sua morte a consentirgli, su un altro piano, una “divinizzazione” irrevocabile nella costellazione dei filosofi occidentali. Se non fosse stato condannato a bere la cicuta - se non avesse accettato di buon grado la pena, benché ingiusta, pur di non infrangere la Legge, sempre giusta o perlomeno sottoscritta da tutti i cittadini - di Socrate si sarebbero verosimilmente perdute le tracce. È notorio, il suo rifiuto della scrittura. Grazie alla condanna a morte ingiustamente subita, Socrate ha influito su tutto il pensiero occidentale a venire, inducendo Platone ad abbandonare ogni velleità politica e ad impegnarsi, almeno in un primo tempo, a trasmettere fedelmente, in una forma scritta ma ancora dialogica, gli insegnamenti del maestro. Ma forse anche qui sta una discrepanza tra la morte di Socrate e il modello standard girardiano: Socrate è stato idealizzato, reso immortale simbolo filosofico, dai suoi stessi discepoli, che invano si erano opposti alla sentenza. Nei sacrifici rituali propriamente detti, sono spesso i carnefici stessi, la folla inferocita, a divinizzare ex post la vittima.

C’è però un lato sinistro in questa storia. Un lato che contraddice ulteriormente l’abituale modello sacrificale girardiano, molto più della consapevolezza dei discepoli di Socrate sull’innocenza del maestro. Socrate, de facto, partecipa alla sua esecuzione. È una vittima ancora più atipica di Gesù, che sulla croce almeno si concede di urlare quell’Eli Eli lema sabactani che è il passaggio più umano dei Vangeli. Socrate mantiene la lucidità fino all’ultimo, beve senza esitazioni la cicuta che il boia gli viene a portare nella cella, prova a consolare per quanto possibile i discepoli che, piangenti, hanno invano provato a convincerlo di evadere - e, come ultime parole, chiede a Critone di ricordarsi di fare un sacrificio ad Asclepio. Nietzsche ha avuto il suo facile gioco, a leggere in queste parole un ringraziamento di Socrate al dio della medicina, per averlo guarito dalla “malattia di vivere” - fatto sta che il filosofo dell’agorà muore chiedendo a uno dei più stretti discepoli di sacrificare un gallo agli dèi.

Iniziamo a capire meglio, allora, cosa Girard avverte come estraneo nel sacrificio di Socrate - riusciamo forse a intuire perché la morte di Socrate sia rimasta come uno dei maggiori punti di fuga di tutto il suo opus letterario, quell’episodio della storia culturale d’Occidente di cui ogni altro elemento lascia presagire una trattazione, che invece resta per sempre inevasa. La condanna a morte di Socrate è ingiusta e, benché condotta su un piano giudiziario e non direttamente sacrale, si possono riconoscere nelle modalità dell’accusa, del processo e dell’effettiva uccisione non pochi tratti caratterizzanti l’archetipo del capro espiatorio. Inoltre, la morte di Socrate ha giocato un ruolo del tutto fondativo nei confronti del pensiero occidentale che da essa è sgorgata, se è vero che, fino ai Lumi e oltre, la Western philosophy ha proposto unicamente forme disparate e in opposizione di platonismo. Ma la cicuta di Socrate, a differenza della croce del Cristo, non ha interrotto alcuna catena sacrificale. L’innocenza di quella vittima non ha dimostrato l’arbitrarietà di tutte le vittime. Socrate come singolo individuo, come pensatore, si è tramutato in un mito, anzi in un anti-mito a seguire le ragioni di Girard: ma questo “martire del pensiero” si staglia per eroismo, non per universalità, e nessun velo del Tempio si squarcia al suo spirare. Anzi, in punto di morte Socrate ha rinnovato la fiducia nell’ordine culturale pre-esistente, invocando per sé un sacrificio. Un cristiano avrebbe chiesto l’estrema unzione.

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In realtà, il ragionamento potrebbe essere portato anche oltre - e di nuovo su un piano ideale. Nel farlo, potrebbe esserci utile richiamare en passant le riflessioni su Socrate di un altro maître à penser francese della stessa generazione di Girard, Michel Foucault: il quale, durante i celebrati anni del suo insegnamento al Collège de France, e in particolare nel corso del 1982-1983, Il governo di sé e degli altri, più volte tornò sulla figura del parresiasta. Nell’immaginario filosofico e nella pratica personale di Foucault, il tema della parresia era importante quasi quanto la figura del capro espiatorio nella costruzione concettuale di Girard: e il parresiasta per eccellenza per lui era Socrate. L’Apologia di Socrate, la trascrizione delle sue orazioni di difesa nel corso del processo pubblicata da Platone, è secondo Foucault “il testo che si riferisce a quella situazione in cui, per Socrate, la pratica e l’esercizio della parresia erano la scelta più necessaria e al tempo stesso più pericolosa”, tanto che il filosofo si ritroverà ad essere messo a morte per averla praticata, senza compromessi con la verità anche in sede di processo.

Ma cos’è, esattamente, la parresia? “Uno dei significati originari della parola greca parresia”, spiegava Foucault agli auditori del suo penultimo corso al Collège, “è il dire-tutto’, ma lo si traduce di fatto con le espressioni parlar-franco, libertà di parola etc”. Certo è una “nozione ricca, ambigua e difficile”, una “nozione-ragno” essenziale però per comprendere l’interazione tra potere e sapere nel corso della storia greca. Inizialmente la parresia andava intesa come “obbligo per il maestro di dire al discepolo tutto ciò che è necessario in termini di verità; poi la si ritrova come possibilità, per il discepolo, di dir tutto di sé stesso al maestro”, in una parziale prefigurazione della confessione cristiana. Ma questa concezione generica e generalmente paideutica della parresia trova un’applicazione centrale nella sfera politica, quando “un uomo insorge contro un tiranno e gli dice la verità”: a volte è il precettore ufficiale del tiranno, più spesso è, come Platone a Siracusa, un filosofo alla sua corte ancora incerto dell’opportunità della sua presenza lì, ma desideroso di sperimentare la possibilità di governare l’anima del princeps; ma parresiasta può essere anche un cittadino comune, oppure un filosofo “a piede libero” quale era Socrate tra le vie di Atene, una città tradizionalmente non governata da un tiranno bensì dalla comunità complessiva, e a volte capricciosa, dei cittadini.


Michel Foucault, di pochi anni più giovane di Girard, era certamente inviso al teorico del capro espiatorio, che non ebbe problemi a mettere alla berlina gran parte della filosofia francese del suo tempo. Al pari di Deleuze e Guattari, anche su Foucault ci furono più volte, da parte di Girard, commenti occasionali ma caustici: “il rinnovamento contemporaneo dell’illusione romantica consiste essenzialmente nell’incollarle sotto il naso dei grossi baffi nietzschiani e, in quest’ambito, l’autentico iniziatore fu sicuramente Michel Foucault”, si leggeva nella prefazione della raccolta italiana Il risentimento, e toni simili si trovavano, rivolti al filosofo della Storia della sessualità, anche in diversi dei saggi che compongono La voce inascoltata della realtà. Eppure, è proprio a Foucault che ci conviene rivolgerci, con uno sguardo girardiano - visto che anche per Girard, in questo successore di Freud, rappresentava un crocevia di riflessioni quella “resistenza alla verità” più volte riconosciuta in atto ai danni di Cristo e del cristianesimo. La rivelazione di cui si faceva carico Socrate, la “predicazione” per cui questo parresiasta fu ucciso, era ben diversa dalla rivelazione cristiana, ed era, per così dire, più una rivelazione cognitiva, logica e proto-strutturale, anziché uno svelamento antropoteologico qual è lo “scandalo della Croce”.

Il caso della condanna a morte di Socrate, e in particolare la morte di Socrate riletta in una chiave para-girardiana e con un occhio anche alla passione di Cristo, può essere allora paradigmatico di una svolta epocale nel rapporto tra verità ed espiazione. In un certo senso, la morte di Socrate è la fondazione di un simile rapporto - e, al tempo stesso, l’anticipazione problematica e radicale di uno dei capisaldi impliciti del pensiero cristiano. Quidquid latet apparebit… Forse anche più di uno.

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Della verità si danno strutture - strutture connotate anche storicamente. E uno dei maggiori meriti dell’opera di Foucault, in questa convergente e contemporaneo con un’opera quale I maestri di verità nella Grecia arcaica di Marcel Detienne, sta proprio nell’aver riflettuto a fondo su queste strutture. Foucault ha trattato tanto l’antichità greca quanto l’”età classica” della déraison, fino ad arrivare ai Lumi e oltre: ma, anche se il quarto volume, postumo, della Storia della sessualità arrivava ad affrontare la patristica, possiamo dire che gli anni della fondazione del Cristianesimo siano rimasti fondamentalmente fuori dal suo radar. Le cognizioni di Girard vanno in una direzione opposta: la Preistoria, l’antichità greca e l’inizio dell’era cristiana sono i capisaldi della sua indagine; non mancano escursioni nei secoli e millenni successivi, fino ad arrivare anche all’oggi, ma il fulcro vivente della sua analisi sta proprio nell’opposizione che vede schierato da un lato la falsificazione mitologica, dall’altro lato la rivelazione cristiana. Quella tra Foucault e Girard in materia di verità ed ἀ–λήθεια sarebbe un’impossibile convergenza, considerando la distanza di pensiero e anche le polemiche che sono intercorse tra di loro, eppure su questo punto le loro ricerche conducono percorsi magnificamente paralleli, che sarebbe vertiginoso accostare.

Sulla base della definizione foucaultiana, tanto Socrate quanto lo stesso Gesù potrebbero essere definiti parresiasti, perché entrambi e a più riprese insorgono “contro un tiranno” o un alto sacerdote per dirgli la verità a proprio rischio e pericolo. Questa “scena originaria” continua a rinnovarsi fino ai rispettivi processi, anche se per Socrate la giuria dell’Areopago ha preso il posto del tiranno, e Gesù si trova di fronte a Pilato, più interessato ad interrogarlo che a condannarlo. Ma concentrandoci sui momenti principali della loro predicazione, e non sulle rispettive, tragiche fini, emergono delle precise connotazioni del rispettivo modo di ricerca ed esposizione della verità, da parte di Gesù e Socrate.

Per entrambi, la verità è catartica - e, soprattutto per Socrate, la verità è anche analitica, nel senso originario della parola. Etimologicamente, l’ἀνάλυσις ha a che fare con uno “scioglimento”, una decomposizione che spezzetta il discorso, non diversamente da come faceva Socrate nell’abbattere tutte le certezze e i “bias” dei suoi interlocutori - duemilatrecento anni prima della sua nascita, era già promesso Derrida con la sua decostruzione. Lo studio dei metodi di discorso di Socrate lascia peraltro presagire la sensazione che vi è un che di sacrificale, oltre che di agonale, nella ricerca della verità - e l’affinità tra il sofista e il cacciatore proposta da Platone nel Sofista lancia un’ulteriore lenza in questa direzione. Sacrificio che riguarda tanto gli elementi del pensiero, quanto la modalità dell’interlocuzione, quanto il pensatore stesso, dal momento che Socrate, non diversamente da Cristo, morirà proprio a causa delle sue idee, dei suoi discorsi, del suo atteggiamento esistenziale volto a portare sé stesso e gli altri alla verità.

Vi è però un’importante differenza nella modalità che il Cristo e Socrate hanno di concepire la verità. Una differenza che si riverbera sui rispettivi sistemi di pensiero di cui i due sono i rappresentanti primi, il pensiero greco - ammesso che se ne possa trarre un blocco monolitico - e il pensare cristiano. A dare fede a Platone, Socrate concepiva la sua arte dialogica come una forma di maieutica, e, retoricamente, ricordava spesso la circostanza per cui anche sua madre era stata una levatrice. La verità, forse secondo Socrate, senza dubbio secondo Platone, alberga già nel cuore di tutti noi. In questo, Socrate si riallaccia a una specifica connotazione che si potrebbe dare, nel volgerlo in italiano, al termine greco ἀλήθεια, che in fondo è una litote - “non-oblio”, quindi il ricordare. Platone avrebbe portato al parossismo questa concezione tipicamente greca della verità, e Freud e ancor di più Jung rinsalderanno questa linea di pensiero nel corso del Novecento.

La verità di cui si fa carico, vittima e, con la Resurrezione, conferma la figura del Cristo evangelico è una verità di altro tipo. È una verità innanzitutto apocalittica, come dimostra il passaggio, comune a tutti e tre i Vangeli sinottici, secondo cui il velo del tempio si squarciò al momento del trapasso sulla Croce. È una verità rivelatoria, quale è il significato del termine ἀποκάλυψις in greco: non mira tanto a far ricordare cose dimenticate, quanto a scoprire - letteralmente - e denudare le “cose nascoste sin dalla fondazione del mondo”. Sempre di ἀλήθεια si parla - ma, giocando con le molteplici accezioni che la radice ληθ-/λαθ può avere in greco, è una verità da intendersi più che altro come svelamento. In questo senso, la concezione della verità come svelatezza propugnata da Heidegger in Che cos’è la metafisica?, nel corso L’essenza della verità e ancor di più nel Parmenide è quasi più vicina alla sensibilità cristiana che alla concezione platonica - ma, non per nulla, il filosofo di Essere e Tempo si rifaceva innanzitutto ai presocratici, che rappresentano un ulteriore sviluppo, ancora più arcano, del medesimo problema.


“La verità vi renderà liberi”, ἡ ἀλήθεια ἐλευθερώσει ὑμᾶς. Queste parole, pronunciate da Gesù nel Vangelo di Giovanni, risuonerebbero altrettanto autentiche anche dalla bocca di Socrate. Si coglie in esse un convincimento, forse un bias: un’equivalenza o almeno una conseguenza diretta, tra verità e libertà, il che pone il problema non di poco di una definizione effettiva della libertà. La verità, apparentemente, non ha liberato nessuno, se non nella propria interiorità: che sia questa la dimensione che Socrate cercava e che Platone ha concettualizzato trasponendola però in un iperuranio, e che Gesù, assieme a san Paolo e alla meditatio sui di sant’Agostino, ha voluto dischiudere, per la gioia di tutti i Freud a venire? Allora perché tanto la neonata democrazia ateniese del 399 a.C., quanto i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme attorno al 33 d.C., a questa verità si sono opposti duramente, adoperando tutti i mezzi di un potere innanzitutto secolare? Davvero basta rivelare gli arcana imperii o, ancora più banalmente, l’arbitrarietà su cui si fonda ogni società - e non solo a livello sacrificale - per farla crollare? I Vangeli non hanno avuto questo effetto, e neanche Il disagio della civiltà se è per questo. Sorprendente e quanto mai suggestiva è la cosiddetta “conversione” di Costantino, e paradossalmente giova su un piano apologetico al cristianesimo quell’accusa, più volte reiterata negli ultimi secoli, di aver indebolito dall’interno l’Impero permettendo così le invasioni barbariche - ma se pure il Cristianesimo ha influito sull’Impero e sul suo sostrato sacrificale, una non minore influenza è venuta dalle vestigia di Roma alla Chiesa storica, che nel passaggio dalle catacombe ai pulpiti ha assunto molti dei supposti vizi dell’esecrata, nuova Babilonia.

Il discorso parte da Cristo e da Socrate, dalla loro duplice uccisione che è preludio di uno stravolgimento concettuale e, nel caso del cristianesimo, anche storico; ma, evidentemente, può andare ben al di là di queste due figure, a mostrare, auspicabilmente, come negli ultimi tremila anni sul corpo del pensiero occidentale e della Storia stessa si sono fronteggiate e sovrapposte diverse strutture della verità, con tutti i cambiamenti che esse di volta in volta comportavano su un piano sociale, epistemologico e antropologico. Fra Socrate e Cristo, resta la pregnanza assoluta e feroce di ogni sacrificio fondatore - e in questo chiasmo, tante sono le convergenze quante le alterità.

***

Un ultimo gradino. “Nessuno è più sapiente di Socrate” - questo verdetto dell’oracolo di Delfi venne ricordato da Socrate stesso durante la sua lunga orazione di difesa, ed è rimasto, da allora, parte integrante del suo mito filosofico. Circa la natura ambigua di questo stesso mito si potrebbero pure fare non poche riflessioni, tanto più che il Socrate che si è culturalmente trasmesso fino a noi è una sua ipostasi particolare e idealizzata, la versione platonica del suo stesso maestro: e comunque anche questa versione glorificante di Socrate lascia qua e là emergere, nei vari dialoghi, tratti problematizzabili e occasionalmente manipolatori, forse più di quanto Platone avrebbe voluto. Ma se ci concentriamo sul contesto preciso del presente discorso, una riflessione sull’affinità tra la morte di Socrate e le dinamiche descritte da Girard per i sacrifici espiatori di vittime arbitrarie, può emergere un ulteriore elemento della personalità di Socrate da annoverare in mezzo agli altri “segni vittimari” sopraelencati: la sua inimitabilità.

“Un altro simile a me non sarà facile che nasca, o cittadini. Perciò, se mi date retta, dovete assolvermi”. Il vecchio filosofo lo dice molto candidamente, di essere impareggiabile. In tutti i dialoghi “di Socrate” o con Socrate che Platone ci ha tramandato, dall’Apologia al Fedro al Critone fino ad arrivare a testi meno biografici e più concettuali come il Simposio o la stessa Repubblica, Socrate sa di essere un unicum - sa esserlo, se vogliamo. Paradossalmente, proprio nel Simposio non suona stridente l’elogio sui generis che gli tributa il suo discepolo e amante Alcibiade, paragonandolo a un Sileno: una figura mitologica assimilabile a quella del satiro, di cui tutto si può lodare se non la bellezza. I Sileni sono brutti, quasi mostruosi ma, venduti come statuette nei mercatini, rivelano al compratore un’immagine divina custodita al loro interno. Per questo Socrate è un Sileno - una bella parafrasi per dire “maestro”, con una sfumatura superbamente erotica.

Nel riferimento ai Sileni, Alcibiade e Platone sfiorano un universo di discorso, quello dionisiaco, in cui non ci possiamo inoltrare, ma che pure risuona sinistro, e pertinente, rispetto ad ogni discorso sacrificale. Concentriamoci però sul verdetto dell’oracolo di Delfi, su quest’elogio del Sileno e su quella curiosa definizione di atopos, “strano” o meglio “non localizzabile” con cui Platone tratteggia Socrate sia nel discorso di Alcibiade nel Simposio che in un altro passo del Teeteto in cui il maestro parla in prima persona.

In un’ottica girardiana peraltro, Socrate ha compiuto un ulteriore “errore”, una vertiginosa oscillazione che lo ha portato presto a rivestire segni vittimari: Socrate si è proposto come modello, e neanche tanto “fra le righe”. Non c’è peggior rivale di un emulo, diceva Calasso, e non c’è peggior emulo di un discepolo, che non riesca a superare il maestro. Nell’Apologia di Socrate, il passo con cui ciò emerge più chiaramente è proprio il passaggio che riguarda le conseguenze del pronunciamento dell’oracolo di Delfi: dopo aver appreso di essere, secondo il dio, il più sapiente degli uomini, Socrate invano provò a interrogare i più stimati politici, poeti e artigiani della città, quasi per confutare il parere del dio. Ma tutte le volte, Socrate ne era rimasto deluso: “in ogni modo, mi parve di essere più sapiente di quest’uomo” che di volta in volta aveva incontrato, “almeno in questa piccola cosa, ossia per il fatto che ciò che io non so, neppure ritengo di saperlo”.

È in questa gustosa posizione, quella di colui che sa, perché sa di non sapere niente, che Socrate invita i giovani e tutti gli ateniesi a seguirlo, in nome del supposto verdetto del dio. Verdetto di fronte al quale Socrate cerca di rimuovere ogni vanità. “Il dio sembra che parli proprio di me Socrate, e invece fa uso del mio nome, servendosi di me come di esempio, come se dicesse questo: ‘o uomini, fra di voi è sapientissimo chi, come Socrate, si è reso conto che, per quanto riguarda la sapienza, non vale nulla’”. Eccola qui, la paradossale mimesis, la sua possibilità, il suo punto di fuga. Quella a cui il dio e/o Socrate invitano gli altri uomini è un’imitazione ex negativo, un’imitazione quasi rinunciataria: un’imitazione, pertanto, che rimuove ogni rivalità e competizione, - per dirla alla girardiana, ogni escalation mimetica. Forse Socrate in punto di morte perpetua la fedeltà tradizionale ai sacrifici, ma con questo principio del “non sapere niente” indica piuttosto distintamente una via che porti Atene fuori dalle sue tradizionali rivalità. Socrate si tira fuori dalla mimesi negativa, nello stesso momento in cui si pone come modello positivo. Il fatto che almeno la parte iniziale della “predicazione” di Socrate sia avvenuta nell’Atene della seconda metà del V sec., culturalmente scossa e a volte ammaliata dai sofisti e dalle loro gare di bravura retorica, non fa altro che rafforzare la particolarità di questa posizione.

Un ulteriore paradosso emerge da una particolare riga del testo: Socrate è inimitabile perché è già stato imitato. Socrate è inimitabile come origo di un determinato modo di agire, di pensare e di rapportarsi agli altri uomini della città ma, proprio perché potenzialmente anarchico, pronto a mettere in discussione ogni prassi e tradizione consolidata, questo nuovo mos deve essere fermato prima che si diffonda veramente. Cosa che sta già accadendo, per ammissione dello stesso Socrate: “per giunta”, aggiunse durante la sua prima orazione giudiziaria, “i giovani che mi seguono di loro spontanea volontà, quei giovani che più di tutti hanno tempo libero e che sono figli dei più ricchi, gioiscono nell’ascoltare come questi uomini vengano da me sottoposti ad esami, e più volte essi stessi mi imitano, e quindi cercano di sottoporre ad esame anche altri”. Socrate è unico, e quindi inimitabile, ma il suo modello di parresia e interrogazione si sta diffondendo mimeticamente tra i giovani della città. Anche per questo va fermato: Socrate è contagioso, e rischia di provocare lui stesso, paradossalmente, una crisi mimetica, non rivalitaria, ma del tutto smascherante nei confronti delle ipocrisie, delle tradizioni e della retorica che caratterizzava la vita cittadina.

A proposito del personaggio di Socrate, e della sua eventuale consapevolezza mimetica, vale forse la pena riprendere una delle parole più pregnanti dei vangeli, quella di skandalon su cui Girard stesso si è tante volte cimentato. “Derivato da skazein che significa zoppicare, skandalon indica l’ostacolo che respinge per attirare e attira per respingere”, si leggeva ne Il capro espiatorio. “Non si può inciampare su questa pietra una prima volta senza tornare sempre ad inciampare su di essa, perché l’incidente iniziale e quindi quelli successivi la rendono sempre più fascinatrice”. Per questo motivo, nello scandalo si può cogliere, secondo Girard, “una definizione rigorosa del processo mimetico”.


Socrate è stato scandaloso in due sensi: in quello comune, moderno del termine, per cui Socrate ha provocato grandi dibattiti, polarizzazioni e reazioni molto contrastanti in città, durante i decenni della sua attività pubblica, e nel senso originario, evangelico dell’espressione. Socrate è stato un ostacolo, tanto più difficile di evitare dal momento che, con la sua ironia, metteva in scena una forma di mimesi molto particolare e violenta, quasi una parodia con cui dapprima fingeva di dare ragione al suo interlocutore, salvo poi far emergere violentemente la vacuità del suo discorso. Tutti volevano essere come Socrate, o perlomeno sentirsi approvati da lui, eppure era sempre Socrate a reggere le fila del discorso, e a ribaltare in favore del suo “io so di non sapere niente” qualunque ragionamento. Dall’altro lato, e strictu sensu, la sua morte è diventata, grazie all’abilità letteraria e alla fedeltà indefessa del discepolo, il sacrificio fondativo di tutto il percorso platonico, riverberato, in termini ancora più vicini al modello girardiano, anche nell’assassinio dell’unico “vedente” al termine del Mito della Caverna. Verrebbe quasi da dire che Platone è stato per la filosofia occidentale ciò che san Paolo ha rappresentato per il cristianesimo, se non fosse che, nel primo caso, il discepolo ha saputo affrancarsi dal maestro nella fase matura della sua vita, e anche quando continua a mettergli in bocca teorie politiche od ontologiche avvertiamo vividamente che il carattere di persona loquens di questo Socrate platonico.

Ecco perché Socrate è così vicino al modello di Cristo, eppure così distante. Come due asintoti, Socrate e Cristo hanno rappresentato, con la loro morte sacrificale fondatrice di nuovi sistemi, un crocevia assoluto della cultura occidentale, calcando vie parallele. Una però porta all’idealismo, alla theoria delle idee, verso un iperuranio, che Nietzsche non a torto imputava di rappresentare una fuga da questo mondo. L’altra, non meno trascendente, impugna saldamente il fattore religioso, e, col suo fare escatologico, non teme di rivelare le proverbiali “cose nascoste” sin dalla fondazione del mondo: non ultima, l’essenza arbitraria del meccanismo espiatorio. Non è questione di meglio o peggio: quella differenza che passa tra Socrate e Cristo è la cifra della differenza tra verità greca e verità cristiana, tra una certa soglia di svelatezza e una determinata modalità di svelamento.


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Indicazioni bibliografiche:


Roberto Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano, 1994.

Michel Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al Collége de France (1970-1971). Seguito da "Il sapere di Edipo", Feltrinelli, Milano, 2015.

Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al College de France (1982-1983), Feltrinelli, Milano, 2015.

René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1992.

René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1999.

René Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano, 2001.

René Girard, Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell'uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.

René Girard, La pietra dello scandalo, Adelphi, Milano, 2004.

Martin Heidegger, Che cos'è la metafisica?, Adelphi, Milano, 2001.

Martin Heidegger, L'essenza della verità. Sul mito della caverna e sul "Teeteto" di Platone, Adelphi, Milano, 1997.

Platone, Tutti gli scritti - a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2000.

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