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«Alexa, raccontami di come sono scomparse le persone» | Dei dispositivi di sottrazione della presenza e la narrazione come relazione

Aggiornamento: 7 nov



Antefatto


Con la solerzia con cui mi affretto a consultare abitualmente le “informazioni”, mi sono imbattuto in questo link a un articolo di opinione del 2021, che fa riferimento a una ricerca di BookTrust del 2019: «il 26% dei genitori inglesi preferisce delegare a dispositivi tecnologici, come Amazon Alexa, la lettura di storie della buonanotte» (dato riportato anche in questo più pacato articolo di informazione).

Urge però subito una premessa, necessaria ma che può essere saltata (o letta in seguito) se si vuole andare subito ad esaminare le questioni inerenti la pratica del racconto.



Premessa


Nel testo che segue il termine “narrazione” verrà usato riferendosi soltanto alla pratica del raccontare una storia. Questa precisazione, che parrebbe scontata, è motivata dal fatto che nel contesto mediatico contemporaneo il termine, mantenendo comunque tale significato, è stato declinato in una più specifica accezione sociologica e massmediatica, per indicare il racconto di tema politico-sociale veicolato dai media e dai social network, volto a costituire una bacino d'utenza che divenga bacino elettorale o bacino generale di consumo di prodotti (sia consentito osservare che, nel contesto attuale di post-democrazia e di generale post-moderno, questi due bacini tendono a coincidere, spesso per un preciso comune ma opposto intento identitario). A questa accezione di narrazione viene inoltre spesso fatto riferimento quando si parla di narrazione come funzione di cornice narrativa – o frame – proprio per indicare quella narrazione generale e sottintesa che costituisce una precomprensione del mondo, atta a condizionare l'orientamento sia della comprensione che della reazione rispetto a singoli fatti, e che, in virtù del suo essere trama sistemica, può essere agilmente richiamata da pochi elementi, e prodotta nella coscienza del fruitore come velo che riveste e ingloba i singoli fatti, spesso colmando i vuoti e risolvendo le contraddizioni che possono di volta in volta presentarsi di fronte ai singoli casi. È proprio questo risvolto pratico sul fruitore che legittima allora affermare come lo scopo delle narrazioni massmediatiche sia quello di costituire, attraverso le reazioni cognitive e pratiche dei soggetti coinvolti, dei bacini d'utenza di consumo.




In conseguenza di questa massmediatica definizione di narrazione, numerosi studiosi ne hanno messo in luce un aspetto dirimente, conseguenza – ma anche causa – della transizione verso quella dinamica che Baudrillard ha concepito come iperrealtà (qui ne trovate una succinta definizione): tale aspetto è proprio il fatto che la narrazione tende a sostituire la realtà stessa come luogo di riferimento della comprensione condivisa. Senza entrare nei meriti di una discussione di filosofia pragmatista o di ispirazione nietzscheana, quanto tali studiosi hanno voluto sottolineare non è tanto il dato gnoseologico che la realtà è sempre approcciata attraverso categorie culturali ma prima ancora attraverso caratteristiche biologiche, quanto che nell'orizzonte post-moderno si tenderebbe a vivere negli effetti di realtà suscitati dalle narrazioni, senza mai (aver bisogno di) entrare in contatto con un fondo esperienziale su cui testare la plausibilità o anche solo l'aderenza alla realtà da parte della narrazione. Le narrazioni avrebbero quindi l'effetto di sostituire la realtà con una suggestione che produce l'effetto di realtà.

Se è fuori di dubbio che questo specifico uso rientra comunque nell'altro più generale, vi è tuttavia una differenza centrale, ed è proprio il contesto post-moderno in cui ha luogo: in virtù di questo, se è certo che tali narrazioni vengono proposte nel tentativo di agglutinare possibili fazioni identitarie in ogni direzione e su ogni fronte dello spettro politico ed economico della società, è pur vero che rimane inaggirabile quell'antropologica liquefazione propria del mondo post-moderno, a causa della quale – come si suole dire per riferirsi allo spirito dell'epoca culturale post-moderna – risulta «impossibile prendere le narrazioni sul serio». Quanto si vuole solitamente intendere con questa espressione va inteso nei due versi di una stessa direzione: da un lato come non sia più possibile rivolgersi ingenuamente alle grandi narrazioni che hanno caratterizzato le epoche della cultura umana fino a quella moderna (e indice di ciò è proprio il fatto che tali prospettive culturali vengano indicate come grandi narrazioni), dall'altro come le narrazioni attuali (potremmo allora chiamarle piccole narrazioni o narrazioni minori) funzionano finché si rimane alla superficie dell'effetto di realtà che esse suscitano, ma che a uno sguardo critico non superano la prova di un confronto con la complessità intersoggettiva della realtà esterna a sé, o alla prova di un vaglio da parte della ragione, rimanendo pertanto sospese su un vuoto che non può essere colmato dalla ragione stessa. Prova di ciò è come, appunto, qualora vengano portate in tale confronto, questo si risolva facilmente in uno scontro tra atteggiamenti fideistici, privi di critica, e anzi ostili a qualsiasi obiezione: è infatti facile percepire come questo sia sovente sintomo di come la stessa narrazione abbia solamente se medesima come punto di supporto, di ancoraggio, e che chi vi faccia riferimento abbia in essa la sola propria fondazione esistenziale; tanto è vero che spesso un confronto – non addirittura polemogeno, ma appunto critico e dialettico – suscita reazioni che testimoniano come al fondo, probabilmente, vi sia un fraintendimento rispetto alla reciproca posizione del piano del desiderio e del piano della realtà esterna ad esso. Questo a maggior ragione se si considera la portata omogeneizzante, indifferenziante in senso girardiano del globalizzato orizzonte del desiderio (di consumo), e la funzione differenziate che viene affidata a queste stesse narrazioni minori, a prescindere da quale sfumatura si occupi lungo tutto lo spettro delle differenze culturali che caratterizzano il mondo globalizzato. Ulteriore prova di ciò è come tali narrazioni si rinvigoriscano proprio quando viene loro offerta una polarità vittimaria condivisibile su cui scagliarsi e a partire dalla quale differenziarsi, ma si affievoliscano nel momento in cui ciascuno è lasciato solo al proprio orizzonte quotidiano e individuale di piccolo consumo di emozioni e piaceri.


A questa attuale accezione del termine narrazione possiamo già apporre il nostro classico: «grazie, non compro nulla»; «I would prefer not to».

La capacità di narrare è invece una più generale funzione antropologica, culturale, che esiste da molto prima del postmoderno. Se vi sopravviverà, è invece tema aperto (qui abbiamo preso in esame un altro dispositivo nella sua relazione di liquefazione all'emergere del bisogno di narrazione).





Un libro che è anche una storia


Conclusa questa premessa, necessaria per chiarire l'uso del termine “narrazione”, il pensiero corre all'ultimo paragrafo del primo capitolo del libro L'istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, di Jonathan Gottschall, intitolato La Tribù delle Storie: «Facciamo un piccolo [...] esperimento di fantasia. Proiettiamoci nelle nebbie della preistoria. Immaginiamo che vi siano soltanto due tribù umane [...]. Sono in competizione per le stesse risorse, non infinite [...]. Una si chiama Tribù della pratica, l'altra Tribù delle Storie. [...] [la Tribù delle storie, nda.] Come tutti i cacciatori-raccoglitori, ha un enorme tempo libero, che riempie con il riposo, i pettegolezzi e le storie [...]. Ma quando gli appartenenti alla Tribù delle Storie tornano al villaggio per divertirsi a inventare strane fantasie su personaggi inesistenti ed eventi inesistenti, quelli della Tribù della Pratica continuano a lavorare. Cacciano di più, raccolgono di più, amoreggiano di più. E quando sono allo stremo non sprecano il loro tempo a raccontarsi storie: si stendono e si riposano [...]. La Tribù delle Storie siamo noi. Ammesso che quell'altro popolo rigorosamente pratico sia mai esistito, ora non esiste più. Ma, senza il senno di poi, la maggior parte di noi non avrebbe forse scommesso sulla sopravvivenza della Tribù della Pratica a spese di quei perdigiorno della Tribù delle Storie? Il fatto che non sia andata così costituisce l'enigma della finzione, il mistero del nostro inspiegabile istinto di narrare.».

Per chi è interessato, il libro di Gotschall è davvero avvincente e stimolante nel mostrare quale funzione abbiano avuto in senso evolutivo e abbiano ancora la narrazione, l'immaginazione, il sogno. Ma vorrei lasciare a lato questo testo, in quanto la sua impostazione pare comunque rientrare nel paradigma epistemico attuale, che opera quella riduzione naturalistica, armata di scienza, così ben decostruita da Carlo Sini nel testo Inizio (sperando che il Professore mi perdoni il termine, improprio in quanto rinvia alla specifica pratica filosofica della decostruzione, ma qui spero concesso perché di immediata comprensione).

Se il testo di Gottschall non manca di passi in cui riflette sul rapporto tra i contenuti del narrato e la costituzione e – soprattutto – il rafforzamento di una qualsiasi gamma di valori attorno a cui si istituisce una comunità, L'istinto di narrare lascia però per lo più indiscussa, per quanto accennata, la dimensione etico-sociale della presenza che – non sarà difficile concordare – è una delle implicazioni fondamentali della narrazione. Per carità: in maniera del tutto legittima non era probabilmente nelle intenzioni di Gottschall discuterne; ciò non di meno urge per noi fare qualche passo in questa direzione, anche per meglio chiarire cosa si intenda qui e cosa implichi il concetto di presenza.






Non solo questione di evoluzione della specie


Nel riflettere sul disagio che produce quel dato – il 26% – e più ancora l'entusiasmo un po' Lisa Simpson dell'autore del primo articolo, i pensieri gravitano attorno a cinque testi: i due già citati, quello di Gottschal e quello di Sini, poi Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov, di Walter Benjamin, Itaca, infine di Paolo Spinicci, e La crisi della narrazione di Byung-Chul Han.

Se nel primo di questi la centralità della narrazione è tematizzata soprattutto dal punto di vista della costituzione antropologica e dello sviluppo antropo-biologico, è invece soprattutto dagli altri che emerge la dimensione etica che una pratica come quella della narrazione porta con sé, e come sia questa implicazione a fondare la costituzione della persona umana nella sua specificità esistenziale: quanto cioè concerne il concepirsi come essere nel tempo sotto il segno della ricerca del senso, sotto il segno dell'urgenza delle scelte e sotto il segno della irreversibilità.

Attorno a cosa verte allora questa dimensione etica che emergerebbe più o meno apertamente dalle pagine degli altri testi?

Come accennato poco sopra, appare vertere innanzitutto attorno alla presenza; quello cui mi riferisco è l'assumersi la responsabilità di essere presenti – disposti affettivamente ed eticamente, pronti ad agire in conseguenza e in vista di un orizzonte etico – a sé nel proprio tempo, ma anche a sé e all'altro – e quindi per l'altro – nel tempo dell'altro. Da questo deriva il tema non meno importante della testimonianza che si offre con la propria presenza.

Soprattutto per chi condivide gli strumenti girardiani, è rispetto a questa assunzione della testimonianza che si pone il problema dell'essere modello, anche nostro malgrado, del desiderio altrui. È allora necessario spendere poche parole sulla questione del modello, soprattutto sulla possibilità di essere un modello che non sia portatore di scandali.

Essere un buon modello, come ricorda Matteo in questo video, è innanzitutto proprio assumere su di sé il fatto che ciascuno costituisca un modello per qualcuno anche se non vogliamo esserlo, anche se non scegliamo di esserlo, perché le nostre azioni (o non-azioni) sono traccia o sono lette come traccia di un desiderio, e questo potrà apparire allo sguardo di chi ci guarda come la traccia di una forza e di una presunta autonomia del desiderio (che Girard indica con la locuzione: pienezza ontologica); tale apparenza può infatti portare a diventare modello del desiderio altrui, a suscitare cioè l'imitazione di sé, in primis l'imitazione dei propri desideri (citando il titolo della versione inglese di un testo di Girard, «ogni desiderio è un desiderio di essere»: imitando i desideri altrui si vuole esistere a una intensità pari a quella che sembra propria dei soggetti imitati). Tutto ciò avviene a prescindere dal fatto che per noi le cose stiano proprio così, che si provi davvero tale pienezza legata al nostro desiderio e al possesso del relativo oggetto del desiderio; ed è facile comprendere come l'imitazione avvenga soprattutto da parte di chi, muovendo i primi passi nel mondo, trova esempio in ogni azione cui assiste, sia essa buona o meno: il desiderio mimetico ha un ruolo sociale sempre centrale, ma esso si duplica nel momento in cui la relazione coinvolge aspetti pedagogici o comunque intercorre tra un adulto e chi è ancora sul cammino dello sviluppo della propria persona.






La narrazione e la nostra forma di vita


Non penso sia azzardato ritenere che, come tutto ciò che si impara imitando, allo stesso modo si impari anche a narrare, e che imitando si impari soprattutto a pensare e vivere in modo narrativo il mondo. Attenzione: quando uso il termine “narrativo”, non alludo a un modo di fare strettamente fantasioso, tanto meno irragionevole. Intendo quella capacità di pensare (e provare a costruire) una successione articolata di accadimenti che siano tenuti sistemicamente insieme da un senso e collegati da un rapporto temporale che si snodi lungo i nessi di causa-effetto; ma questo non vuol dire che i nessi siano fatti di solo determinismo: nell'assumere la propria incarnata finitudine non possono che darsi anche la casualità, la necessità cieca ma anche il dubbio, e infine quella simpatia (nel senso etimologico syn- insieme, -páthos, affetto, passione) che stabilisce legami non immediatamente spiegabili eppure presenti e vividi e a volte necessitanti, sempre sistemici; pensare, come raccontare e raccontarsi il mondo, è infatti prima di tutto un essere collocati anche affettivamente nel mondo; e tutto questo tessersi di legami si srotola nel tempo e porta al costituirsi di un senso che ci trasforma mano mano che si aggiunge un accadimento all'altro, in maniera appunto non semplicemente additiva, ma in una riarticolazione sistemica narrativa.

L'identità è allora la prima delle capacità narrative. La difficoltà nella capacità narrativa si riflette quindi nella difficoltà di costituirsi come identità, e consegna a un continuo rincorrersi in un rimbalzo, frustrante perché infinito e senza scopo, tra una sensazione e l'altra, tra un piacere e l'altro.

Ricordando il testo di Benjamin citato all'inizio, è bene sottolineare come la narrazione non deve essere una verità da implementare, come è invece l'informazione che, chiedendo di essere verificata, chiede quindi di produrre una spiegazione veridica della realtà del nostro mondo; la narrazione mostra invece un percorso da fare, un percorso verso il senso, verso una verità da mettere alla prova: non una verità da imitare passivamente e da assumere come pronta spiegazione del mondo prima del nostro incontro con esso, perché la narrazione mostra che bisogna farne la prova come messa in pratica nella costruzione di un proprio percorso di senso.

Non penso sia azzardato ritenere che sia proprio da questo confronto con tale articolarsi temporale, che racconta sempre in primo luogo della caducità delle cose e delle persone, della perdita e del rimpianto, che possa sorgere quel sistema di orientamento che sorregge le narrazioni antropologicamente universali – le fiabe – nelle quali, leggendole, difficilmente si hanno dubbi su come stiano le cose.






La forma universale della narrazione e la testimonianza


Per quanto Propp nel proprio studio si sia concentrato su quelli che ha classificato come racconti di magia, un aspetto da lui evidenziato accomuna la quasi totalità di ciò che si racconta: all'inizio, c'è qualcosa che scompiglia un ordine. Come nelle fiabe, la narrazione riguarda come questo ordine venga costituito o come sia necessario costituirne uno nuovo, diverso; ma le narrazioni vertono sempre attorno al bisogno di organizzare il mondo attorno a un senso.

Ed è allora a questo che afferisce l'alta testimonianza che può essere offerta nell'atto della narrazione: la testimonianza dell'aver assunto in prima persona la propria dimensione umana, finita, temporale, dell'aver assunto la tragicità della scelta come dimensione esistenziale fondativa della persona e del bisogno comune di costruzione di un senso che tale tragicità e tale finitudine comportano. Scelgo dunque sono.

Quanto può allora essere importante che la narrazione sia affidata a una persona in carne e ossa, che sia presente lì per ascoltare innanzitutto il manifestarsi di questo bisogno, che necessita di riconoscersi come bisogno comune e che in quella circostanza si dà non solo come bisogno di sentire qualcuno raccontare, ma anche come bisogno di qualcuno che, offrendo la propria presenza, sia figura che assuma come propria responsabilità la presenza dell'altro, e si offra per quel rapporto in cui si prova ad essere un buon modello e a costruire quindi insieme una relazione costituente e non scandalosa? Perché, e ci tengo a sottolinearlo, di cosa racconta per lo più la narrazione? Come abbiamo detto, dell'organizzare il mondo attraverso il superamento di una crisi. Ma c'è un aspetto decisivo in questa sottesa organizzazione del mondo: non è mai una solipsistica proiezione nevrotica del proprio desiderio; essa anzi ci situa da subito nell'essere al mondo collettivamente, immersi in un ordine che ci diamo, che custodiamo, e su cui lavoriamo costantemente, anche appunto per ricostruirlo di fronte a qualsiasi crisi. Oltre ad essere quindi una funzione della dimensione esistenziale della singola persona, la narrazione è funzione centrale del nostro essere nel mondo insieme ad altri.

Il punto è proprio questo: la funzione narrativa non è solo centrale nella costituzione dell'identità personale, ma anche di quella collettiva, perché rinvia a un orizzonte comune di esperienza, che è testimoniato dalla presenza incarnata dell'altro che racconta.




Certo: dal punto di vista della filosofia pragmatista, qualsiasi nostra azione, qualsiasi concetto adoperiamo anche quando siamo soli rinvia a una risposta comune, a un generale «essere pronti a fare così e così» (come ricordo dalle lezioni di teoretica) che la cultura da cui siamo abitati ha elaborato nel tempo; la presenza dell'altro davanti a noi ci ricorda questa genealogia, e come non sia legittimo ricondurre quanto si presenta nel nostro pensiero al solo nostro desiderio e alla nostra singola mente. La differenza però consiste nel fatto che la presenza incarnata dell'altro in una prassi narrativa rinvia allora a un orizzonte comune di esperienza ma come al percorso da cui può emergere, costruito lungo il cammino, non solo un piano della fatticità («le cose sono questo e quello, e sono così e cosà»), ma un piano del senso come sguardo rivolto anche verso noi stessi quale gruppo umano, in grado di riconoscersi attraverso la comune affermazione di un orizzonte valoriale che non sia solo traduzione immediata del proprio desiderio, ma traccia del lento entrare in relazione tra simili e di questi con il proprio ambiente, e con la propria condizione di mortali; un orizzonte valoriale con il quale si può anche entrare in un rapporto dialettico e critico, perfino ragionevolmente conflittuale, e non di sola mutuazione indiscussa, ma che però anche nel conflitto testimonia questa comune appartenenza, questo comune muoversi in un orizzonte che pone delle domande, che pone l'urgenza di alcune scelte.

Nel testo di Spinicci viene mostrato come attorno alla narrazione si costituisca l'identità, e come la narrazione prenda avvio quando da parte di una persona viene compiuta la scelta di essere presente nel momento del tempo che gli si pone innanzi, e che così si stacca da uno sfondo continuo e anonimo perché intemporale, senza direzione: tale è infatti il Tempo ciclico degli dei o dei popoli senza storia e propri del mito, come i Feaci dell'Odissea, testo oggetto dell'analisi del Professore. E qual è la scelta compiuta che inaugura la narrazione da cui emerge l'identità umana? È, appunto, la scelta di rispondere a una crisi, proprio come iniziano le fiabe di magia ben analizzate da Propp; proprio così infatti inizia, finendo con questa scelta il Tempo aionico della loro isola, la storia umana dei Feaci: di fronte alla crisi che costituisce la presenza fra loro del dolore di Ulisse, scelgono di rispondere aiutandolo, lasciando cioè che la sua storia, che hanno ascoltato, li muova e li porti a scegliere di scrivere di se stessi – e quindi narrare di sé – una storia che li conduce fuori dalla dimensione dell'intemporale; infrangendo il divieto degli dei, saranno puniti proprio perdendo quella impalpabile esistenza intemporale, e precipitando nella durezza dell'esistenza umana così ben metaforicamente rappresentata da Omero (ma per questa analisi vi lascio alle meravigliose pagine del libro).






Il dispositivo di presenza elettronico e la relazione impossibile


Di fronte alla situazione di crisi, l'eroe che si mette in cammino è la metafora narrativa della scelta di cercare una risposta, è l'equivalente pratico dell'interrogarsi esistenziale.

Data tutta questa importanza della narrazione, qual è allora il problema se a raccontare è un dispositivo elettronico? Certo, come dice l'articolo su il Messaggero, abbiamo già avuto le fiabe sonore. Ma è la stessa cosa se a narrare è la voce registrata di una persona o la voce sintetizzata di Alexa? L'impressione che emerge a una prima riflessione è che la voce registrata di una persona, così come la pagina scritta, rinvii a una presenza che è stata incarnata e che ha raccontato, che ha cioè assunto su di sé in un momento della sua vita la dimensione narrativa e la funzione di presenza per l'altro; al contrario, la voce sintetizzata non rinvia a niente di tutto ciò, anzi: diventa lei una diversa presenza acustica con un vuoto sottostante, nella mera simulazione della presenza umana. Se questa simulazione a qualcuno sembra poter anche in fondo funzionare, è solo perché è nel fruitore che avviene il rinvio culturale a una presenza incarnata e narrativa. Quello che voglio dire, e che ha qui ben spiegato il Professor Nardelli, è che non è il dispositivo in sé a restituire il senso della presenza: è il fruitore che lo ricostruisce, come ricostituisce qualsiasi senso o filo rosso a partire dagli stimoli o dai dati che riceve dal dispositivo. Certo, questo finché ancora rimane la traccia collettiva, la memoria culturale del senso di una presenza narrativa incarnata. È incerto cosa verrà invece ricostituito quando di questa se ne sarà persa la memoria, come se ne è persa del dodecaedro romano.

Ma c'è un altro aspetto, tra i tanti che costituiscono i problemi di Alexa, che sembra però rilevante se si considera l'abitudine di delegarle la narrazione. Alexa rinvia a una presenza impossibile, perché si offre come una presenza che soddisfa ogni richiesta; ma se una presenza si piega costantemente al desiderio altrui, non è mai in relazione, o meglio: è una relazione che non costruisce un mondo comune, ma che induce a scambiare il proprio orizzonte del desiderio per il mondo comune. Concepita per ascoltare e rispondere ad ogni richiesta, tale passività lascia al desiderio del soggetto lo spazio perché si dilati fino a totalizzare e saturare di sé il proprio campo di esperienza. Si può dire che forse questa criticità ci fosse già con la fiaba sonora, in quanto riproducibile a piacere? Forse sì, ma forse, a ben vedere, no: non si può non pensare alla differenza percettiva e relazionale data da un lato da una registrazione, una traccia lasciata dalla presenza, dall'altro da una macchina calcolante che offre interazioni antropizzate, un simulatore di presenza che esegue il compito accompagnandolo alla messa in scena di una relazione verbale servile.




Il problema quindi non è solamente quello della delega della presenza al mondo virtuale in misura sempre maggiore, al punto da rendere la presenza un surplus non necessario, non dirimente, bensì anche il porsi del mondo virtuale come ben altro rispetto alla sola estroflessione del gesto in cui consta ogni strumento: esso si pone in più come un'estroflessione irrelata del desiderio, che invade lo spazio, e che ritorna immediatamente sul soggetto desiderante, svuotando così il mondo di quella presenza che è invece anche quel resistere su cui si fonda l'alterità. Si noti che, inoltre, questo meccanismo avviene omnes et singulatim: un'espressione ripresa da Foucault e da lui usata per sottolineare come i dispositivi agiscano su tutti ma non su tutti presi come massa, bensì individualmente, singolarmente, adattando la propria presa a punti di cattura specifici di ogni singolarità, al desiderio individuale di differenziazione romantica, producendo una ripartizione e una atomizzazione delle singolarità, slegate e isolate nella propria narcisistica volontà di differenziazione. Una riconduzione, singolare ma collettiva, degli individui alla funzione del potere (per chiarimenti su questo funzionamento omnes et singulatim, si può vedere ad esempio qui).



Conclusioni: la storia dei nostri tramonti e la domanda etica


Lasciar narrare un dispositivo concepito nel modo in cui lo è Alexa equivale a svuotare la narrazione del suo momento relazionale, e a relegarla da un lato a solo mezzo di piacere, dall'altro lato a soluzione che solleva dalla responsabilità di essere presente per l'altro, a maggior ragione quando la differenziazione romantica prende la strada del presentarsi, soprattutto a se stessi, come sempre impegnati in altro da non poter esserci per l'altro.

Non si vuole qui non riconoscere quanto possa essere difficile narrare. Come ha sostenuto Han nel libro citato all'inizio, tutta la terapia che si occupa dei problemi della psiche si basa in fondo su questo: un percorso per riuscire a riportare il soggetto nella capacità perduta di raccontare se stesso, di reinserirsi in una costituzione narrativa che consenta di sciogliere i nodi che si agglutinano come dolori. Non è forse allora già una buona testimonianza di questo proprio l'avere la forza di stare davanti a questa personale difficoltà con la capacità di narrare?

La questione girardiana che allora forse qui si pone, è appunto quella di scegliere di essere un buon modello: responsabilizzarsi rispetto al modello che – indipendentemente dal nostro volere – si è, anche in una pratica come la narrazione.

Essere un buon modello, assumersi la responsabilità della propria presenza per l'altro, non vuol dire essere perfetti, ma essere presenti anche con i propri limiti, con le proprie difficoltà; assumere la propria finitudine incarnata per ciò che essa è: come un'occasione più che come un limite. Si potrebbe allora dire che la difficoltà che spinge a delegare non può essere presa inconsapevolmente come un alibi, perché si può essere un buon modello anche mostrando come si stia insieme nella difficoltà stessa, mostrando come si impari attraverso la relazione. È infatti anche attraverso le relazioni che si costruisce una capacità (e, riprendendo l'osservazione che Han fa in merito alla terapia psicologica, si potrebbe aggiungere che è infatti mediante la relazione con il terapeuta che in quella circostanza tale capacità si costruisce). In questo caso, allora, la responsabilità, la presenza, non si pone da assumere solo qualora si sappia già raccontare le storie, ma anche nel cercare di imparare facendolo, di coinvolgere l'altro nella propria difficoltà e nel costruire insieme.




Al posto di delegare, affrontare in prima persona, perché è questo il primo modo di essere presenti: mostrare che si cerca di stare davanti alla propria difficoltà.

Nella delega a un dispositivo elettronico che simula la relazione interpersonale ma nei modi particolari già prima discussi, il dispositivo della narrazione subisce invece, in linea con l'episteme contemporaneo, una ricomposizione a partire dal mutamento delle prassi e perciò modifica la costituzione della soggettualità, la forma di persone che siamo, producendo un'altra occasione perché si agglutinino forme-soggetto individualizzate, separate l'una dall'altra nel proprio bilancio dei piaceri e dei desideri di differenziazione romantica, e che hanno come dimensione di costituzione esistenziale l'accumulo additivo di informazioni.

È chiaro che la nostra storia di specie è la storia della progressiva implementazione di dispositivi che si sono affastellati a costituire il campo pratico esperienziale che costituisce l'essere umano, e – come Sini ci insegna nel suo testo – qualsiasi strumento è un dispositivo che retroagisce a costituire l'umanità. Anche il linguaggio stesso ha funzionato così.

Certo, come spiega sempre il Professore (che spero mi perdonerà se anche qui semplificherò per alleggerire i miei gentili e già da me tediati lettori), l'uomo è abitato dalle tecnologie che mette in atto, e queste lo modificano e modificano l'ambiente in cui vive, così che né l'uno né l'altro rimangono i medesimi di uso in uso, ma si modificano irreversibilmente; l'uomo è quindi infine proprio per questo responsabile del proprio tramontare: è cioè il nostro stesso esistere, fare cose, pensare o non pensare ma sempre agire culturalmente, ciò che è responsabile del concludersi di alcune caratteristiche della specie.

Lungi da noi ritenere di poter arrestare la storia di questi tramonti, ma da questo a saltare giubilanti in mezzo al trenino degli entusiasti cantori delle magnifiche sorti, e progessive, senza nemmeno porsi un cenno di domanda etica, ecco, questo no.

Per questo, «grazie, non compro nulla»; «i would prefer not to».



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