“I diversi impulsi ai quali le folle obbediscono, potranno essere,
secondo le stimolazioni ricevute, generosi o crudeli, eroici
o vili, ma saranno sempre tanto imperiosi che persino
l’istinto di conservazione si annullerà davanti ad essi.”
Gustave Le Bon, La psicologia delle folle
L'analisi della riduzione dei parlamentari che vi propongo non è di natura politica, né giuridica, bensì antropologica. Non mi sbilancerò pertanto in considerazioni militanti e valoriali. Lo sguardo che vi chiedo di assumere è quello neutrale, non giudicante e descrittivo dell’antropologo.
Sappiamo che lo scorso ottobre è stata approvata da tutti i gruppi parlamentari, di maggioranza e di opposizione, una legge di revisione costituzionale che riduce di oltre un terzo il numero di seggi parlamentari. Segue un piccolo cortocircuito nella narrazione nazionalpopolare, la quale vede nella classe politica una casta attaccata con le unghie e con i denti ai propri privilegi. Ci pensa il Movimento 5 Stelle a ridare credibilità e senso a questa narrazione: noi, gli anti-casta, siamo penetrati nei palazzi della politica per scardinarne i meccanismi e, nonostante le resistenze dei “vecchi partiti”, i quali hanno raccolto le firme per indire un referendum, saremo capaci di portare a casa questa storica vittoria.
Rimane un punto di domanda: perché la riforma è stata votata dai parlamentari di tutti i gruppi politici? Folgorante conversione sulla via di Damasco? Questa domanda sottende in realtà una questione centrale, che dovrebbe stupire anche l’osservatore più distaccato: perché un gruppo di parlamentari, ossia di persone che per lo più ambiscono a mantenere la posizione raggiunta, dovrebbe auto-danneggiarsi rendendo più difficile il proseguimento della propria carriera? Il fatto pare controintuitivo e merita una riflessione.
Una risposta possibile è la seguente: il taglio non è in realtà un danno per la classe politica, anzi, la manovra proclama a gran voce la rinuncia a qualcosa (i posti in Parlamento), ma mira al contempo a un guadagno superiore, rappresentato dalla credibilità verso l’elettorato. Insomma, ci si infligge un danno al fine di aumentare i consensi, rendendosi così complessivamente più forti.
Questa risposta, machiavellica ed utilitarista, coglie sicuramente un aspetto importante, ma non mi sembra sufficientemente esaustiva. Proviamo a generalizzare la domanda: perché un gruppo di persone dovrebbe auto-infliggersi collettivamente dei danni?
Qui l’approccio antropologico comparativista viene in nostro soccorso. Gli studi antropologici hanno reso nota un’ampia casistica di pratiche sociali che presuppongono ed anzi esaltano varie forme di autolesionismo. Ci si autoflagella in alcuni riti funebri (si pensi ai rituali arunta indagati da Durkheim o a quelli lucani riportati da De Martino), ci si impongono sofferenze fisiche e psichiche in alcuni riti di passaggio (si vedano le cerimonie di passaggio Sioux) e si sperperano beni materiali in alcune festività (ricordiamo il celebre potlatch, in uso tra alcuni nativi del Nord America).
Se mettiamo tra parentesi le peculiarità dei singoli rituali, assieme alle dense stratificazioni di significati, possiamo enucleare due tratti generali delle pratiche di auto-danneggiamento. In primo luogo, va rilevato l’aspetto esorcistico di questi riti. Nelle pratiche citate gli individui stessi si auto-feriscono in modo da esorcizzare ferite più temibili, cioè quelle inflitte dagli altri. Potremmo far cenno qui alle intuizioni del Freud di Totem e tabù sulle paure riguardanti i morti. In questo senso la pratica autolesionistica si configura come prova di coraggio – come tentativo di porre argini tra sé e le proprie paure –, oltre che come rito propriamente sacrificale, dal momento che tramite la rinuncia su un fronte viene propiziato un vantaggio su un altro fronte. In secondo luogo, è importante rilevare la componente competitiva e imitativa del rito. In questi riti si canalizza lo “spirito di competizione”, inserendolo in un contesto relativamente innocuo: chi si danneggia di più, chi mostra più sprezzo del pericolo, meriterà una quota maggiore di prestigio. Un vero e proprio capolavoro dell’ingegneria dell’evoluzione sacrificale: per la tenuta di un sistema sociale è infatti preferibile un comportamento violento diretto verso sé, piuttosto che un comportamento violento diretto verso altri.
Rinveniamo queste due componenti generali nel disegno di riforma costituzionale in oggetto? Direi di sì. Il taglio è divenuto imprescindibile nel momento in cui alcune forze si sono scoperte agitate dalla paura del calo di consensi. I parlamentari anticipano un danno proveniente dall’esterno (dall’elettorato) per esorcizzarlo. D’altro canto, è difficile spiegare la polarizzazione dei consensi parlamentari, senza far riferimento al fenomeno dell’imitazione. Perché, a un certo punto, anche il gruppo parlamentare meno sensibile alle idee “grilline” si è convinto a votare per il taglio? Semplice: perché lo fanno gli altri. Mai sottovalutare questa risposta per la sua ovvietà. In un contesto di timori e competizioni, una strategia di sopravvivenza sempre valida consiste nel fare quello che fanno gli altri.
Cerchiamo ora di allargare il nostro sguardo al fine di aumentare la nostra comprensione del fenomeno. Facciamo notare che da decenni il nostro Paese conosce un aumento dell’astensionismo. Difficile trovare un sintomo più chiaro della crescente disaffezione del popolo verso la politica istituzionale e la Repubblica democratica. Va inoltre messo a fuoco l’affermarsi di un progressivo indebolimento del Parlamento e del governo italiano, a vantaggio di una serie di istituzioni “più lontane” (emotivamente e geograficamente) e meno rappresentative: le prerogative e i poteri dell’autorità sovrana nazionale sono andate riducendosi, mentre si sono ampliate e irrobustite le prerogative degli enti europei sovranazionali. In questo clima – di decadenza o di semplice transizione a seconda dei punti di vista – acquisisce significato e urgenza un “rituale del coraggio” su scala istituzionale. Attraverso di esso si cerca di mostrare la propria forza, danneggiandosi e quindi indebolendosi, poiché si teme di rendere troppo evidente la propria debolezza. Un meccanismo paradossale ma dotato di una logica ferrea.
Quanto detto finora vale principalmente dal punto di vista dei parlamentari. Spero di aver reso più comprensibile l’apparente assurdità di un parlamentare che taglia il ramo su cui è seduto. Se assumiamo invece il punto di vista della popolazione civile, notiamo che il taglio dei parlamentari, per rendersi gradito, si addobba di altri concetti e fa leva su altri meccanismi. In questo caso la componente offensiva ed escludente diventa preminente. Si parla di un “taglio delle poltrone”. Che sia un oggetto, un volto o una funzione non importa: è sufficiente far convergere le antipatie e i risentimenti verso un qualcosa da eliminare, da tagliare via. La forza di questa riforma, in buona sostanza, risiede in questo meccanismo.
Cerchiamo ora di assumere una prospettiva generale e chiediamoci se questa riforma, interpretata come pratica rituale e catartica su vasta scala, stia effettivamente funzionando. Questo “rituale del taglio” sta risolvendo efficacemente i problemi “antropologici” (non politici, né tecnici) che deve risolvere (la dimostrazione di forza da parte della classe politica, l’esorcismo della paura del calo di consensi, il ricompattamento civile e politico dato da un obiettivo comune)?
Alcune evidenze balzano all’occhio: tra i partiti che hanno sostenuto il taglio ben pochi se la sono poi sentita di partecipare alla cavalcata (trionfale?) della campagna. Alcuni sembrano aver cambiato bandiera. Molti singoli si sono sfilati. Altra evidenza su cui riflettere: la forza che più di tutte si sta intestando questa “battaglia” è in emorragia di consensi da mesi. I militanti di alcune basi stanno prendendo posizioni contrarie a quelle dei vertici. Insomma, se doveva essere un plebiscito per riaffermare un’identità comune, non ci si sta riuscendo granché.
Al di là di questi riscontri empirici, vorrei infine illustrare perché questa “prova del coraggio” nasce già come rituale votato all'inefficacia ed anzi assai rischioso. Lo preciso ancora: chiedendomi se si tratta di un “buon rituale” non mi sto interrogando sulla validità o sulla positività del disegno di legge; mi sto interrogando sull’efficacia della soluzione dal punto di vista antropologico e sociologico. Ahimè, so che non è semplice leggere la propria società tramite le categorie dell’antropologia culturale – categorie che vorremmo relegare a persone mezze nude dalla pelle scura che vivono nelle foreste –, ma farlo è tremendamente utile per capire e per capirci.
Dicevamo, il taglio è un buon rituale? La verità è che definirlo rituale è già improprio, e questo non perché stiamo parlando di politica e non di religione. Religione e politica – ce l’ha spiegato Girard – condividono la stessa matrice: le elezioni, ad esempio, sono interpretabili come (ma soprattutto sono) un rituale, in quanto codificate, dotate di regole, di una frequenza prestabilita e inserite in un contesto collettivo.
Il taglio dei parlamentari, invece, non è prescritto da nessuna parte, non presenta frequenze e forme su cui c’è comune accordo. Per questo non è un rito in senso proprio, pur riadattando – lo abbiamo visto prima – pratiche storiche e sociali già adottate. Possiamo quindi interpretare il taglio come pratica spontanea, proto-rituale, atta ad ovviare i problemi che i riti tradizionali – appunto le elezioni, per fare un esempio – sembrano non riuscire più a risolvere.
Lo ribadisco: non sto criticando la politica che si riduce a rituale. Mi sto chiedendo se questa specifica prova del coraggio rappresenti una pratica sana per il sistema sociale che cerca di preservare. In tal senso val la pena menzionare un aspetto preoccupante. Ad essere “tagliati”, “espulsi”, “eliminati”, non sono semplici simulacri, non sono le coperte del potlatch. Questa volta l’oggetto stesso delle dinamiche sociali espulsive è qualcosa di molto vicino a quello che Girard avrebbe definito il trascendente, il sacro stesso: l’autorità politica, la sorgente stessa del nomos (il Parlamento, lo ricordiamo, è il luogo in cui nascono e acquisiscono valore le leggi).
Davvero curioso. A essere sacrificato non è più il cammello, l’effige, il totem, l’oggetto prezioso. Ci apprestiamo a sacrificare qualcosa che è molto più in relazione diretta con l’unica e vera fonte di autorità, cioè le masse. Certo, così come vale per un simulacro qualsiasi, anche i seggi parlamentari non hanno efficacia in sé: ce l’hanno finché una massa sufficiente di persone gliela assegna. Noi possiamo però contare su sistemi di assegnazione dell’efficacia delicati e razionali, in cui, nello specifico, ciascuno esprime una preferenza per eleggere un rappresentante. Possiamo contare su metodi e procedure studiate e calibrate che, quantomeno, hanno il “merito” di riportare la trascendenza qui tra noi, sulla terra. Non è più infatti la divinità, il mago, il fato, a stabilire la sacralità del cammello o dell’agnello. Sappiamo – o dovremmo sapere, vivendo in una società democratica – che è la massa (o la folla, se preferiamo) a esercitare il potere di assegnare quote di potere. Un passo avanti? Io direi di sì.
Oggetto dell’espulsione proposto da questa riforma sono quindi i canali più diretti attraverso cui si compongono e si modulano i desiderata dei singoli che formano la massa. Insomma – è proprio il caso di dirlo – questa riforma sta veramente giocando con il fuoco.
Un pericolo dietro l’angolo, neanche il più preoccupante, è l’imporsi di poteri alternativi. È infatti improbabile che il potere si nebulizzi; più probabile che si cristallizzi in forme nuove. Alcuni ottimisti – che poi, a ben vedere, si tratta di un mix di ingenuità e opportunismo – esultano: “almeno si cambia!”.
Del resto – non prendiamoci in giro – possiamo davvero ignorare il fatto che i fautori della riforma hanno fatto leva sul malcontento verso l’istituzione parlamentare? Il messaggio implicito del taglio alle poltrone è forte e chiaro: il Parlamento conta poco. Ebbene, non sarà il caso di chiedersi cosa verrà dopo il nostro Parlamento nazionale?
Trovare una risposta al contempo convincente e rassicurante è impresa ardua, e i fautori della riforma, infatti, neanche ci provano. Da una parte abbiamo la nostra Carta Costituzionale, una delle architetture del sacro lasciataci in eredità da millenni di sapiente selezione culturale (e forse di progressivo disvelamento). Dall’altra parte si va verso un salto nel buio, verso qualcosa di difficilmente prevedibile. E se siamo proprio in vena di fare previsioni, bisognerà pur dare un’occhiata ai risultati dei recenti processi di accentramento di potere e risorse. Se lo facciamo, la voglia di slanci eroici, marxisti o millenaristici, dovrebbe appassire rapidamente. Se poi, a fronte di questi dubbi, il brivido avventuriero si esalta invece di appassire, mi permetto di diagnosticare la sindrome del giocatore d’azzardo incallito, il quale si fomenta tanto più sono ridotte le possibilità di successo.
Insomma, – mi permetto in chiusura di abbandonare lo spirito “antropologico” – votate NO e fate votare NO!
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