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L'espiatorio e il messianico | Pour achever Girard

di Ludovico Cantisani




Fosse vissuto in altri tempi, René Girard sarebbe stato simpaticamente ucciso. Ucciso non come capro espiatorio, realizzando così in sé stesso la propria teoria non meno di Nietzsche – ucciso in quanto profanatore, profanatore dei sacri misteri, un “ficcanaso” non dissimile dal Bill Hartford dell’Eyes Wide Shut kubrickiano, troppo affascinato dagli interstizi dell’origine per non cadere nel suo baratro. Chi violava il segreto dei misteri eleusini, nell’antichità greca, veniva subito messo a morte: tant’è vero che di quei riti così essenziali nel cementare l’identità occidentale a venire, senza dubbio alla base tanto della filosofia quanto dell’arte tragica poi esplose nel V secolo a.C. ad Atene, noi conosciamo solo frammenti, segmenti di liturgia – semplicemente, non riusciamo a farcene un’idea completa.


“C’un sapere degli dèi – e c’era un sapere dei sacrificanti.

Un sapere dell’Arciere e un sapere dei testimoni.

La ruota del tempo continuò a girare sino al punto in cui avrebbe parlato

L’ultimo sapere, altrimenti muto:

quello della vittima”

Roberto Calasso, Ka


L’archeologia e l’escatologia sono i due estremi entro cui il pendolo del pensiero occidentale ha simpaticamente battuto negli ultimi, su per giù, tremila anni. René Girard, aggrappandosi ad una tradizione di pensiero che si può ricondurre già ad Hegel e certo anche a Nietzsche, sintetizza nelle sue opere entrambi i momenti. Di più: nel corso del suo quasi settantennale percorso accademico, non ha mai nascosto l’ambizione e il colpo di mano di utilizzare “strumenti d'analisi” ispirati “all’antropologia, alla storia, alla storia della letteratura, alla psicologia, alla filosofia, o alla teologia”, in un pot-pourri ordinatissimo di discipline diverse che pure può essere inquadrato come uno dei tanti sintomi di una “crisi del metodo” – non per forza negativa – consumatasi gradualmente a partire dagli anni settanta, nello sfiorire dello strutturalismo. “Detto in altre parole, noi saremo veramente in grado di fare la sintesi dell’antropologia del XIX secolo e degli inizi del XX”, scrisse una volta Girard in fin di carriera, volgendo al futuro ciò che aveva compiuto al passato.



Le teorie di Girard sul sacrificio fondativo e sulla figura espiatoria del capro espiatorio, scelto arbitrariamente, perlomeno nella sua lettura, nell’Ur-rito regolativo da cui tutti gli altri sono sgorgati, e “smascherato” da Cristo sulla croce, sono sufficientemente note perché non vi sia bisogno di ripeterle ex novo. Con La violenza e il sacro del 1972 e i suoi libri successivi, Girard raggiunse una certa, problematica fama a livello internazionale, ma le riviste accademiche e le pagine culturali dei giornali rimasero a lungo incerte se definirlo “uno dei maggiori intellettuali del nostro tempo” o un reazionario apparso con sconcertante ritardo sul finire del XX secolo. Nella seconda metà della sua produzione letteraria, pur respingendo con crescente vigore tutte le critiche mosse al suo pensare, Girard non si stancò di ribadire che la sua teoria del sacrificio fosse un’“ipotesi scientifica” - contestando altresì il falsificazionismo popperiano, e rendendo quindi parzialmente problematica la delineazione dell’effettivo significato di “scienza” a cui si rifà.

Girard non è un riduzionista, e anche questo non stanca di ripetercelo. Se vogliamo, è, in senso lato, un genetista: Girard non vuole ridurre tutto a un principio unico, ma vuole condurre un’indagine radicale, sulle origini. Pudenda origo, si diceva in latino, molto prima che Courbet si apprestasse a ribadirlo in pittura: ficcanasare è sempre stata un’arte elitaria, esemplificata da Nietzsche. Il suo è un monismo d’alta classe – non privo di una certa finesse aristocratica, riconducibile senza esitazione ai primi sapienti della Ionia incuranti delle loro servette tracie, e, ancor di più, a un certo fare parmenideo.

Nietzsche, Freud, Lévi-Strauss, anche Durkheim: i pensatori da cui più di tutti dipende la teoria mimetica girardiana, sono anche quelli che Girard contesta più spesso, e più volentieri. I maestri vanno divorati in salsa piccante, è il verdetto più severo di Pasolini, che tentava così, strepitosamente a ragione, di porsi in una posizione di sicurezza radicale, tant’è vero che, ad oggi, di “pasoliniani eretici” se ne contano sulle dita di una mano, sono tutti o ortodossi o facili contestatori - lo sparagmos di cui fu vittima il suo corpo non influì sul suo pensiero, tutt’al più sulla sua eredità. Anche Girard divora i suoi maestri in salsa piccante, insaporendoli poi con la sapienza che viene dai Vangeli e dalle grandi tragedie - ma non si può leggere, proprio in questo concettuale divorare, un’ulteriore applicazione delle sue teorie?


Il modello confutato, il modello divorato, il modello assorbito per quel che può dare al sistema, e per il resto rigettato: c’è un che di espiatorio nel modo in cui Girard tratta le sue fonti. “È una buona cosa che la teoria mimetica non sia mai stata alla moda, che sia stata protetta contro la moda”. La paura delle “mode” è conseguenza diretta della sua idea di massa indifferenziata. Anche questo è elitismo. Sano elitismo, forse – l’elitismo di chi non vuole scendere a sporcarsi le mani con nessun coltello sacrificale, né, men che meno, porgere il collo di fronte all’altare.



***

Andiamo avanti, scendiamo lungo la china. Girard, abbiamo detto, è un monista dell’arché, un anti-riduzionista capace di trovare un principio onto- e logico assoluto che paradossalmente non ha nulla di aristotelico. Uno dei concetti alla base del pensiero di Girard è quello di polarità, che si applica in modo sommo alle tragedie: una polarità tragica è quella che vede il re Edipo, all’inizio del dramma di Sofocle, come il salvatore della città, e, per il termine della rappresentazione, ce lo restituisce invece come l’impuro cieco, l’impuro da espellere se si vuole che la peste smetta di affliggere Tebe.

L’espressione è tratta dal Levitico, il secondo libro della Bibbia, ma ciò che spicca della figura del capro espiatorio, o in generale della vittima sacrificale, è la sua universalità. “Nel XIX secolo e agli inizi del XX, gli etnologi hanno ritrovato questa sequenza un po’ dappertutto nei culti arcaici e nelle istituzioni a essi collegate, come le monarchie sacre. Affascinati da queste scoperte, essi hanno lavorato a una teoria unificata della religione, un progetto che non è mai stato ultimato, e che ai nostri giorni si ritiene irrealizzabile, anzi, pressocché scandaloso. Vi si riconosce un imperialismo conoscitivo inevitabilmente legato a quello politico, nel caso specifico al colonialismo”, requisitoria che Girard non esita a definire “eccessiva”, frutto di quella tendenza all’autocritica costante che solo la civiltà occidentale può vantarsi di avere.

Girard si è interrogato - come tutte le menti più sistematiche del Novecento - sugli isomorfismi dei riti e dei miti di popolazioni e civiltà sparse in giro per tutto il mondo. La sua teoria mimetico-sacrificale è una delle più pertinenti e solide, ma, anche ammettendo per ipotesi che essa sveli definitivamente e indelebilmente l’origine del sacro nella violenza, sono non pochi i fenomeni - più mitici che rituali in questo caso - a restare a latere dalla sua interpretazione, per non dire inevasi. Fenomeni, o per meglio dire archetipi: numerosi personaggi, situazioni, eventi narrativi tipici e quant’altro che non possono essere propriamente ricondotti a un sacrificio, e nemmeno a una crisi mimetica o a un doppio gemellare.



Una figura archetipica come quella di Medea, non meno pregnante di un Edipo, e la sua relativa tragedia euripidea, possono entrare solo di striscio - ci sembra - nel sistema girardiano. L’uccisione dei suoi figli non è un sacrificio, è un infanticidio per vendetta. Resta il senso di una concatenazione di polarità tragiche, la vertiginosità di un ribaltamento regale - Giasone, da re designato di Corinto, che si ritrova completamente solo - e tutta un’ulteriore serie di elementi che, grazie a Girard, siamo abituati a vedere sullo sfondo o come conseguenza di una crisi mimetica - ma manca un capro espiatorio propriamente detto, perché, quand’anche si volessero definire così i due figli di Medea e Giasone, mancherebbe comunque quell’unanimità sacrificale che agli occhi di Girard era altrettanto importante del sacrificio in sé e per sé, perché si avesse un effettivo caper emissarius.


Quello di Medea chiaramente non è che un esempio, preso da una tragedia antica per così dire “a metà strada” tra l’Edipo re di Sofocle e Le Baccanti euripidee, i due drammi greci su cui Girard ha appoggiato più fissamente il suo sguardo. Molti altri archetipi, personaggi e topoi del mito, universalmente ricorrenti in civiltà del tutto indipendenti l’uno dall’altra per filiazioni etniche e lontananza geografica, restano consapevolmente al di fuori della sua struttura di pensiero. A ben vedere, quello di Girard solo in parte è un sistema: ci troviamo davanti più che altro a un’archeologia senza globalità, schematica ma non enciclopedica, esaustiva e anche escatologica, per non farsi mancar nulla.

Questo non è per forza un male. “Abbiamo a che fare con qualcosa di sociale, di collettivo -

ma non è Jung con i suoi archetipi all’acqua di rose che può illuminarci”, diceva Girard stesso nel libro-dialogo Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo: la sua critica, occasionale ma feroce, mirava a demolire en passant l’interpretazione morfologica che forse più di ogni altra, nella storia dei non facili rapporti tra antropologia e psicologia nel corso del XX secolo, ha mirato al collettivo, al trans-sociale, all’universalmente inconscio.




Il sarcasmo – Girard è un umorista mancato, e alcune delle sue più feroci stroncature, come quella a L’Anti-Edipo di Deleuze & Guattari reiterata nella prefazione alla raccolta Il risentimento della Raffaella Cortino Editore, potrebbero valere come esempi di un’impensabile “comicità accademica”. Non senza ragione un suo articolo del 1972, intitolato Un pericoloso equilibrio e poi incluso all’interno de La voce inascoltata della realtà, voleva formulare proprio delle “ipotesi sulla comicità”, notando delle analogie tra il detronizzato Edipo sofocleo e il Borghese gentiluomo di Molière. “Il riso risponde al fine di respingere un’aggressione esterna, di isolare il corpo contro un’imminente invasione. Ma le semiconvulsioni del riso, se protratte per un certo lasso di tempo, conducono da ultimo alla perdita totale dell’autocontrollo che intendevano preservare”. “Nelle forme più intellettuali di comico, il riso, in quanto affermazione di superiorità, non può che significare una negazione della reciprocità. Quando rido, io mimo e ripeto l’intero processo al quale ho assistito, ossia il tentativo di assumere un pieno controllo e il suo fallimento, il vertiginoso senso di superiorità e la perdita di equilibrio che ne risulta”. Il riso e il comico, in questo, rappresentano un esorcismo, e una catarsi non inferiore a quella trasudata dal tragico. Il riso ha un “effetto livellatore”, e carnevalesco, ma in esso godiamo anche degli “ultimi vertiginosi momenti di illusione prima della catastrofe”. Escatologico in tutto, Girard non ha potuto risparmiarsi di essere apocalittico anche in un saggio sul riso.

Un pericoloso equilibrio, il saggio girardiano sul riso, fa affiorare qua e là notazioni sinistre, e forse autobiografiche, se il Nostro, nella sua prosa, è sempre stato un feroce umorista. La risata ha sempre una sua vittima e, in uno spettacolo comico, “qualunque clown esperto sa benissimo che la gente è disposta a ridere solo a spese sue o di un terzo convenuto”: insomma, “il pubblico non dev’essere a contatto con l’oggetto delle sue risate”, e il palcoscenico richiede un certo margine di “isolamento”, non diversamente da un altare. Girard se lo lascia sfuggire apertamente, a un certo punto della trattazione: il comico richiede “una vittima sacrificale che susciti le nostre risate”, e occasionalmente può anche essere rappresentata da noi stessi, e dal nostro corpo, ma unicamente in chiave esorcistica, come quando si ride di un pericolo scampato e possibilmente inavvertito. La lettura di queste pagine sul riso, e in generale il sarcasmo con cui Girard si batteva in difesa della sua teoria, ci lasciano con un piccolo dubbio positivo: non sarà stato che Girard ha giocato tutto il suo percorso sul rito e la vittima, proprio per risparmiare a sé stesso la condizione non invidiabile di vittima? Quale spauracchio muoveva questo grande maître à penser di ieri, nelle sue analisi sempre più vertiginose e precise sul sacrificio? Possibile che fosse questo, il suo punto di fuga?


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Ogni pensatore è vittima del proprio sistema, anche quando non arriva a inginocchiarsi e a com-piangere cavalli sulla pubblica piazza di Torino. Nei confronti della sua stessa opera, Girard ha assunto una posizione che se non è vittimista, perché l’eleganza accademica mai gli è venuta meno, è pur sempre vittimaria. “Io critico in Lévi-Strauss soltanto ciò che mi riguarda, ossia la critica che egli fa della mia opera” è una frase un po’ sorprendente da leggersi, per quanto poche parole dopo Girard provi già a parare il colpo ammettendo retoricamente che “potrebbe essere che io azzardi un po’ troppo suggerendo che Lévi-Strauss mi faccia l’onore di criticarmi”. Girard qui, nel dialogo con Maria Stella Barberi, prima lancia la pietra, poi ritira la mano - ma il sasso resta a terra, sul testo. Quante volte, con altri autori, ha riconosciuto con un ghigno e con l’usuale sarcasmo un’esitazione simile?


“Io sono fortemente mimetico. Sono polemico, e questo è il segno che sono mimetico”, al punto che “spesso è il desiderio di rappresaglia che mi spinge a scrivere, ma non si tratta di un tipo di vendetta molto efficace”, confessa Girard al termine de La pietra dello scandalo, uno dei suoi ultimi contributi alla teoria. Poteva essere altrimenti? Non di rado, le filosofie sono molto più autobiografiche dei romanzi – e Girard ha tentato qualcosa di molto più radicale, rispetto a una filosofia. L’isolamento accademico di cui è stato – o si è sentito? – vittima in Francia, la scelta di espatriare negli Stati Uniti prima come borsista e poi come professore, una dimensione politica e antropologica di difficile catalogazione – una fondamentale atopia caratterizza la sua posizione come uomo e come pensatore, questo pensatore che ha iniziato come paleografo (!), salvo poi creare un’architettura di pensiero che sovrapponeva criticamente quanto di meglio la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento avevano prodotto tra antropologia, psicoanalisi e critica letteraria. Che anche questa atopia fosse un’illuminata strategia difensiva rispetto ad ogni agone sacrificale? Molto avrebbe da dire su questo punto il darwinismo, e in generale il processo di ominizzazione, circa il quale Girard ne La pietra dello scandalo affermava di avere “delle idee in proposito, ma ancora incomplete”. Ma la cornice entro cui Girard ha dovuto o voluto lasciar confinata la sua teoria può anche essere espansa verso nuovi, vecchi quadri.

“La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”. Gesù, condannato a morte dalle autorità romane su pressione dei sacerdoti ebrei, diventa il Salvatore del mondo – o, perlomeno, colui che miliardi di persone in giro per il globo credono per tale. “La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”, in un senso meno trionfale, potrebbe voler dire anche che la vittima sacrificale, la vittima qualunque, possibilmente anonima, è alla base di ogni ordinamento e di ogni fondazione, e solo un’apocalisse potrebbe “ridurre a zero” ogni forma della nostra civiltà fino a far riemergere questa pudenda origo. Un’apocalisse di questa stazza è anche quella che sconvolge il palcoscenico delle tragedie, di alcune tragedie perlomeno, seppur in un senso ben difforme da quello che emerge dagli ultimi capitoli dei Vangeli, forse ancora più profondo, checché ne dica Girard. “La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo” poteva voler dire anche, forse, per la sensibilità di Girard, che una teoria antropologica spesso esecrata, equivocata, talvolta banalizzata quale fu la sua teoria mimetica, potesse essere quella chiave di volta da cui far scaturire una comprensione radicale dell’umano. Non amiamo gli assolutismi, ma possiamo timidamente concludere che a questa comprensione Girard quantomeno si avvicina. Resta da chiarire se veramente ogni rito è un rito sacrificale, almeno nelle sue fondamenta, oppure se Girard, per esaurire la comprensione di un determinato tipo di rituale fondativo, non sia stato costretto dal suo stesso sistema a “sacrificare” quella di molti altri, e non meno importanti.


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Ma qual è l’opposto del capro espiatorio, se, in una crisi mimetica come in ogni tragedia, tutto si gioca lungo coppie di polarità, attraverso doppi opposti e intersecantesi? Lo sapevano bene gli ebrei, che, secondo il Calasso de Il libro di tutti i libri, avevano un vero e proprio “terrore dell’elezione”. La voce divina, che indica il nuovo re, può tramutarsi fatalmente, in un soffio, nella voce che designa la prossima vittima. Nella Bibbia ebraica, non meno che sul palcoscenico ateniese, passare da re a vittime è la cosa più facile – lo stesso terrore, e lo stesso dubbio sull’elezione, alberga anche lungo tutta la prosa di Kafka, a ben vedere. Ma l’elezione, nella mentalità ebraica, non riguardava unicamente i re. L’elezione riguardava anche e soprattutto il Messia lungamente atteso – l’“unto del Signore”, etimologicamente parlando.

Almeno per quelle che erano le attese storiche del popolo ebraico al volgere dei millenni, al momento della dominazione romana, il Messia era il condottiero designato da J.H.W.H. per portare Israele alla liberazione. Si capirà la delusione di una parte del “popolo eletto” all’apparire di Gesù che, pur senza rinunciare a portare la spada sulla terra, non aveva simili velleità revansciste. Nei Vangeli, Gesù propaganda una liberazione che è innanzitutto morale e una salvezza che è essenzialmente ultraterrena – nei Vangeli, Gesù predica una verità, credendo nella quale chiunque, ebreo o “gentile” che sia, può essere salvato. Questa verità afferma che Gesù era veramente il Figlio di Dio e che, morto sulla Croce, è risorto dalla morte, primizia della Resurrezione che attende tutti gli uomini di fede – verità che Girard traduce, in termini antropologici, come lo smascheramento dell’arbitrarietà violenta che ha dominato in tutti i sacrifici espiatori consumatisi nei millenni prima dell’avvento di Cristo. Il Messia, in ogni caso, il Messia cristiano, è un liberatore del logos, un Confutatore, e un Affermatore a un tempo: colui che è destinato ad iniziare la predicazione, prima orale e poi anche scritta, la Buona Novella del perdono e della Resurrezione, reinterpretando sotto nuova luce le parole della Legge e dei profeti.

Nei suoi discorsi, Gesù lascia sorpresi gli interlocutori anche per la sua capacità elevatissima di commentare passi oscuri di quello che adesso chiamiamo Antico Testamento, svelandone i significati reconditi: una prassi che i Padri della Chiesa porteranno al parossismo estendendola anche a testi della letteratura greca e latina che nulla avevano a che fare con la rivelazione cristiana, in primis quell’Ecloga VII di Virgilio che sembrava rifarsi a un certo modello messianico. Lo stesso Girard, dal canto suo, venti secoli dopo la predicazione di Gesù fece sua questa tradizione di commento, rileggendo innanzitutto i miti classici e le tradizioni rituali di molte popolazioni in giro per il mondo, poi anche i “testi di persecuzione” e la Bibbia stessa, alla luce del convincimento dell’arbitrarietà del sacrificio originario, secondo lui dimostrato dagli stessi Vangeli con l’enfasi posta sull’innocenza del Cristo sofferente.

Ecco allora l’ambizione nascosta dell’impalcatura girardiana: proporsi come una sorta di integrazione messianica, come una parafrasi ulteriore del messaggio che Gesù aveva voluto lanciare agli uomini, e che non era stato ascoltato. Hanno orecchie, e non odono; hanno naso, e non odorano; hanno mani, e non toccano; hanno piedi, e non camminano; e non rendono alcun suono dalla lor gola. Girard non si propone, neanche implicitamente, come Messia, non stiamo dicendo questo: ma ambisce ad essere il suo più irrefrenabile commentatore, un san Paolo del XX secolo. Dioniso era definito con l’epiteto Lisio, “colui che scioglie” – dagli affanni, dai vincoli sociali. Gesù al contrario era il Liberatore nel senso conferito dal versetto veritas vos liberat, “la verità vi farà liberi”. Sin da titoli come quello de La voce inascoltata della realtà, Girard tenta di rendere esplicita la consapevolezza vittimaria di cui trasudano i Vangeli, con la rivelazione dell’innocenza di ogni vittima che è un corollario indubbio, ma non una dichiarazione esplicita, del Gesù evangelico. Si tratta di una mossa abissale, piena di orgoglio ma priva di vanità, come si addice a un pensatore cattolico che negli ultimi anni non temette di autodefinirsi “agostiniano”: ma ancor più che ad Agostino, ancor più che a san Paolo, Girard guarda verso Patmos, e dal canuto Giovanni si aspetta un gesto, un sorriso di approvazione.

Se il filosofo del diritto Carl Schmitt espresse una vera e propria fede, negli ultimi anni della sua vita, verso l’oscura figura paolina del κατέχον che “trattiene” e fa tardare l’Apocalisse, Girard ha l’ansia dell’acceleratore, vuole parlare Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo senza neanche un’allerta spoiler. Ma affrontare le κεκρυμμένα απò καταβολῆς vuol dire partecipare alla Redenzione senza portare il Regno di Dio sulla terra, non per tutti gli uomini perlomeno: ecco perché la rivelazione girardiana ha un tratto al tempo stesso elitario e accogliente, e un altro tratto del tutto paradossale, perché la verità non rende liberi né basta da sola a squarciare un velo di Maya, dona soltanto una maggiore consapevolezza. Guarda il sole, vedi Ra: sotto lo sguardo fisso di Girard, abbiamo imparato a scoprire il carattere assassino di ogni festa, l’ansia stragista di ogni fondazione, la necessaria violenza che soggiace ad ogni confine, e a qualunque rimozione. E con ciò? Praticamente? Cosa c’è da fare, qual è il messaggio ultimo, l’insegnamento, la morale? Girard indica qualcosa da cambiare nella società, o in noi stessi? O si illude che basti la consapevolezza, a impedire le stragi? Questo genere di domande non merita una risposta troppo secca.


***



“Il Messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui. Arriverà solo un giorno dopo il proprio arrivo, non arriverà all’ultimo giorno, ma dopo l’ultimo”, scrisse Franz Kafka nei suoi Diari all’indomani della Rivoluzione Russa. I segni dei tempi ci sono tutti, da decenni ormai, se non da secoli, ma ancora non si è udita la tromba dell’Arcangelo. A ben vedere, possiamo essere più d’accordo con Kafka che con Cristo.

La vera, grande sfida lasciata dall’avventura concettuale di René Girard è essa stessa un pensiero della fine, ma di una fine antropologicamente ben connotata. Viviamo infatti in tempi di crisi del rito - una diagnosi che un antropologo nostrano come Ernesto de Martino aveva formulato già diversi decenni prima Byung-chul Han decidesse di intitolare un suo scritto La scomparsa dei riti. Una topologia del presente. “Si tratta di un argomento sterminato” per ammissione stessa di Girard, che nel saggio Contro il relativismo ammetteva apertamente di poter appena sfiorare concettualmente: “mi accontento di osservare che il nostro mondo ha ormai soppresso, insieme alle differenze arcaiche e tradizionali, tutti i sacrifici sanguinosi che miravano a consolidarle”. Piangere sui riti perduti però sarebbe sterile, dal momento che, dall’altro lato, il nostro mondo “ha conservato e anzi moltiplicato i riti di buona reciprocità che esistevano già nel mondo arcaico”, doni e regali in primis.

Fra le varie polemiche che lo hanno visto oggetto, Girard si è dovuto difendere anche da questa distorsione programmatica: la misinterpretazione secondo cui il francese invocava un ritorno dei sacrifici. Ma Girard non è Hermann Nitsch. La sua tesi è opposta: Girard non disconosce, non vuole e non può negare, il fatto che nelle società antiche i sacrifici, umani o animali che fossero, giocavano un ruolo sociale e catartico importantissimo; ma questo equilibrio sacrificale è stato infranto dal cristianesimo e dalla sua apoteosi della vittima, dall’elevazione della croce; a questo punto non ha più senso invocare un ritorno ai sacrifici, o si finisce come Hitler; la sfida che la Storia e la religione hanno lanciato all’Occidente già duemila anni fa, e che l’Occidente non ha colto, stava proprio nel pensare fino in fondo la rivelazione cristiana. Dopo che il cristianesimo che ha messo in pratica il profetico “misericordia voglio, non sacrifici”, disfacendo gli altari pagani dopo il IV secolo, e dopo che quella minoranza corposa che è rimasta l’ebraismo è stata costretta a sua volta a ridimensionare la propria dimensione sacrificale dopo la distruzione del Tempio, l’Occidente non sacrifica, non apertamente perlomeno, da quasi millesettecento anni. Incapaci di sacrificio, e di riti in genere, perché troppo consapevoli: un’implicazione che sarebbe piaciuto a Nietzsche. Quest’impossibilità al sacrificio non ci ha risparmiato però dalle violenze arbitrarie, e dai capri espiatori: impassibili allora di catarsi, ci scopriamo anche incapaci di autocoscienza e retrospezione.

The nyhmphs are departed, piangeva Eliot. Forse non se ne sono andate, ma si sono arrese.

Concediamoci un paio di citazioni di altri autori, vicini a Girard se non altro perché, in Italia, appartengono tutti a tre alla medesima costellazione adelphiana, fratelli di editore se non di pensiero. Girard è stato forse il più grande dei pensatori cristiani in tempi di secolarizzazione, e a proposito della secolarizzazione lo storico italiano Carlo Ginzburg, di famiglia ebraica ma dichiaratamente non credente, ha scritto una delle sue migliori pagine, in quel Paura Reverenza Terrore in cui affrontava temi come l’attualità del Leviatano di Hobbes e l’associazione di arte, politica e religione ai tempi della Rivoluzione francese rinvenibile nell’iconografia dedicata a Marat all’indomani del suo omicidio. Si tratta di un passo che, del tutto indipendente dalle teorie girardiane, si riverbera nondimeno con decisione in direzione di esse.


L’“altra faccia della secolarizzazione” è, secondo Ginzburg, un’indebita “invasione della sfera del sacro” che, iniziata sotto l’Illuminismo, “è proseguita e, in forme contraddittorie, prosegue ancora”, perché “il potere secolare si appropria” sempre, “quando può, dell’aura della religione”. D’ora in avanti, anzi, da molti decenni a questa parte, “chi voglia provare a elencare le radici, molteplici ed eterogenee, dell’Europa dovrà menzionare anche la secolarizzazione: accanto al cristianesimo, di cui essa ha ripreso, mimeticamente, la tendenza ad appropriarsi dei contenuti e delle forme più varie”. Mimetismo, camaleontismo e infine cannibalismo caratterizzano il rapporto di ogni buon discepolo nei confronti del proprio rassegnato maestro: la secolarizzazione spontaneamente vampirizza il cristianesimo, così come il cristianesimo, perlomeno il cristianesimo storico, ha variamente vampirizzato le varie religioni della costellazione pagana. Se Girard più volte ha affermato nel corso della sua opera che svariati pensatori esponenti dell’età moderna, Nietzsche in testa, hanno utilizzato il cristianesimo stesso a mo’ di capro espiatorio, incapaci di rinvenire in esso la rivelazione esplicita dell’arbitrarietà di ogni vittima sacrificale, queste parole di Ginzburg sono una conferma indiretta e indipendente di questa tesi. La secolarizzazione stessa ha le sue fonti oscure e ripudiate, e, soprattutto, nell’ignorare il messaggio profondo dei Vangeli ripristina quel bisogno mitico di vittime sacrificali che negli ultimi anni ha avuto un nuovo, curioso sviluppo nel gusto popolare per i processi mediatici e i capri espiatori di ogni sorta, dal “paziente zero” del Covid ai potenti di Hollywood accusati di molestie o frodi fiscali.

L’altro passo che vorremmo citare, per il suo asintotico legame con l’immaginario che fa da scenario a Girard più che con le sue teorie strictu sensu, viene direttamente dal suo editore italiano, e anche autore motu proprio, il già citato Roberto Calasso, da quell’impareggiabile volumetto sul contemporaneo che è L’innominabile attuale. L’argomento di questo frammento è, anche qui, la secolarizzazione, un processo assorbente strettamente imparentato con la democrazia, intesa come un fragile “insieme di procedure, che si pretendono capaci di accogliere in sé qualsiasi pensiero, eccetto quello che si propone di rovesciare la democrazia stessa”. Se per Ginzburg la secolarizzazione si nutriva mimeticamente dei concetti e dell’iconologia del religioso, per Calasso è una questione di rimozione, di un’amputazione che si spinge fino a sfiorare l’autolesionismo. “Non potendo nominare, secondo le regole di un canone, ciò che adora, la società appare condannata a una superstizione nuova e insinuante: la superstizione di sé stessa, la più difficile da percepire e da risolvere”. Ecco qui un nuovo, meraviglioso passe double: la società secolarizzata non ha altro dio all’infuori di sé ma, esauritasi la possibilità delle religioni storiche di diventare loro malgrado capri espiatori di un’intellighenzia orgogliosamente laica, non ha neanche altre vittime sacrificali disponibili al di fuori del suo vasto corpo. Ecco allora spiegati l’ansia dell’atomica, il contrapprezzo della tecnica: “è come se l’immaginazione si fosse amputata, dopo millenni, della sua capacità di guardare oltre la società, alla ricerca di qualcosa che dia significato a ciò che accade all’interno della società”, e in questo “audacissimo” nichilismo di accatto non si guasta a immaginare, esorcisticamente, la propria autodistruzione.

“Sto cadendo troppo in fretta per prepararmi a questo/Inciampare nel mondo potrebbe essere pericoloso/Tutti mi girano attorno come avvoltoi/Tutti aspettano la caduta dell’uomo/Tutti pregano per la fine dei tempi/Tutti sperano di poter essere l’unico, l’eletto”. Sembrerebbero i versi di una brutta poesia di ispirazione millenaristica e neocristiana, sono le prime due strofe di Whatever It Takes, un’orecchiabile canzone pop degli Imagine Dragons, tra le band più popolari al mondo. Una piccola, ulteriore conferma di quanto l’immaginario religioso, tra elezione (everybody hoping they could be the one) e vittimismo (everybody circling, it’s vulturous), sia radicato tuttora nella mentalità occidentale, fin nelle più innocenti hit di YouTube.

In piedi sull’orlo del cratere: è questa la posizione di ogni uomo occidentale in questa congiuntura dei tempi, tra guerre, pandemie, surriscaldamento globale e altri “segni dei tempi” che - oltre a rinnovarci il ricordo di una promessa mancata di un’apocalisse trionfale ed escatologico del Cristo nella sua parusia - contribuiscono ad accrescere l’impressione che la fine della civiltà non sia un’ipotesi così fantascientifica. In passato, anche nel passato più arcaico, qual era la forza frenante, il κατέχον ante litteram, che esorcizzava questo rischio? A dare ascolto a un pensatore liminare quale fu l’Ernesto de Martino de La fine del mondo, una funzione esorcistica impareggiabile la svolgevano proprio i riti collettivi, nel loro rapporto con i miti di ogni civiltà, con la loro essenziale funzione di “restaurare la presenza” ad ogni momento di crisi.

Chiedersi che fine fa una società senza riti è un po’ troppo retorico, perché in una società senza riti, senza riti propriamente detti, ci viviamo già, e da tempo - e questo porta a miriadi di altari. I convenevoli del quotidiano fatti preghiera. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare sé stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. Non avendo altro da sacralizzare, la società sacralizza sé stessa, il proprio tempo lineare, la propria noia – il verdetto di Calasso e di Carmelo Bene, qui colto nel monologo di Nostra Signora dei Turchi, converge. Quasi esplode. In tempi di secolarizzazione, la società ha deliberatamente perso ogni senso e ogni significato trascendente - e ha dimostrato a sé stessa e ai suoi critici di non averne bisogno, o perlomeno di non sentirne il bisogno. Il che è lo stesso, visto che questo genere di autocoscienza non può essere inculcata.

“Bada ai tuoi passi, quando ti rechi alla casa di Dio”, ammoniva l’Ecclesiaste, il passo più grave e denso di tutta la Bibbia – il più antimessianico, a detta di Calasso. “Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono neppure di far male”. È forse proprio qui la radicalità della lezione di Girard, questo stare ad ascoltare - un grido inerme. Anche per questo è impensabile cavare da Girard una ricettina, una simple proposal per affrontare la secolarizzazione e i suoi fantasmi, quale invece si può trovare, in maniera pregnante e processuale, in un James Hillman, per fare un nome tratto dalla tradizione psicoanalitica degli ultimi decenni. L’ascolto, insomma, l’ascolto delle vittime – in principio era l’Urlo. C’è qualcosa – nel bene, e nel male – di più cristiano di questo?


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