L’intervista è rivolta a Roberto Escobar, professore di Filosofia Politica e Analisi del linguaggio politico del Dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università Statale di Milano e Membro del Comitato direttivo di «il Mulino» e del Comitato scientifico di «La società degli individui» and «Conflitti globali».
Nelle scorse settimane il Gruppo Studi Girard ha concluso un ciclo di incontri dedicati al testo di Girard del 2007, tradotto in italiano con il titolo Portando Clausewitz all’estremo. Uno degli interrogativi che sono sorti durante le discussioni riguarda il rapporto tra i tre piani distinti su cui si muove l’autore. Egli nell’Introduzione ci parla di un esito apocalittico che coinvolge il mondo intero, nel primo capitolo analizza il testo Della guerra di Clausewitz, assumendo un punto di vista eurocentrico, e in seguito si concentra specificatamente sui rapporti tra Francia e Germania intercorsi lungo i secoli. La domanda è la seguente: che ruolo hanno avuto negli ultimi decenni questi due paesi nel contesto internazionale e soprattutto intercontinentale?
Sono un filosofo della politica, non un politologo. Mi sembra comunque evidente che i due Paesi abbiano avuto un ruolo determinante, soprattutto la Germania, nell’indirizzare la politica dell’Unione in senso neoliberistico, o per dirla con un’espressione strettamente tedesca ordoliberistico. Questo spiega almeno in parte la crisi mimetica che i paesi europei stanno vivendo. Le due nazioni hanno poi avuto un ruolo determinante e destabilizzante evidente ben oltre i confini dell’Unione Europea (per la verità, da dividere con Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Cina, Russia…). Un ruolo destabilizzante ed esplosivo ha avuto la Germania nei Balcani, e la Francia lo ha avuto nella crisi Medio-Orientale e in Africa, almeno in quella del Nord.
Con la seconda domanda facciamo un passo indietro. Se la scelta di Girard è stata quella di analizzare il testo di Clausewitz è perché lo ha ritenuto rivelatore innanzitutto nell’ambito dell’antropologia. Potremmo dire quindi che ci dovrebbe mostrare verità a-storiche e non legate a un particolare contesto geografico. Secondo lei Della guerra di Clausewitz è un’opera che offre strumenti adeguati per comprendere la realtà storica attuale e i rapporti tra nazioni anche al di fuori del contesto europeo?
Credo che la risposta possa essere generale, non rispetto a Clausewitz, ma rispetto a Girard. Ho scoperto Girard quando è stato pubblicato in italiano La violenza e il sacro. È stato un amore a prima vista, per così dire. Fondamentale per me è poi stato Menzogna romantica e verità romanzesca. Il suo “sistema” è già tutto in quelle pagine. Girard, come tutti i pensatori davvero grandi, ha un punto di vista, un solo punto di vista. Quindi riduce a sé – l’espressione “riduce” non è riduttiva, se mi passa il gioco di parole –, Girard, dunque, riduce e riporta a sé gli autori cui si dedica. Questo fa anche con Clausewitz. La sua lettura di Della guerra – innovativa e utile, “terribilmente” utile – vale per se stessa, e in un certo senso al di là dello stesso Clausewitz.
In Portando Clausewitz all’estremo Girard affronta anche, seppur rapidamente, i temi dell’economia e del commercio. Il pensatore francese suggerisce, come del resto aveva già anticipato ne La violenza e il sacro, che questi fenomeni si siano sviluppati come tentativi di arginare la reciprocità tra individui, dando a tale reciprocità, dietro cui si nasconde sempre lo spettro della violenza, una forma compatibile con la stabilità sociale. Se pensiamo alla storia europea degli ultimi trent’anni non possiamo non citare l’influenza determinante esercitata dal cosiddetto paradigma neo-liberista, secondo cui, la reciprocità economica dev’essere lasciata libera di svilupparsi in autonomia, senza l’intervento di altri poteri, ossia di altre forme di trascendenza. A suo parere, il pensiero girardiano – pur con la sua complessità e con le sue contraddizioni – come si pone rispetto a questo tipo di lettura dell’economia?
A Girard manca il senso della politica, o meglio della prospettiva filosofica a proposito della politica. Ogni pensatore sistematico – e Girard è un pensatore sistematico – ha dei buchi, come si direbbe in linguaggio informatico. Il problema non è che sia un sistematico (per quel che mi riguarda, ho imparato da Friedrich Nietzsche, e non solo da lui, a non esserlo). Conta piuttosto che il suo pensiero descriva o non descriva il (nostro) mondo, lo spieghi o non lo spieghi, che aiuti o non aiuti a modificarlo. In tutto questo – la più umana tra le opere umane – il pensiero di Girard è più che utile, è necessario. Lo è stato e lo è anche per me, per la mia ricerca e i miei libri. Il che non toglie che nella sua opera ci siano buchi. Uno di questi, forse quello di maggior rilievo, è in La violenza e il sacro, là dove, di fronte al ripetersi continuo delle violenze mimetiche e delle uccisioni spontanee, si legge (su per giù) che, per interrompere le uccisioni spontanee e per stabilizzare l’ordine, qualcuno a un certo punto invertì la causalità, non più dalla crisi all’uccisione, ma dall’uccisione divenuta rituale all’ordine. Ebbene, come una tale inversione si produce? Chi la decide? Se tutto è mimesi, se gli esseri umani non sono ancora “umani”, dove si trova la volontà decidente, e ancora prima la razionalità del decisore?
Girard non è filosofo, per quanto insegni molto ai filosofi, in particolare ai filosofi politici. L’ho sostenuto anche sulla rivista «il Mulino»[1] in occasione della sua morte. Ma appunto non ha specifica cultura filosoficopolitica. Che cos’è la politica? Che cosa “fa” la politica? È e fa quello che, nel libro su Clausewitz, Girard immagina sia e faccia l’economia. Non l’economia, infatti, ma la politica argina i conflitti mimetici (come del resto ho imparato anche leggendo la sua opera). Per esempio, per rifarci allo studio classico di Malinowski sul kulà, quel cerchio di scambio imperniato sul principio del dono prima di essere economia è politica. Meglio, è economia solo in quanto sullo sfondo c’è la politica, cioè un “dover essere” sociale. L’economia non conosce alcun “dover essere”. Nelle Trobriand di Malinowski i donatori/contraenti girano con le loro imbarcazioni in un senso, lasciando dei doni, e poi nel senso opposto, prendendo doni. Tutto questo presuppone che si fidino, che possano contare sulla restituzione.
Non è l’economia lo sfondo su cui vive la fiducia. Lo può pensare qualcuno tra i più ingenui teorici della scelta razionale. Non è il rapporto diretto, il do ut des, che determina la nascita dello stato, o più in generale dell’istituzione. L’istituzione deve “preesistere” allo scambio: mi devo poter fidare che esista un futuro condiviso, o una durata – la durata è il tempo della politica – nella quale tornerò a incontrare l’altro, e l’altro tornerà a incontrare me. Questa previsione, questa fiducia che illumina e crea la durata è “la” politica. Se si vuole, è l’ombra che l’istituzione getta sul futuro, liberandolo dall’insicurezza, dalla paura, dal dominio terribile del caso.
Che cosa fa da alcuni decenni il neoliberismo, inteso come prassi decisionale fondata sull’ideologia neoliberistica? Si sostituisce alla politica, si “libera” dell’ombra che la politica getta sul futuro producendo la durata e con la durata la fiducia reciproca degli individui e dei gruppi. Il neoliberismo non è una teoria economica, come per lo più si ripete. È invece un insieme di teorie economiche, il liberalismo è una dottrina politica, il neoliberismo è un’ideologia politica. Con più precisione, è un’ideologia politica antiliberale, in quanto esclude il diritto del singolo di determinarsi politicamente e di determinare politicamente il proprio futuro e quello degli altri. In tal modo, nega alla radice la politica (per questo io preferisco usare il termine neoliberismo, non neoliberalismo). Li vediamo intorno a noi, gli effetti di questa sostituzione dell’economia (delle cosiddette leggi del mercato): il conflitto non ha più regole, anzi non è più un conflitto, ma una di crisi mimetica continua, nella quale ognuno vuole essere l’altro, con ciò negando l’altro, e spesso negando fattualmente la sua possibilità di sopravvivere alla povertà, alle guerre determinate dal “mercato”, alle migrazioni che quelle guerre e quel mercato causano.
Questa critica mi sento di fare a Girard, del cui pensiero sono comunque un entusiasta “fruitore”. La sua prospettiva a me pare un grande metro per “misurare” il nostro mondo. Nietzsche, il mio Nietzsche, in Aurora scrive su per giù: «Il colpevole non è più chi ha commesso il fatto, ma il capro espiatorio”[2]. Questo “non è più” marca la differenza rispetto a Girard. Nietzsche si riferisce tacitamente al monoteismo giudaico e cristiano, e in particolare a quello che chiama ressentiment. Da quando nella storia umana è entrato il risentimento, insomma, il capro espiatorio è diventato lo strumento con il quale il gruppo si libera della colpa. Girard ci ha insegnato che quel “non è più” è scorretto. La proiezione simbolica di colpa non segue la cultura umana, ma la crea e la fonda.
Quanto al rapporto tra capro espiatorio, violenza mimetica e cristianesimo, in ogni caso la mia posizione non è quella di Girard. Non penso che il cristianesimo – il cristianesimo inteso come professione di fede regolata e normata da un’istituzione che si chiama chiesa (o chiese) – abbia portato a un superamento del paradigma sacrificale. In sintesi, è vero che (la figura di) Cristo è un mediatore esterno, dunque non un modello cui ci si possa sostituire. Ma la religione cristiana è governata dai preti, non da Cristo. Aggiungo che non dovremmo parlare di cristianesimo, ma di paolinesimo, essendo l’insegnamento di Paolo di Tarso all’origine storica della fede e delle chiese che chiamiamo cristiane.
Proviamo ad aggiungere qualche tassello al mosaico che Girard compone per offrire al lettore una comprensione della nostra epoca. Partirei dal più grande protagonista del palcoscenico intercontinentale dell’ultimo secolo, ovvero gli Stati Uniti. Se fino alle Guerre Mondiali ci eravamo abituati, qui in Europa, all’idea che era il resto del mondo a subire le conseguenze della nostra condotta, negli ultimi decenni questo paese di oltreoceano, assieme ad altre superpotenze, ha capovolto la dinamica. Prendo due dati eclatanti: la spaccatura del nostro continente a fronte della rivalità tra Usa e Urss e l’attuale problema noto come terrorismo di matrice islamista. Un altro dato che sottolineo è che a un certo punto si è iniziato a parlare di “Stati Uniti d’Europa”. Provocatoriamente le chiedo: per il vecchio continente gli Stati Uniti d’America sono un modello, un rivale oppure entrambe le cose?
Se fossero un modello, sarebbero anche un rivale. Questo è certo. Io direi però che non siano un modello. Gli Stati Uniti sono una democrazia, e l’Europa non lo è. È certo composta da democrazie, alcune vacillanti, ma non è una democrazia. Se fosse una democrazia, il suo governo sarebbe scelto dagli elettori – non dal “popolo”, espressione molto ideologica poco significante che in questo momento storico e politico mi preoccupa –, il governo europeo sarebbe dunque scelto dagli elettori attraverso i loro rappresentanti nel Parlamento europeo. Ma questo non avviene. Il governo dell’Unione è nominato dagli Stati, cui risponde. È un governo nominato da altri governi, e risponde ad altri governi. Potremmo dire che l’Unione Europea è una “contrattazione” fra Stati. Questo le impedisce di rifarsi al modello americano. E questo spiega anche perché non riusciamo o non vogliamo entrare in competizione con gli Stati Uniti.
Per chiarezza, anche politica: sono a favore di una Unione Europea democratica, e dunque compiutamente politica.
Un altro tassello lo vogliamo inserire nelle analisi delle dinamiche tra paesi europei, che hanno portato alla situazione attuale. È forse solo la mia impressione, ma c’è una grande esclusa da Girard quando analizza i rapporti tra Francia e Germania, ovvero l’Inghilterra. L’antropologo si giustifica dicendo che gli inglesi, isolati dal continente, non sono fino in fondo europei. La Brexit lo conferma oppure è l’ultimo atto di una rivalità tutta interna al contesto europeo?
Sul perché sia sottovalutata l’Inghilterra, le rispondo a là Girard: perché Girard è francese. Tra Francia e Gran Bretagna la competizione per il dominio dell’Europa (e non solo) è stata secolare. Si tratta di una battuta, ma forse non del tutto infondata.
Quanto alla brexit, non mi pare il risultato di una rivalità interna al contesto europeo, ma di una rivalità interna al contesto britannico. In Inghilterra la “cura neoliberistica” è cominciata prima che in Italia. Prima delle formazioni politiche ex socialiste italiane, in quel Paese il partito laburista ha condiviso nella teoria e nella prassi l’ideologia e la prassi neoliberistiche, mettendo in crisi vite e aspettative delle classi sociali più indifese, comprese quelle medie. Questa è la sostanza. Ne sono seguiti impoverimento economico, insecurizzazione biografica, perdita di ruolo sociale, “invidia mimetica”. La politica, sia di destra sia sinistra, ha ceduto le proprie ragioni alle ragioni del mercato. Avendo rinunciato a se stessa, la politica (in particolare quella di sinistra) ha lasciato milioni di elettori senza rappresentanza, e senza più fiducia nella dimensione generale chiamata appunto politica. Ne è emerso sempre più un conflitto sociale non regolato e non regolabile, mimetico. Poiché, in ogni caso, quello della politica è un bisogno primario, questi elettori si sono rivolti a una politica che si proclamava e si proclama non-politica o antipolitica, e che ha semplificato il (loro) mondo alla solita, arcaica maniera: indicando colpevoli, in questo caso nella dimensione di una élite generica, indistinta e fantasmatica. A parte un clamoroso errore da parte del leader conservatore David Cameron, questo ha portato alla brexit: l’indicazione nell’Europa e nei suoi “burocrati” (che non sono tali, essendo dei politici) del “colpevole” di scelte che sono state (anche) profondamente britanniche. E alla brexit somigliano molto le insofferenze verso la Ue di Paesi come il nostro, come l’Ungheria, come l’Austria… La responsabilità (pesante) dell’Unione Europea è di non aver saputo, e prima ancora di non aver voluto abbandonare una prospettiva neoliberistica che pure si annunciava per lei (e per noi) estremamente pericolosa.
Abbiamo introdotto il tema dell’unità dell’Europa, perciò le chiedo: si può pensare questa unità come superamento dei “nazionalismi” in favore di una logica di coesione oppure più pragmaticamente è da pensare solo come risposta unitaria a una minaccia extraeuropea? Penso in particolare a come percepiamo il progredire della Cina.
Il nazionalismo in senso stretto non esiste più, in quanto non esiste più la nazione ottocentesca e della prima metà del Novecento. È più corretto parlare di populismo, anche quando si presenta da sé come sovranismo. Salvini non è un nazionalista, è un populista che ha trovato utile una proposta politica che si finga nazionalistica, patriottarda. Ma la sostanza è populistica, intendendo per populismo una politica che presenta se stessa come negazione di ogni politica, che sostituisce con una dichiarata immediatezza tra un’entità generale indistinta, mitizzata e assoluta (il “popolo”) e un capo. Questo capo, ancora, è narrato come in grado di guidare verso una palingenesi sociale ed economica, verso una “democrazia” liberata dagli orpelli della separazione dei poteri, dello stato di diritto, delle costituzioni, e anche dell’inutile fardello dei diritti umani.
Quanto al progredire degli altri paesi, per esempio della Cina, l’Europa deve scegliere e decidere. Questa necessità mi sembra una ragione in più per essere favorevoli all’unità politica di un Europa (davvero) politica e (davvero) democratica.
Mi lasci fare una precisazione riguardo i confini, ossia riguardo la nozione stessa di confine. Senza confini non c’è sicurezza, e là dove non c’è sicurezza esplode il conflitto mimetico. Il confine cui penso è la linea simbolica – così scrivo in Metamorfosi della paura – sulla quale si compie la metamorfosi del disordine in ordine, ma anche incessantemente dell’ordine in disordine. Mantenere il confine è fondamentale, ma confine non è lo stesso che frontiera. Per produrre la “metamorfosi” il confine si deve spostare, seguendo il modificarsi di quella che Arnold Gehlen chiamerebbe Umgebung, la realtà effettuale che sta attorno ai singoli e al gruppo, e che la politica deve domesticare, portandola ad avere un senso come “mondo”. Il confine è una porta, un passaggio, e il suo dio è Giano, non il dio Termino (che al massimo ne indica la “misura del momento”). Crea il confine chi lo attraversa, non chi lo chiude. In esso vive l’orizzonte temporale, la durata securizzata dalla politica. Se manca la politica, manca questo orizzonte, manca questa sicurezza. Solo i confini costruiti, negati, superati, ricostruiti dalla politica ci consentono d’essere liberi, cioè “governanti consapevoli” di noi stessi. La libertà non è né l’assenza di confini voluta dall’ideologia che assolutizza il mercato, né l’assenza di confini di chi, ingenuamente, oppone alla loro globalizzazione economica e finanziaria una globalizzazione di pur ottimi e condivisibilissimi sentimenti. La libertà che possiamo costruire, e che la politica ci consente di costruire, non è “dai confini”, ma “tra i confini”[3].
Ha già proposto diverse considerazioni sull’Italia, con l’ultima domanda vogliamo soffermarci proprio sul nostro paese. A proposito di ricostruzioni della storia “nazionalistiche”, è di lunga data la visione che farebbe dell’Italia una vittima delle potenze d’Europa. Ben prima dell’ostilità odierna abbiamo visto gli Italiani gridare allo scandalo per la “vittoria mutilata” e ben prima ancora i nostri più grandi scrittori lamentarsi che il nostro paese, allora ancora diviso, era ridotto a terra di conquista. Secondo lei quale insegnamento ci offre il miglior René Girard?
Girard illumina e spiega la fandonia ormai secolare della “vittoria mutilata”, e illumina e spiega la fandonia recente dell’Italia vittima dell’Europa. Come ci insegna, quando c’è una crisi mimetica, il semplificatore indica un colpevole, anzi proprio “il” colpevole. Ci sono colpevoli esterni che restano esteri, come il nemico tradizionale, contro cui si fa la guerra. E ci sono poi colpevoli esterni/interni, o esterni che si fanno interni. Condivisi da molti semplificatori sparsi in tutti i Paesi d’Europa, non solo d’Europa: in primo luogo i migranti, soprattutto i migranti islamici, ma anche (e sempre più) i Rom e i Sinti. Sintomi preoccupanti indicano che nel novero dei colpevoli stanno per tornare gli Ebrei. Questo fa il semplificatore, indica nemici, e sui nemici fonda il proprio potere. Uccidendoli, i nemici, deportandoli, derubandoli di umanità, il semplificatore promette di restaurare valori, tradizioni, integrità morali, culturali e, perché no?, razziali. Insomma, promette una palingenesi che può essere della democrazia (Grillo) o del popolo (ancora Grillo) o del popolo-nazione (Salvini). E capita che le diverse palingenesi e i diversi populismi si sovrappongano, si ibridino. Quando le vittime servo a pagare il prezzo del potere, conviene non andare per il sottile. L’una vale l’altra. Più se ne produce e se ne mette sul mercato elettorale, più sale il consenso.
Questo mi pare ci insegni René Girard. Aggiungo che non riesco a immaginare – come immaginava lui, che si diceva buon cattolico – un punto d’arrivo pacificato, neppure per le questioni di cui ora ci siamo occupati.
Non credo a punti d’arrivo, in genere. Credo a cammini verso punti d’arrivo. A cammini che lungo il viaggio vengono modificati nella loro meta, e che devono essere modificati. Gli esseri umani sono animali precari, instabili, costretti dalla loro precarietà e dalla loro instabilità a farsi compiti a sé medesimi, come sapeva Nietzsche. Pensiamo a Sisifo, al Sisifo coraggioso e astuto di Albert Camus. Provvisorio vincitore della morte, la più grande delle paure, Sisifo è un costruttore, un fondatore di città. Mi piace pensare che la pietra contro cui e con cui lotta, portandola incessantemente verso l’alto, e incessantemente recuperandola valle, sia (anche) la pietra della politica.
[1] Il riferimento è a R. Escobar, René Girard, in «il Mulino», 1/2016, pp. 182-186.
[2] Aforisma 252
[3] Si veda R. Escobar, La libertà tra i confini. Paure globali, muri locali, in «Ragion pratica», n. 51, dicembre 2018, pp. 429-444.
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