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Verso un'altra teoria del partigiano | 4.3: Dal nemico interno al nemico esterno (1) - Sieyès e la razionalizzazione giacobina



Con Rousseau, quindi, il razionalismo politico intrinseco ad un’idea di sovranità costruita secondo il modello della dittatura commissaria, il tentativo ultimo di mediazione tra legge universale e potere particolare, raggiunge il suo punto critico, il suo limite concettuale: resta tuttavia irrisolto il nodo della formulazione di una teoria della realizzazione del diritto in una situazione determinata dal nulla normativo.

L’obiettivo teoretico e genealogico di Schmitt resta pertanto invariato: se la forma politica non può essere desunta esclusivamente dalla limpida astrattezza della ragione, per quanto, come si è visto, in epoca illuminista, essa definisca l’orizzonte stesso della filosofia giuridico-politica e acquisti carattere pedagogico-formativo nei confronti della società, occorre guardare altrove per meglio mettere in evidenza la consistenza di quel «centro oscuro» costitutivo della forma politica.

Il mito illuminista della Ragione, paradossalmente, allontana la modernità dalla possibilità di realizzare in questo mondo una politica capace di rappresentare, di mediare “dall’alto”, l’idea di diritto sempre assente (perché in analogia con una trascendenza che è propriamente al di là del diritto); anzi, secondo Schmitt, è proprio nel disperato tentativo di ricostituire una legalità in grado di incarnare concretamente la legittimità (una coazione all’ordine che sia al contempo dotata di auctoritas, secondo il lessico usato da Galli), che la modernità finisce nuovamente per incontrare il nucleo contingente e irrazionale del potere (cioè, di nuovo, l’insuperabilità del concetto del “politico” nella formazione della soggettività sovrana, con il suo portato di responsabilità rispetto alla violenza dei processi di esclusione/inclusione, cioè di definizione di amico e nemico).

Assurgendo ad unico discorso effettivamente dotato di legittimità, l’impianto illuminista della ragione opera la radicale esclusione della trascendenza divina quale modello formativo dell’unità politica, con la conseguenza di attribuire unicamente al popolo l’operatività decisiva per la realizzazione del diritto. Ed è proprio nell’illusione prometeica di supplire artificialmente al vuoto lasciato dall’assenza di trascendenza che Schmitt ritrova l’origine non razionale della ragione moderna, mentre il mito suddetto diventerà utile a purificare, celando discorsivamente, il lato rimasto in ombra del nesso tra potere costituente e dittatura sovrana rivoluzionaria: un lato che, come abbiamo già avuto modo di vedere studiando a fondo Rousseau, custodisce una strutturale e profonda parentela con il sacro inteso come dispositivo di immunizzazione comunitario. In questo snodo epocale, cioè nell’esigenza di creare una nuova soggettività sovrana capace di informare l’immanenza una volta smarrito ogni produttivo riferimento alla trascendenza, Schmitt vede precisamente il definitivo e drammatico sfondamento della modernità.

Abbiamo evidenziato nel capitolo precedente in che modo la dittatura commissaria abbia una natura specificamente reattiva: il dittatore, cioè, riconosce come normative delle regole giuridiche che costituiscono il fondamento legale dello Stato e suppone, al contempo, che l’avversario non le riconosca come valide. «La dittatura commissaria sospende in concreto la costituzione per difenderne l’esistenza»(1): al centro della questione è riconoscibile la problematica dialettica tra norma del diritto e regole tecnico-pratiche che presiedono all’azione per realizzarlo. In altri termini, la dittatura commissaria si realizza propriamente come commissione d’azione avente lo scopo di ristabilire la situazione normale che, sola, può consentire alla norma di avere vigore effettivo. Quando la costituzione viene momentaneamente sospesa incontriamo quell’eccezione concreta a partire dalla quale la decisione realizza la sovranità: solo in queste specifiche circostanze, definite peraltro dalla costituzione momentaneamente sospesa, il dittatore riceve la sua commissione d’azione che significa, per esempio, stabilire puntualmente se un gruppo di cittadini possa essere trattato o meno come una organizzazione “nemica” o formata da “ribelli” privi di diritti.

Riassumendo (a beneficio della discontinuità che verrà a crearsi con la dittatura sovrana), tre risultano quindi essere le caratteristiche principali della dittatura commissaria: una temporaneità ben definita; il legame con una costituzione vigente che deve essere protetta nella e dalla situazione di crisi che apre nell’ordinamento un eccezionale vuoto di legittimità; una commissione d’azione concessa da un potere costituito e normato dalla costituzione stessa.

Nella prospettiva schmittiana, l’essenza commissaria della dittatura, quale tentativo tecnico-razionale di risoluzione delle guerre civili di religione, diviene uno dei punti paradigmatici che strutturano l’intera concettualizzazione e realizzazione della sovranità moderna: nello specifico quello della risposta concreta alle sfide e ai rischi che ogni transizione da un’epoca all’altra porta con sé (elemento sempre unito, chiaramente, al lato ordinativo co-implicato nella decisione sul caso d’eccezione, l’obbligo inevitabile di creare una forma sovrana capace di realizzare l’idea assente del diritto).


La dittatura sovrana, al contrario di quella commissaria, «vede in tutto l’ordinamento esistente uno stato di cose da rimuovere completamente con la propria azione. Essa non sospende una costituzione vigente facendo leva su di un diritto da essa contemplato, e perciò stesso costituzionale, bensì mira a creare uno stato di cose nel quale sia possibile imporre una costituzione ritenuta come quella autentica. In altre parole, la dittatura sovrana si richiama non ad una costituzione già in vigore, ma ad una ancora da attuare»(2).

Il fatto di essere esercitata da un potere costituente, ossia da un potere che, pur rimanendo irrappresentabile e quindi mai esplicitamente riconosciuto, sta di fatto a fondamento dell’ordinamento giuridico, è ciò che, secondo Schmitt, differenzia la dittatura sovrana dal puro arbitrio dispotico. L’argomentazione schmittiana raggiunge qui la soglia dell’aporia francamente indistricabile: l’idea cioè di una legittimità priva di legalità, pura energia politico-polemica che, hegelianamente, è immediatamente coscienza che pone e autocoscienza che si oppone, senza che vi sia alcuna mediazione possibile perché, in fondo, tale energia altro non è che il ribollire magmatico di una endemica crisi d’indifferenziazione, tanto più temibile quanto più corrispondente all’anonimato e al desiderio d’identificazione tipico della folla(3). La dittatura sovrana come espressione del potere costituente diviene per Schmitt il punto culminante dell’epoca moderna: questo perché nella dittatura sovrana il razionalismo dell’Aufklarüng conosce la sua ultima verità rovesciandosi e scoprendo l’abisso delle grandezze irrazionali da cui la politica origina.

Se è vero che ogni dittatura implica una commissione, occorre però capire se commissione e sovranità siano effettivamente conciliabili e fino a che punto possa essere definita antitetica la dipendenza da un mandato rispetto al concetto di sovranità. Tornando per un momento ad Hobbes, autore paradigmatico per la prospettiva genealogica con cui Schmitt decostruisce il razionalismo politico della modernità, fa riflettere il modo in cui, per il giurista tedesco, la teoria della sovranità formulata dall’inglese già custodisca le contraddizioni concettuali che attendono lo scatenamento rivoluzionario per emergere: Schmitt, infatti, ascrive l’architettura sovrano-rappresentativa di Hobbes alla fattispecie della dittatura sovrana (nello specifico, con delega assoluta); ciò significa che, anche se la dittatura sovrana è interpretata come commissione del potere costituente, in tale commissione emerge drammaticamente l’urgenza di una rappresentazione creatrice di forma. Quest’ultimo rimane un aspetto fondamentale da tenere sempre in considerazione perché significa che, per Schmitt, la modernità, anche nel suo sconvolgimento, non è mai pura deriva entropica, bensì l’ennesima testimonianza di quanto costitutivo sia il nesso, insieme aporetico e necessario, tra eccezione e forma. Se, in altre parole, collochiamo tale nesso nella questione aperta dalla possibilità concettuale della dittatura sovrana, dovremo parlare allora di come l’anarchia del potere costituente implichi necessariamente una tensione verso l’arché. Il lato anarchico dell’eccezione originaria, da cui scaturisce il dramma della decisione propriamente politica, tende sempre in Schmitt a ricercare un consolidamento nella forma, una cristallizzazione che realizzi l’indefinibile e illimitata potenza costituente, la quale, altrimenti, rimarrebbe pura virtualità priva di attualizzazione(4).

Oltre alla coazione all’ordine, l’altra inevitabile questione rinvia all’identità del potere costituente: in altri termini, occorre chiedersi chi effettivamente incarni la legittimità senza legalità espressa dal potere costituente, se il popolo o il dittatore sovrano decidente e rappresentante. Per gettare luce sul problema Schmitt fa un passo indietro, tornando ad una polarizzazione concettuale che abbiamo già analizzato in precedenza: infatti, riprendendo temi presenti nella letteratura monarcomaca, Schmitt mostra come sia «pensabile che il detentore del potere statuale renda se stesso dipendente senza che per questo il potere, dal quale si rende dipendente, diventi sovrano costituito e senza che, d’altro canto, scompaia ogni altra istanza terrena, come avviene quando si fa dipendere il sovrano da Dio»(5) (e ciò nella misura in cui, per esempio nella Politica di Althusius, persino laddove si parla di potestas constituens in opposizione a potestas constituta, rimane invariato il principio secondo cui il popolo è a sua volta costituito da Dio (6)).


Ma con il pensiero di Rousseau prima e di Sieyès poi, la dittatura sovrana esplode sulla scena storica con un potenziale di energia politica differente perché, contemporaneamente, approda ad autocoscienza quell’entità non razionale e mai totalmente razionalizzabile che è il potere costituente del popolo (Sieyes, ovviamente, parlerà in maniera più specifica e con preciso intento politico-polemico del Terzo stato come vero rappresentante della Nazione): un popolo che, tuttavia, in un orizzonte nel quale la Ragione ha sostituito la stabilità e la distanza della trascendenza divina, può realmente riconoscersi solo nell’esuberante e immanente dinamismo della sua attività creatrice (secondo un movimento che, prometeicamente, oppone all’armonia della creazione divina, di cui la lex naturalis era traduzione, la speculare e scandalizzata controcreazione della creatura che desidera attestare la propria emancipazione e ambisce chiaramente a superare, a perfezionare, il modello).

L’entrata in gioco di questa irrappresentabile moltitudine, dotata di una legittimità che coincide con la sua stessa potenza, sconvolge le forme politiche del razionalismo moderno, o meglio, costringe quest’ultimo a torcersi su se stesso e a guardare il luogo abissale della sua scaturigine: non esiste la semplice deduzione della forma costituzionale e di una prassi politica derivante da una teoria ben fondata; esiste solo la radicale contingenza della decisione che richiama l’ordinamento al nulla normativo del suo fondamento. Il potere costituente del popolo, cioè la sovranità popolare della democrazia rivoluzionaria, è quindi, per Schmitt, quel soggetto politico informe in grado di abitare quell’eccezione concreta offerta dalla crisi dell’Ancien Régime, non solamente in chiave giuridica ma in un senso politico-esistenziale, con la conseguenza di portare all’estremo il problema della realizzazione effettuale del diritto che, a questo livello ‒ ed è questa la sostanza della dittatura sovrana ‒, significa la creazione di un nuovo assetto costituzionale, o meglio, di infiniti assetti costituzionali sempre in divenire, secondo una prospettiva fedele all’illimitata potenza magmatica che risulta essere qualità specifica del potere costituente (7).

Dice infatti Schmitt: «Il popolo, la nazione, forza originaria di ogni entità statuale, costituisce organi sempre nuovi. Dall’abisso infinito e insondabile del suo potere sorgono forme sempre nuove, che essa può infrangere quando vuole e nelle quali essa non cristallizza mai definitivamente il proprio potere. Essa può esprimere quando e come vuole la propria volontà, il cui contenuto ha sempre il medesimo valore giuridico del contenuto di un dettame costituzionale; può quindi intervenire quando e come vuole con la legislazione, la giurisdizione o atti puramente fattuali. Essa diventa il soggetto illimitato e illimitabile degli jura dominationis, non necessariamente da circoscrivere al caso di emergenza. Non è mai autocostituentesi, ma sempre costituente altro da sé; perciò il suo rapporto giuridico con l’organo costituito non si pone mai in termini di reciprocità»(8).



Cerchiamo di ricavare dalla geologia le giuste immagini per comprendere quello che Schmitt propriamente intende quando parla della relazione che intercorre tra potere costituente (l’identità irrappresentabile, tanto dell’assoluta trascendenza di Dio quanto dell’assoluta immanenza del popolo, che sempre custodisce, però, la piena fonte di legittimazione politica) e potere costituito (la Costituzione e l’articolazione rappresentativa e legale del suo potere effettivo): la differenza tra un’eruzione vulcanica di tipo effusivo e quella di tipo esplosivo può venirci in soccorso. In entrambi i casi è riconoscibile dapprima un momento distruttivo, caratterizzato però da condizioni molto differenti: per avere un’eruzione effusiva il magma che emerge dal cratere sulla superficie terrestre o dalle fratture della crosta distribuite lungo i fondali oceanici ha previamente espulso i gas comunemente contenuti in esso, in modo che, con tale abbassamento di pressione, l’eruzione non abbia carattere esplosivo e sia meno distruttiva; un’eruzione di tipo esplosivo è provocata invece dall’altissima pressione generata dalla quantità di gas contenuti nel magma e dall’interazione con l’acqua presente nel suolo: la pressione è così elevata da spingere il magma ad esplodere violentemente attraversando il mantello di roccia.

Il magma, nel caso di una eruzione effusiva, si converte quindi in colate laviche che scorrono poi come fiumi più o meno viscosi che, con il loro percorso, donano al vulcano una forma meno aspra, generando un declivio più dolce attraverso il progressivo raffreddamento del materiale magmatico. Al momento distruttivo, in cui il magma liquida la crosta esistente e fuoriesce sotto forma di lava, segue dunque il momento costruttivo, costitutivo cioè di nuova crosta terrestre: ciò è particolarmente evidente pensando ai basalti che formano la crosta oceanica strutturante i fondali marini perché, in questo specifico caso, il magma solidifica molto velocemente a contatto con l’acqua freddissima delle profondità, rivelando così il lato espressamente costruttivo dell’eruzione effusiva.

L’eruzione esplosiva, al contrario, è sempre in qualche modo caratterizzata da una qualche forma di blocco del cratere che impedisce il rilascio dei gas contenuti in un magma già particolarmente viscoso (tale da impedire il rilascio graduale delle sostanze gassose): quando il tappo che occlude il cratere viene fatto saltare dal sopravvenire del magma contenente il gas parzialmente disciolto, la pressione viene tutta rilasciata in un solo momento. Da ciò consegue che, dalla soluzione, il gas fuoriesce violentemente, come l’innalzarsi della polvere dopo il crollo di un impressionante edificio, in una sorta di eruzione secondaria ancora più distruttiva della prima (contraddistinta, invece, dalla detonazione del cratere con il relativo sparpagliarsi di lapilli, polvere e materiale piroclastico): la caratteristica nuvola si erge allora nel cielo raggiungendo chilometriche altezze e collassando poi a velocità strabiliante, così da creare una cascata di materia vulcanica bollente che dissolve qualsiasi cosa trovi sulla sua strada.

Nel caso dell’eruzione esplosiva, quindi, al momento distruttivo non ne segue uno propriamente costruttivo, nel senso che non vi è immediata creazione di nuova, solida, crosta terrestre ma il tutto rimane legato alla vertigine suggerita dalla natura illimitabile, indistinguibile e dotata di un’energia potenziale incalcolabile della nube, quasi fosse il preciso specchio di quella liquida indistinzione contenuta nella camera magmatica: il margine per una cristallizzazione stabile sarà conseguente all’opposizione che tale energia finirà per incontrare.


Nello schema decostruttivo attraverso il quale Schmitt ricostruisce, secondo una diversa prospettiva genealogica, la modernità e il suo destino, a Sieyès è attribuita la paternità dell’accelerazione decisiva: nel suo scritto dedicato al Terzo stato viene chiaramente tematizzato il fatto che non possa darsi potere costituito capace di porsi al di sopra della Costituzione, proprio perché essa ne è il fondamento. Tutti i poteri costituiti si trovano quindi di fronte ad un potere costituente che è anche la fonte della Costituzione: tale legittimità è quindi dotata di un plusvalore giuridico precisamente nella misura in cui essa non è soggetta alla Costituzione(9). Essendo, al contrario, soggetto della Costituzione, risulta che, per il potere costituente, sia inapplicabile qualsiasi coercizione o forma giuridica autolimitante: pertanto «il popolo, in quanto titolare del potere costituente, non può imporsi dei vincoli ed è sempre autorizzato a darsi la Costituzione che più gli pare conveniente»(10).

Bandita la possibilità di un plusvalore giuridico conferito dalla trascendenza divina, il soggetto che fa del potere costituente il concetto teologico-politico eminente dell’immanenza è dunque in primo luogo il popolo che, nella trattazione di Sieyès, prende il nome di Nazione (è fondamentale tenere a fuoco la continuità che lega la teorizzazione monarcomaca del popolo nel diritto di resistenza al sovrano ingiusto e iniquo, ampiamente tematizzato in precedenza, alla declinazione che di esso viene offerta in Che cos’è il Terzo stato). La decisione originaria del popolo in quanto potere costituente, in quanto cioè autentico custode della Costituzione, è quindi la rivoluzione, la quale ha come obiettivo immediato l’integrale distruzione dell’attuale ordinamento giuridico, vissuto precisamente come “impedimento” al libero esercizio del potere costituente. L’assetto giuridico costituzionale, il potere costituito articolato secondo forme e competenze specifiche e, soprattutto, la sedimentazione storica degli squilibri di potere, corrisponde in questo caso al tappo di roccia che occlude il camino vulcanico.

«La Nazione è sempre nello stato di natura»(11), riferisce Schmitt riportando un motto di Sieyès; tale concetto, tuttavia, non è in questo caso da ricondurre alla posizione di uno Stato sovrano nello scacchiere internazionale, contesto in cui quest’ultimo viene a relazionarsi con altri Stati sovrani secondo norme regolate dal diritto internazionale. Sieyès, invece, con tale frase genera una sorprendente equivalenza: il diritto naturale esercitato, nello stato di natura, dalla somma degli individui, isolati e separati (condizione originaria caratterizzante la riflessione sullo stato di natura in tutta la modernità), diviene diritto naturale della comunità senza che vi sia rappresentanza alcuna(12). Il corpo mistico della Nazione, già interamente presente nella sua invisibile virtualità, unito nella sua disunione ma comunque incostituibile e di principio irrappresentabile nella sua totalità, è propriamente quell’identità costituente che necessita di essere rappresentata scardinando l’ordinamento giuridico che la rende invisibile. In questione, dunque, è il «rapporto della Nazione con le proprie forme costituzionali e con tutti i funzionari che agiscono a suo nome»(13): ecco allora che, desume Schmitt parafrasando Sieyés, «la Nazione è unilateralmente nello stato di natura, ha solo diritti e niente doveri»(14); ma da ciò consegue che «il pouvoir constituant non è vincolato a nulla, mentre i pouvoirs constitués hanno solo doveri e niente diritti»(15).



Il potere costituente si configura quindi come quel concetto che, concretamente e più di ogni altro, ci avvicina al problema abissale della realizzazione del diritto, la cui risoluzione è ormai interamente responsabilità di un razionalismo giunto a definitiva maturazione. Quest’ultimo, scivolando dal versante metafisico a quello pedagogico-formativo, segnando un ulteriore passo nel processo di secolarizzazione, agisce nella convinzione che il nuovo orizzonte di neutralizzazione politica del conflitto sia transitato dal piano religioso a quello morale, cioè da Dio, dilaniato dalle lotte confessionali, all’Uomo: l’obiettivo, al contempo privato e pubblico, è quello dell’emancipazione della specie umana dalla propria minorata e servile condizione. Alla capacità rischiarante della Ragione è deputata la possibilità di convertire in forma le forze irrazionali della Storia.

Occorre quindi chiedersi: quale dispositivo realizza e dona forma al potere costituente? In quale modo l’identità irrappresentabile del popolo, della Nazione, può trovare rappresentazione in una forma costituzionale? La chiave del nuovo dispositivo di sovranità (e ciò è vero ripercorrendo la storia di ogni dispositivo atto ad imbastire l’orizzonte di visibilità e di enunciabilità come campo di funzionamento di un dato sistema sapere/potere) risulta ovviamente invisibile a coloro che al dispositivo sono soggetti proprio perché quest’ultimo funziona da perno per il movimento che orienta l’identità alla rappresentazione, che attualizza cioè la virtualità potenziale custodita dal mito della Nazione in vista di una rinnovata visibilità, secondo una funzione analoga al punto cieco dell’occhio che rende possibile la visione. Nella traiettoria intellettuale inaugurata con La dittatura fino al monumentale Dottrina della Costituzione, scivolando per i testi folgoranti dedicati al rapporto tra parlamentarismo e democrazia(16), Schmitt coglie che tra identità e rappresentazione deve agire un ulteriore, doppio, processo: quello di identificazione.

Il nodo che collega potere costituente e sovranità popolare (che, per Schmitt, è la vera sostanza della democrazia non limitabile alla mera dimensione procedurale cara invece al liberalismo) quale sua espressione storica, manifesta in maniera ultimativa tanto il lato eccezionale quanto quello ordinativo della politica moderna. Il lato eccezionale della democrazia consiste, per Schmitt, in qualcosa di molto diverso dalla generica e “privata” uguaglianza di stampo liberale; la democrazia come sovranità popolare realizza la sua verità nella piena identità di governanti e governati, di Stato e popolo: l’onnipotenza costituente del popolo sovrano secolarizza completamente l’argomento teologico secondo cui ogni autorità deriva in ultima analisi da Dio. L’immanenza brutale e immediata di questa volontà soppianta ogni possibilità di mediazione razionale e dissolve, a tutta prima, qualsiasi espediente costituzionale e istituzionale in grado di dare forma e rappresentare.

D’altra parte, non esiste dispositivo sovrano in grado di sostenersi ed insieme vigilare in maniera responsabile e continuativa sull’eccezione, sulla rivelazione della propria insuperabile contingenza che costantemente rimanda all’infondatezza e alla violenza della propria origine: per adempiere tale compito ordinativo, per realizzare quella coazione all’ordine intrinseca alla decisione politica risolutiva della crisi rivoluzionaria, non è sufficiente il rinnovamento delle forme istituzionali, occorre piuttosto una dittatura pedagogico-formativa in grado di trasformare l’individuo in cittadino, di modo che la rappresentazione sovrana si realizzi prima di tutto in un civismo onnicomprensivo in grado di “riversare nella pubblicità” il privato del cittadino(17). Per questo motivo Schmitt può sostenere in maniera forse provocatoria ma radicalmente consequenziale come la dittatura non sia in realtà l’opposto della democrazia, vale a dire della sovranità popolare, ma, anzi, la sua conseguenza più radicale.


Quando la crisi rivoluzionaria deflagra il tappo secolare costituito dall’Ancien Régime, il magma del potere costituente non può che generare, quantomeno fino agli anni convulsi del Direttorio, un’eruzione di tipo esplosivo: dal 1789 fino al ritorno, mai definitivamente pacificato, del principio monarchico post Napoleone, la nube scaturita dall’eruzione travolge la storia di Francia con una significativa serie di mutamenti costituzionali generati a partire dagli “avversari concreti” che, volta per volta, la potenza costituente del popolo, identificatasi in una rappresentazione mai definitiva, si trovò costretta ad affrontare, senza che vi fosse mai una stratificata sedimentazione della forma costituzionale.

Sieyés, dopo essere stato tra i più lucidi sintomatologi delle contraddizioni che avevano condotto l’Ancien Régime alla crisi definitiva (senza mai dimenticare Tocqueville che, come si sa, procede poi in direzione contraria proprio perché interpreta l’ascesa e l’affermazione onnipervasiva degli ideali di eguaglianza come l’esplodere di un’indifferenziazione liberticida e tirannica), alla soglia della guerra civile rivoluzionaria, diviene senza dubbio l’ispiratore della prima risoluzione dell’epocale crisi d’indifferenziazione. È allo scopo di esercitare il proprio potere, allo scopo cioè di realizzare il potere costituente della Nazione, che il popolo dà vita alla dittatura sovrana dell’Assemblea legislativa, finalizzata alla creazione del nuovo ordine politico rivoluzionario, capace cioè di neutralizzare i conflitti e le contraddizioni del precedente regime.

Mantenendosi al di qua del radicalismo giacobino (il quale, tuttavia, nella prospettiva di Schmitt non fa altro che portare all’estremo le implicazioni contenute nella polemica riflessione di Sieyès), l’abate francese è rimasto vincolato alla teorizzazione moderna del ruolo del rappresentante politico: «Anche nei deputati dell’Assemblea costituente del 1789 egli ha ravvisato dei rappresentanti e non dei titolari di un mandat impératif: essi non devono fungere semplicemente da legati o trasmettitori di una volontà già determinata, ché anzi sono essi stessi a “darle forma” (…) Ne scaturisce un curioso rapporto con il potere assoluto della volontà costituente. Anche se la volontà del popolo è in sé priva di un contenuto determinato, ma si specifica soltanto attraverso la rappresentanza, resta ugualmente valido il principio che il rappresentante ha rispetto ad essa una assoluta dipendenza in quanto commissario, nel senso pregnante del termine»(18).

La constatazione che, di principio, il potere costituente resta incostituibile, accentua nei fatti la dipendenza assoluta del funzionario politico che agisce a nome del popolo, seguendo peraltro una marcata declinazione tecnico-militare (simile in tal senso alla dittatura commissaria ma senza riferimento alcuno ad una cornice costituzionale in grado di definire la commissione d’azione e, al contempo, i parametri di normalità cui tornare, che sono infatti, nel caso della dittatura commissaria, già visibili nel potere costituito): «Ancor di più di Rousseau, Sieyès ha sottolineato che ogni attività degli organi statuali è di natura commissaria e che la sostanza dello Stato, la nazione, può intervenire in ogni momento facendo pesare immediatamente tutta la sua pienezza di potere. (…) Il presupposto più importante perché la volontà domini, detti legge, sarebbe dato qui dal principio che quanto più essa si fa precisa, tanto maggiore dev’essere la dipendenza. Il caso ideale di una volontà che si impone senza condizioni sarebbe allora rappresentato dal comando militare, alla cui determinatezza deve corrispondere la prontezza dell’esecuzione»(19).

Il fatto che l’eccezionale potenza rivoluzionaria del popolo richieda sempre un «minimo di costituzione», l’esistenza quantomeno residuale di un contesto giuridico a cui appigliarsi per riemergere dalle paludi del nulla normativo generate dal crollo dell’ordinamento giuridico precedente, significa che la dittatura sovrana, per quanto transitoria e mutaforma, esiste per assolvere un compito decisivo: realizzare il contenuto indistinto della volontà popolare promuovendo quel processo di identificazione in grado di strutturare le polarizzazioni differenzianti autenticamente formative e orientative della nuova Costituzione.

Per questo Schmitt sostiene che, legando la relazione di tipo commissario all’idea di un’attività concreta da svolgere dipendente dalla volontà del potere costituente, viene formulata l’idea che il rappresentante sia direttamente vincolato ad un mandat impératif e dunque che, nel caso in cui la commissione d’azione non venga assolta istantaneamente e con provata fedeltà, il rappresentante suddetto può, o meglio, deve essere sostituito, reciso come un ramo secco dentro il quale non scorre più la linfa del potere costituente.

I rappresentanti che agiscono in nome del potere costituente sono dunque sotto l’aspetto formale commissari assolutamente dipendenti rispetto alla realizzazione di un mandato che, tuttavia, non risulta specificato in una serie di contenuti precisi: è chiaro che il contenuto originario del mandato sia la concretizzazione della decisione sovrana, orientativa e politica, in un progetto di Costituzione; ma, appunto, tale Costituzione non può e non deve essere interpretata in un senso meramente giuridico, perché quell’intrinseca politicità non viene mai definitivamente smarrita per strada, al punto che anche le misure di fatto possono essere prese e devono essere interpretate come volontà del popolo.

Nella prospettiva aperta dal nulla normativo e dalla crisi che espone alla radicale contingenza del “politico”, l’elemento giuridico dovrebbe essere interpretabile come quella cristallizzazione, quella sedimentazione, quella stabilizzazione, conseguente al raffreddamento del magmatico potere costituente, ma la verità è che tale solidificazione risulta costitutivamente impossibile perché l’esplosione rivoluzionaria ha causato il passaggio del potere costituente dallo stato liquido a quello gassoso: la nube incandescente in perenne espansione mantiene un legame indistricabile con il “politico” riassegnando ogni volta una nuova commissione alla dittatura sovrana che cerca di realizzare in una decisione rappresentativa una legittimità che resta inafferrabile ed insieme il drammatico esercizio del potere che ne deriva, con l’ovvia conseguenza di trasformare ogni ostacolo allo sforzo di realizzazione in un nemico da abbattere(20).

L’enfasi con la quale Rousseau indicava l’eccezionalità e l’irrappresentabilità della volontà generale, autentico mandante fantasma tale da rendere commissaria anche la stessa dittatura sovrana, non aveva quindi lo scopo di teorizzare la separazione tra potere costituente e forma politica costituita quanto piuttosto custodiva già l’intuizione della permanente eccedenza del potere costituente ed insieme della natura costrittiva e ostacolante dell’istituzione esistente.



Il pragmatismo giacobino, riuscendo ad inquadrare la centralità del doppio processo di identificazione, comprendendo quindi come esso sia la soglia che unisce ed insieme separa identità e rappresentazione, spazza via ogni ambiguità. Il giacobinismo vede molto chiaramente che il problema essenziale della democrazia consiste nella necessità di adempiere una forma: in questo modo giustifica l’esistenza di una “minoranza”, la creazione di una élite, che si proclami rappresentante dell’autentica volontà popolare, che custodisca cioè il monopolio dell’interpretazione del potere costituente(21).

La democrazia, la sovranità popolare, l’emanazione del potere costituente in una realtà orfana della trascendenza divina e nella quale la trascendenza giuridica non è garantita da alcun potere costituito, dipende da un’istanza che coincide con il popolo assunto nella sua essenza, nella sua spettrale e onnipervasiva presenza, ma che non è mai il popolo nella sua intera realtà empirica (sorta di entità-limite da cui anche Sieyès prende le distanze parlando della volontà comune). L’omogeneità della massa democratica è fittizia: in realtà essa è sempre percorsa e dilaniata dal conflitto e implica la relazione con l’estraneo, con il nemico. Lo slancio che dall’identità conduce alla rappresentazione porta sempre con sé l’identificazione di una differenza, l’indicazione di un nemico interno in grado di polarizzare e orientare la decisione politica(22): il campo della politica, dunque, non è uno spazio liscio caratterizzato da omogeneità neutre, al contrario è uno spazio striato definito da una pluralità irriducibile e da interessi conflittuali.

Secondo una circolarità paradossale e speculare, all’identificazione di un nemico corrisponde l’identificazione di una élite sovrana e rappresentativa, e viceversa: crisi eccezionali come quella aperta dalla catastrofe dell’Ancien Régime, disfacendo le strutture gerarchiche che assolvevano una funzione katechontica, richiamano la politica ad una contingenza brutale in cui guerra civile e Rivoluzione s’intrecciano e s’alternano come due differenti momenti del medesimo moto pendolare.

La nuda contingenza in cui la politica ripiomba è definita e attraversata dal “politico”, cioè dalla polarizzazione differenziante che separa amico e nemico, unico criterio orientativo in grado di formare un’identità nella separazione e nell’opposizione. Poiché quindi il popolo è, in realtà, funestato da un conflitto non mediabile (il disordine della guerra civile in fondo altro non è che una prima difficoltosa formalizzazione e risoluzione della girardiana crisi d’indifferenziazione), l’unico modo per definire e formare una omogeneità politica diventa l’identificazione di un’avanguardia in grado di incarnare l’autorità dittatoriale rappresentativa, per non dire fondativa, dell’unità del popolo (e ciò è tanto più vero se ripensiamo al potere costituente vincolato alla sua esistenza unicamente virtuale, mai attuale; ugualmente, il medesimo discorso è valido ripensando alla Nazione come figura, come corpo mistico, gemello “più autentico” della nazione reale caratterizzata da disunione e conflitto, concetto angolare e dispositivo della teoria politica di Sieyès(23)).

Il partito rivoluzionario giacobino, radicalizzando l’opera dell’Assemblea legislativa del 1789, realizza nella Convenzione una dittatura sovrana che, in nome del potere costituente, sospende a tempo indeterminato la democrazia per meglio realizzarla, secondo una strategia che funzionalizza e lega l’emanazione della “autentica” volontà popolare all’epurazione di ogni elemento oppositivo ed estraneo(24).

Il razionalismo assoluto dei giacobini (Schmitt recupera le argomentazioni di Sorel, secondo cui la prassi della Convenzione nazionale del 1793 rappresentava il più fulgido ed emblematico esempio di realizzazione di una dittatura di stampo razionalistico) è il più pragmatico e risolutivo proprio perché si dimostra pienamente consapevole del fatto che non esiste ordine politico adagiato su di un’armonia prestabilita e non esiste nemmeno l’identità democratica come dato fattuale già acquisito: l’identità si genera attraverso una serie di identificazioni formative e costituenti la volontà del popolo sempre in divenire, sempre in potenza, senza che vi sia mai la possibilità di attingere, attualmente, un’identità assoluta e immediata.

Così Schmitt: «Ogni effettiva democrazia si basa sul fatto che non soltanto l’eguale è trattato egualmente, ma con conseguenza inevitabile il non-uguale è trattato in modo non uguale. Della democrazia fa parte quindi necessariamente in primo luogo l’omogeneità e in secondo luogo ‒ all’occorrenza ‒ l’espulsione o l’annullamento di ciò che è eterogeneo»(25). Il nemico interno, allora, si rivela elemento strategico e funzionale per non permettere mai all’ordinamento di cristallizzarsi, di non attualizzare mai definitivamente il potere costituente in potere costituito: ecco dunque perché il ricorso alla dittatura sovrana, responsabile dell’interpretazione dello stato d’eccezione che, come un fantasma, ossessiona e minaccia l’esistenza stessa del patto costituzionale, risulterà sempre giustificato.

Il processo di identificazione, come soglia che collega (senza tuttavia mai mediare in maniera ultimativa) i due concetti-limite di identità e rappresentazione, è dunque doppio: tale processo si rivolge “verso l’alto” grazie all’instaurazione di una dittatura sovrana guidata da una élite in grado di accelerare il percorso di transizione verso la società post-rivoluzionaria; ma, al contempo, esso si rivolge “verso il basso”, nel senso che il programma teso alla creazione del regno della Ragione, dell’uguaglianza e della libertà, impone una mobilitazione del popolo in una sanguinosa battaglia contro il nemico (tanto interno quanto esterno), una battaglia che, ovviamente, non potrà mai essere decisiva, perché anche il nemico ‒ proprio come il potere costituente, la volontà del popolo o l’identità democratica‒, non è mai qualcosa presente immediatamente, assolutamente e attualmente ma conserva sempre una certa spettralità e un potenziale inesauribile.

Il doppio processo di identificazione appena descritto porta con sé, come evoluzione caratteristica, una progressiva centralizzazione non solo dei processi decisionali ma anche di quelli giuridico-amministrativi.

Il termine “dittatura” veniva generalmente respinto dai giacobini perché era polemicamente sfruttato dai moti controrivoluzionari: lo stesso Robespierre, quando parlava di dittatura nei suoi discorsi, lo faceva rievocando la Roma repubblicana, riferendosi quindi ad un’idea ancora commissaria di tale magistratura. Sarà invece Barère il primo ad utilizzare consapevolmente il termine “dittatura” in una prospettiva completamente nuova: proprio per evitare una limitazione commissaria del Comitato di salute pubblica, Barère chiarisce come tale istituzione non debba ricevere alcuna facoltà legislativa, che invece rimane responsabilità della Convenzione; lo scopo del Comitato è un altro: controllare e rendere più veloce ed efficiente l’esecutivo.

Per Barère, quindi, quantomeno nell’arco che va dal 1792 al 1795, solo la Convenzione nazionale esercita una effettiva dittatura: un’idea che stravolge completamente la terminologia delle dottrine politiche ancora in uso nel XVIII secolo, secondo la quale il dittatore può solamente far tacere ma mai emanare nuove leggi. La dittatura della Convenzione nazionale è dunque, in un senso radicalmente nuovo, una dittatura sovrana, che non si risolve cioè nella semplice commissione d’azione risolutiva della specifica situazione d’emergenza: tale dittatura «è necessaria e legittima perché in realtà è il popolo ad esercitarla su se stesso e può inoltre andare a genio anche a uomini liberi ed illuminati»(26). Pertanto, indipendentemente da quanto diventasse dominante e pervasivo il Comitato di salute pubblica, tutti gli organi amministrativi ramificati nei vari comitati riconoscevano tuttavia, tanto dal punto di vista giuridico quanto, soprattutto, da quello della decisione politica ultima, unicamente nella Convenzione nazionale la vera sorgente dei poteri dei commissari del popolo: in questo senso, il Comitato di salute pubblica era solo un comitato tra gli altri. I commissari del popolo, che ‒ in maniera giuridicamente inequivocabile dopo l’esecuzione capitale del re ‒ erano legati da mandato imperativo all’onnipotenza della Convenzione nazionale, facevano riferimento all’autorità di quest’ultima contro le obiezioni di coloro che ancora si appellavano alla separazione dei poteri (presente nella Costituzione del 1789): l’intera attività di questi commissari consisteva nel far rispettare il potere della Convenzione e quando si trovavano ad affrontare situazioni critiche, ossia quando si concretizzava il conflitto contro il nemico interno, procedevano senza mandato (in quanto la loro commissione d’azione non aveva più le delimitazioni giuridiche e le fattispecie regolate da un potere costituito) appellandosi semplicemente all’autorità del potere costituente della Convezione.

In realtà, tuttavia, come dicevamo poc’anzi, il doppio processo di identificazione, nello specifico il versante che procede “verso l’alto”, quello cioè che realizza la coazione verso la rappresentazione e la forma quale destino inaggirabile di ogni dispositivo sovrano, tende naturalmente ad invertire i rapporti di forza effettivi: la potenza, ossia l’illimitata e indefinibile presenza della moltitudine, del potere costituente trova realizzazione e consistenza solo nella sua attualizzazione, nella sua concreta emanazione; di conseguenza, così come il comitato esecutivo (il cui compito è appunto realizzare la deliberazione legislativa espressione del potere costituente del popolo), governando effettivamente, prende progressivamente il sopravvento sulla Convenzione e sugli altri comitati, allo stesso modo all’interno del Comitato di salute pubblica tende ad enuclearsi il potere di un solo individuo (nello specifico Robespierre) quale espressione ancora più concentrata e “autentica” del potere costituente. L’estrema condensazione di identità e rappresentazione, risolvendo ogni separazione e ogni conflitto nell’idea di emanazione del potere costituente, sconvolge definitivamente il funzionamento moderno della sovranità, o meglio, lo radicalizza ribaltandone il paradigma.


***


(1) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 172.

(2) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 173. 

(3) «Si potrebbe allora obiettare che un’impresa del genere si sottrae a qualsiasi considerazione di diritto (…) Si tratterebbe insomma di una questione di forza pura e semplice. Le cose però si presentano diversamente se si suppone un potere che, pur non essendo costituito in virtù di una costituzione (…) ha con ogni costituzione vigente un nesso tale da apparire come potere fondante, anche se essa non lo contemplasse mai come tale, un nesso tale da non potere essere negato neppure nel caso che la costituzione vigente lo neghi. È questo il significato del pouvoir constituant»; Carl Schmitt, La dittatura, cit. pp. 173-174. 

(4) An-archico quindi, nella prospettiva di Schmitt, non può mai essere l’altro che, con la sua inquietante presenza, incide nel cuore della soggettività politica la possibilità di una responsabilità che orienti la decisione in direzione dell’accoglienza e del dono, o anche solo apra ad una prospettiva dialettica di riconoscimento del nemico: su questo punto insiste tanto l’etica come metafisica levinassiana (in cui al tema dell’an-archia è associata una passività originaria che anticipa la costituzione della soggettività stessa, come obbligo responsabile all’appello lanciato dal volto altrui) quanto il tentativo derridiano di immaginare una politica che trovi nella “debolezza” la sua forza tipicamente messianica e che, non a caso, si sviluppa discorsivamente cercando una mediazione impossibile tra Lévinas e Schmitt.

(5) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 174. 

(6) «Cromwell faceva appello per la sua missione a Dio. In qualche caso parla, è vero, del consenso del popolo al proprio governo, ma nel momento decisivo, come quello dello scioglimento del Lungo Parlamento, lascia chiaramente intendere che la sorgente del suo potere è in Dio e che la sua sovranità non dipende minimamente dal popolo come invece volevano i radicali del suo tempo. Nel grande discorso tenuto il 12 settembre 1657 davanti al neo eletto parlamento egli dichiara di temere di commetter peccato restituendo troppo presto al parlamento il potere che Dio gli ha dato e di preferire una morte ignominiosa piuttosto che vedere respinto dal parlamento il protettorato che Dio stesso ha istituito. Il parlamento gli ha immediatamente confermato protettorato e sovranità, ma questo non significa che da quel momento il consenso del parlamento diventi il fondamento della sovranità di Cromwell. Egli poteva infatti scioglierlo quando voleva, e lo ha anche fatto, senza fare minimamente appello al popolo. (…) Il protettore era titolare di una missione personale e la rimozione dell’ordinamento esistente non si fondava su motivi razionali, ma rappresentava il caso eccezionale che la teoria monarcomaca definiva come il caso dell’ “a Deo excitatus”»; Ivi, p. 174. 

(7) «È da notare innanzitutto l’aspetto dinamico di questa visione: il diritto è un processo inesauribile di ordinamento della realtà e non solo un sistema chiuso, statico e fisso; in secondo luogo la fonte del diritto (il popolo, la nazione) è vista come un abisso infinito da cui scaturisce un’energia sempre nuova, imprevedibile, che dà vita a forme e ordinamenti; queste forme e ordinamenti sono espressione della volontà del popolo, ma non lo esauriscono mai e dunque i poteri costituiti rimandano continuamente a questo potere costituente. Il potere costituente è dunque irriducibile ad ogni forma storica e ad ogni razionalità meccanica; ha l’aspetto piuttosto di un fondo “oscuro”, di un abisso insondabile e misterioso»; Michele Nicoletti, Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, cit. pp. 135-136. 

(8) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 179. 

(9) Così Sieyès: «Si tratta di sapere cosa debba intendersi per costituzione politica di una società, e di delinearne i giusti rapporti con la Nazione stessa. È impossibile creare un corpo con determinati scopi senza dargli un’organizzazione, delle forme e delle leggi atte a fargli svolgere le funzioni a cui lo si è voluto destinare. Ciò viene definito come la costituzione di tale corpo. (…) Dunque anche ogni governo rappresentativo deve avere una sua costituzione; (…) il corpo dei rappresentanti al quale è affidato il potere legislativo o l’esercizio della volontà comune, esiste solamente nella forma che la Nazione gli ha voluto dare. (…)

A tale necessità di organizzare il corpo del governo, se si vuole che esso esista o che agisca, occorre aggiungere l’interesse della Nazione affinché il potere pubblico delegato non possa mai diventare nocivo ai suoi committenti. Donde le molteplici precauzioni politiche inserite nella Costituzione, che sono altrettante regole essenziali al governo, senza le quali l’esercizio del potere diverrebbe illegale. (…)

       Ma mi si dica in base a quali idee, e a quale interesse si sarebbe potuto dare una Costituzione alla Nazione stessa. La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa.»; Joseph-Emmanuel Sieyès, Che cos’è il Terzo stato, contenuto in Joseph-Emmanuel Sieyès, Opere e testimonianze politiche. Scritti editi (Vol. I), a cura di G. Troisi Spagnoli, Giuffrè Editore, Milano, 1993, cit. pp. 254-255. 

(10) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 177. 

(11) Ivi, p. 178. 

(12) Sieyès innesta il processo genealogico che porta alla Costituzione (per certi aspetti superando il paradigma contrattualista) su un doppio binario che unisce analogicamente l’idea dello Stato come grande meccanismo, il Leviatano come artificio e grande macchina, a un’idea fortemente organicistica di matrice rousseauiana finalizzata all’unità statuale come espressione della volontà generale (Sieyès la chiamerà comune) e alla dissoluzione degli Ordini e dei Corpi intermedi: «consigliamo al lettore di considerare nella formazione della società politica tre epoche (…) Nella prima vi è un numero più o meno considerevole di individui isolati che vogliono unirsi tra loro. Per questo solo fatto, essi già formano una nazione: ne hanno già tutti i diritti; non resta che esercitarli. Questa prima epoca è caratterizzata dal gioco delle volontà individuali. (…) La seconda epoca è caratterizzata dall’azione della volontà comune. Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione; vogliono adempiere lo scopo. Per questo si riuniscono, e si accordano tra loro sui bisogni pubblici e sui mezzi per provvedervi. Il potere qui appartiene alla comunità. (…) La comunità ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce.», Joseph-Emmanuel Sieyès, Op.cit., cit. p. 253.

       Ma la volontà comune è costitutivamente inesprimibile in quanto moltitudine e distanza ostacolano le prime istanze associative e la formazione comunitaria che, in Sieyès come già in Rousseau, coincide immediatamente con il pactum subiectionis: da qui la necessità di un «governo esercitato per procura», pertanto «La terza epoca si distingue dalla seconda in quanto non è più la reale volontà ad agire, ma una volontà comune rappresentativa», Ivi, p. 254. 

(13) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 179.

(14) Ivi, p. 179.

(15) Ivi, p. 179.

(16) Per un’esplorazione del tema è quantomeno necessario un riferimento a: La teoria politica del mito (1923), contenuto in Carl Schmitt, Posizioni e concetti ‒ In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, pp. 11-27; Il concetto di democrazia moderna nel suo rapporto con il concetto di Stato (1924), contenuto in Carl Schmitt, Op. cit., pp. 27-37; La contrapposizione fra parlamentarismo e moderna democrazia di massa (1926), contenuto in Carl Schmitt, Op. cit., pp. 83-105; Etica di Stato e Stato pluralistico (1930), contenuto in Carl Schmitt, Op. cit., pp. 217-237; La svolta verso lo Stato totale (1931), contenuto in Carl Schmitt, Op. cit., pp. 237-257. 

(17) In un passaggio di La contrapposizione fra parlamentarismo e moderna democrazia di massa Schmitt sostiene: «Il popolo è un concetto del diritto pubblico. Il popolo esiste solo nella sfera della pubblicità. L’opinione concorde di centinaia di milioni di privati non è la volontà del popolo né l’opinione pubblica. La volontà del popolo può manifestarsi con l’acclamazione, con l’acclamatio, con il semplice ed inconfutabile esserci altrettanto bene ed in modo ancora più democratico che con l’apparato statistico (…) Quanto più grande è la forza del sentimento democratico tanto più certa la conoscenza che la democrazia è qualcos’altro che un sistema di registrazione di votazioni segrete. Davanti ad una democrazia diretta non solo in senso tecnico, ma anche in senso vitale il parlamento sorto dalle concezioni liberali appare come una macchina artificiale, mentre i metodi dittatoriali e cesaristici non sono prodotti solo dall’acclamatio del popolo, ma possono essere anche manifestazioni dirette della sostanza e della forza democratica»; Carl Schmitt, Posizioni e concetti ‒ In lotta contro Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, cit. pp. 102-103. 

(18) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 180. 

(19) Ivi, pp. 180-181. 

(20) «Potrebbe però verificarsi il caso che sorgano impedimenti all’esercizio del pouvoir constituant del popolo e che le circostanza richiedano un intervento per rimuoverli, onde eliminare una coartazione che contraddirebbe al pouvoir stesso. L’uso di mezzi artificiali o della coazione esterna, oppure la confusione e il disordine generale potrebbero privare della sua concreta libertà la libera volontà del popolo»; Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 182. 

(21) Già Sieyès vede con chiarezza la portata di tale questione ma nella sua idea di rappresentanza sussistono ancora le antiche contraddizioni e permane la cardinalità del potere legislativo, mentre con il giacobinismo la tensione ordinativa insita nella selezione di un’avanguardia elitaria a guida delle sorti della Rivoluzione è sempre esplicita pur nei vari avvicendamenti costituzionali e si traduce in una progressiva centralizzazione del potere nel momento esecutivo. Così Sieyès: «Accade costantemente che le parti di quella che voi credete essere la Costituzione francese non si accordano tra loro. A chi spetta in tali casi la decisione? Alla Nazione, indipendente, come è necessario che sia, da ogni forma positiva. Quand’anche la Nazione avesse i suoi regolari Stati generali, non spetterebbe a questo corpo costituito di pronunciarsi su un contrasto che riguarda la propria costituzione.

       (…) I rappresentanti ordinari di un popolo sono incaricati di esercitare secondo la Costituzione tutta quella parte della volontà comune, che è necessaria per il mantenimento di una buona amministrazione sociale.

       (…) Dei rappresentanti straordinari saranno investiti di quel nuovo potere che la Nazione vorrà loro affidare. Siccome una grande nazione non può in realtà riunirsi ogniqualvolta circostanze eccezionali lo esigano, occorre che essa affidi a dei rappresentanti straordinari i poteri in tal caso necessari. Se essa potesse riunirsi davanti a voi ed esprimere la sua volontà, osereste contestargliela perché la esercita in una forma piuttosto che in un’altra? Qui la realtà è tutto, la forma è nulla.

       Un corpo di rappresentanti straordinari fa le veci dell’assemblea di questa Nazione. Non occorre certo che esso riceva l’incarico della volontà nazionale intera; gli basta un potere speciale e straordinario; esso fa le veci della Nazione nella sua indipendenza da ogni forma costituzionale. Non è necessario prendere tante precauzioni per impedire l’abuso di potere; per questi rappresentanti la delega non riguarda che un affare ben preciso, e per un tempo ben determinato. Essi non sono assolutamente soggetti alle forme costituzionali sulle quali sono chiamati a decidere.», Joseph-Emmanuel Sieyès, Op. cit., cit. pp. 259-260. 

(22) Già dalle prime pagine di Che cos’è il Terzo stato, Sieyès mette in chiaro che non esiste mobilitazione verso una nuova rappresentanza politica senza identificazione di un nemico, anzi, è chiarissimo come l’energia politico-polemica di natura espulsiva coincide con la volontà ordinativa e formativa della rappresentanza politica (e tutto ciò risulta ancora più accentuato nell’ossessivo ricorso alla metafora organicistica secondo la quale, essendo la Nazione il corpo mistico generato dall’unione dei cittadini del Terzo stato, il parassitismo nobiliare verrà necessariamente interpretato come un morbo da debellare, una malformazione da correggere, un rischio da cui immunizzarsi): «Chi dunque oserebbe sostenere che il Terzo stato non comprende in sé tutto quel che occorre per formare una nazione completa? Esso è un uomo forte e robusto con un braccio ancora in catene. Se si eliminasse l’Ordine privilegiato, la Nazione non sarebbe per questo qualcosa di meno, al contrario sarebbe qualcosa di più. Che cos’è dunque il Terzo stato? Tutto, ma un tutto ostacolato e oppresso. Cosa sarebbe senza l’ordine privilegiato? Tutto, ma un tutto libero e fiorente. Niente può procedere senza di esso; tutto procederebbe infinitamente meglio senza gli altri.

       Non basta aver mostrato che i privilegiati, lungi dall’essere utili alla Nazione, non possono che indebolirla e nuocerle; occorre ancora dimostrare che l’Ordine nobiliare non trova alcun posto in seno all’organizzazione sociale, che esso può ben costituire un aggravio per la Nazione, ma che non sarebbe in grado di farne parte.

       Anzitutto non è possibile nella molteplicità delle componenti elementari di una nazione trovare o situare la casta dei nobili. So che esistono individui, e ve ne sono anche troppi, che le infermità, l’incapacità, un’incurabile pigrizia o l’effetto dei cattivi costumi estraniano dalle occupazioni della società. L’eccezione e l’abuso si affiancano sempre alla regola (…) Ma si converrà che quanto più rari sono tali abusi, tanto meglio lo Stato sembra essere organizzato. Il più disorganizzato fra tutti sarebbe quello in cui non solo degli individui singoli, ma una classe intera di cittadini si gloriasse di restare immobile nel bel mezzo del movimento generale e sapesse consumare la parte migliore di un prodotto, allo sviluppo del quale non avesse minimamente contribuito. Una tale classe, per il suo non far nulla, è senza dubbio estranea alla Nazione.

       L’Ordine nobile non è meno estraneo fra tutti noi per le sue prerogative civili e politiche. (…) Non è fin troppo evidente che l’Ordine nobile possiede dei privilegi, delle esenzioni, che esso osa chiamare suoi diritti, distinti dai diritti del gran corpo dei cittadini? Con ciò esce dall’ordine comune, dalla legge comune. I suoi diritti civili ne fanno già un popolo a parte in seno alla grande Nazione. Esso è realmente un imperium in imperio.

       Per quanto concerne i suoi diritti politici, anch’essi li esercita a parte. Ha i suoi propri rappresentanti, che non hanno procura alcuna da parte del popolo. Il corpo dei suoi deputati siede a parte; (…) essa [la rappresentanza, nda] è estranea alla Nazione, anzitutto per il suo principio, in quanto la sua missione non proviene dal popolo; in secondo luogo per il suo oggetto, che consiste non nel difendere l’interesse generale, ma quello particolare.

       Il Terzo abbraccia dunque tutto ciò che appartiene alla Nazione; e tutto ciò che non è Terzo non può considerarsi come facente parte della Nazione.»; Joseph-Emmanuel Sieyès, Op. cit., cit. pp. 212-213. 

(23) Interessantissimo il fatto che, per una identificazione funzionale, venga sviluppato addirittura un tentativo di riscrittura genealogica del conflitto in modo da ricondurre ad una specifica filiazione etnologica o razziale la divisione tra dominanti e dominati e, di conseguenza, lo scontro ideologico tra conservazione e rivoluzione (ne ha parlato lungamente anche Foucault, con espliciti riferimenti a Sieyès, in due corsi tenuti al Collége de France: Bisogna difendere la società e Sicurezza, territorio, popolazione): «E qualora gli aristocratici intendano, al prezzo stesso di quella libertà di cui apparirebbero indegni, mantenere il popolo in stato di oppressione, il popolo oserà chiedersi a che titolo. Se gli si rispondesse che ciò avviene a titolo di conquista, convenite che questo significherebbe risalire un po’ troppo indietro. Ma il Terzo non deve temere di risalire ai tempi passati. Rivada all’anno che ha preceduto la conquista; e poiché è abbastanza forte oggi per non lasciarsi conquistare, la sua resistenza sarà certo più efficace. Perché non potrebbe mandare nelle foreste di Franconia tutte queste famiglie che accampano ancora l’assurda pretesa di discendere dalla razza dei conquistatori e di essere eredi dei diritti della conquista? Allora, una volta epurata, la Nazione non sarà inconsolabile, credo, all’idea di essere composta esclusivamente dai discendenti dei Galli e dei Romani. In verità, se si vuol distinguere fra nascita e nascita, non si potrebbe forse rivelare ai nostri poveri concittadini che discendere dai Galli e dai Romani vale almeno quanto discendere dai Sicambri, dai Velchi e dagli altri selvaggi provenienti dai boschi e dalle paludi dell’antica Germania? È vero, si dirà, ma la conquista ha sconvolto tutti i rapporti, la nobiltà di nascita è passata dalla parte dei conquistatori. Ebbene! Occorre farla passare nuovamente dall’altra parte; il Terzo ridiverrà nobile divenendo a sua volta conquistatore.

       Ma se le razze si sono mischiate, se il sangue dei Franchi, che nulla varrebbe in quanto tale, scorre mischiato al sangue dei Galli, se gli antenati del Terzo stato sono i padri della Nazione intera, non si può sperare di vedere un giorno cessare questo eterno parricidio che una classe si onora di commettere ogni giorno contro tutte le altre? Perché la ragione e la giustizia, forti un tempo quanto la vanità, non potrebbero spingere i privilegiati a sollecitare essi stessi, per un interesse diverso, ma più vero, più sociale, la propria riabilitazione nell’Ordine del Terzo stato?»; Joseph-Emmanuel Sieyès, Op. cit., cit. p. 214. 

(24) «La Convenzione nazionale, riunita il 20 settembre 1792, aveva il compito di elaborare un progetto di costituzione ed era organo straordinario di un pouvoir constituant. Una volta messo a punto il progetto (24 giugno 1793) e ottenuta l’approvazione del popolo con suffragio universale, il suo mandato e con esso il suo potere cessarono. Ma, a causa dello stato di guerra e dei movimenti controrivoluzionari all’interno che minacciavano l’esistenza stessa della nuova costituzione, la Convenzione nazionale decise il 10 ottobre 1793 che il governo provvisorio di Francia fosse “rivoluzionario” fino a che non si fosse raggiunta la pace. In tal modo venne sospesa la costituzione del 1793, né essa tornò più in vigore. Pur trattandosi della sospensione di una Costituzione già approvata, abbiamo qui un caso di dittatura sovrana. Assolto il mandato, la Convenzione aveva cessato di essere un organo costituito. Di sospensione non si parlava né nel mandato per il progetto di costituzione né nella costituzione stessa. Non esisteva dunque alcun organo costituito che potesse dichiarare la sospensione. La Convenzione agì perciò facendo appello al pouvoir constituant del popolo, supponendo che esso fosse impedito dall’esercizio per via della guerra e della controrivoluzione. (…) Secondo Aulard questo voleva dire nient’altro che ammettere la soppressione della divisione dei poteri, che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 definiva come contrassegno di ogni costituzione. Ma la costituzione del 1793 non menzionava più tra i principi la divisione dei poteri. Indubbiamente rientra nell’uso terminologico dell’epoca di definire come stato di eccezione la soppressione della divisione dei poteri. Anche con la dittatura si elimina questa separazione in quanto è una delimitazione di competenza in senso giuridico, dal momento che una commissione d’azione dipende nel suo contenuto unicamente da regole tecnico-pratiche e non da norme giuridiche», Carl Schmitt, La dittatura, cit. pp. 184-185-186. 

(25) Carl Schmitt, La contrapposizione fra parlamentarismo e moderna democrazia di massa (1926), contenuto in Carl Schmitt, Posizioni e concetti ‒ In lotta contro Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939, cit. p. 93. 

(26) Carl Schmitt, La dittatura, cit. p. 188. 



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