Quando leggiamo nella Teogonia di Esiodo di una serie di unioni, come quella di Urano e Gaia, che letteralmente danno vita alla teogonia e alla cosmogonia è facile pensare che in fondo sia alla modalità in cui si genera un essere umano che devono essersi “ispirati” (termine volutamente generico) gli antichi Greci. Il “ragionamento” (se così lo vogliamo chiamare) è abbastanza semplice e chiaro: il modo con cui aveva preso vita la comunità degli uomini doveva essere lo stesso con cui aveva preso vita la comunità degli dèi e il mondo.
Ampliando lo sguardo su racconti di altri popoli si scopre che tutto sommato se questo ragionamento non è spontaneo, quanto meno è molto facile concepirlo, vista la diffusione. L’antropologo James G. Frazer confronta proprio il caso di Urano e Gaia con una serie di altri molto simili.
In Africa gli Ewé del Togo raccontano che la Terra è la madre sia degli dèi sia degli uomini. Si unisce al Cielo nella stagione delle piogge e dalla loro unione tutto germoglia e fruttifica. Anche nelle regioni del Senegal e del Niger si ritrova l’unione di Terra e Cielo, da cui sono nati i principali spiriti che dispensano benessere o sventura. Lo studioso Mircea Eliade nel suo importante Trattato di storia delle religioni ci assicura che il motivo della coppia Cielo e Terra è presente praticamente in tutti i continenti.
Ma nel suo trattato Eliade ci informa anche di un altro genere di cosmogonia, altrettanto diffuso e più conflittuale, per non dire brutale, ovvero quello basato su un’uccisione. Lo storico delle religioni molto giustamente raccoglie l’intera serie di casistiche nell’unico schema che le unisce: che sia un dio come Prajāpati, un mostro primordiale come Tiamat o Ymir, un macrantropo come Puruṣa o un animale primordiale come il toro Ekadath, l’elemento comune è il fatto che è la vittima di un sacrificio senza il quale il mondo non ci sarebbe.
A questo punto, proseguendo il discorso di prima, dovremmo chiederci a cosa si siano ispirate le antiche comunità per concepire simili cosmogonie tanto drammatiche, come abbiano stabilito un simile legame tra l’uccisione di un singolo e la creazione dell’intero cosmo. Il termine “sacrificio” è al tempo stesso di aiuto e fuorviante. Di aiuto perché ci permette di continuare sulla strada per cui è da una situazione interna alla comunità umana che bisogna partire, esattamente come il caso dell’unione sessuale. Fuorviante perché si corre il rischio di illudersi di risolvere il problema con il rimando a un sacrificio rituale, mentre in realtà esso non risolve nulla, sposta solo il problema: bisogna poi chiedersi il senso di un tale sacrificio. Di conseguenza è indifferente se a questi miti è possibile associare sacrifici svolti durante cerimonie o meno.
L’unico modo per fornire una soluzione soddisfacente è quello di indicare una dinamica altrettanto spontanea e rilevante nella comunità quanto lo è l’unione sessuale. Deve essere altrettanto rilevante perché altrimenti non si spiega come possa essere anch’essa una fonte di ispirazione per l’elaborazione di una teogonia, altrettanto spontanea perché anch’essa deve spiegare casi distribuiti in tutto il mondo. E l’unica teoria che soddisfa pienamente questi requisiti è quella del meccanismo del capro espiatorio di Girard, secondo cui nel momento di crisi (rappresentato nei miti cosmogonici dal caos primordiale) a causa delle rivalità tra membri della comunità (le ragioni possono essere qualunque) l’unica soluzione spontanea per salvarla dall’autodistruzione è che l’ostilità di tutti si rivolga contro uno solo. Tutti devono convincersi che è lui il colpevole della crisi, così attraverso la sua morte l’unanimità è ritrovata e un nuovo ordine viene instaurato.
È forse sorprendente che partendo dai miti cosmogonici, che da un certo punto di vista sono ancora più fantasiosi degli altri, siamo approdati a una teoria che ritiene di poter documentare un fatto storicamente avvenuto. Eppure il percorso è stato lineare.
I primitivi non fantasticavano in maniera consapevole, questo è indiscutibile. Perciò il loro tentativo di essere “empiristi”, per quanto ingenuo, deve essere riscontrabile. La non totale separazione tra il mondo e gli dèi lo testimonia. E anche la loro vicinanza al mondo umano lo testimonia, il fatto per esempio che creano con un’unione sessuale. Allora la vera domanda è: perché pensare che quando invece commettono un’uccisione si stia rifuggendo dalla realtà per entrare in un mondo solo di fantasia e simboli?
La vera sorpresa non è essere approdati a una certa teoria e proprio per il suo “realismo”, cioè l’aspetto che ragionando in astratto è più problematico, la vera sorpresa è che se fino un momento prima affermare quell’“empirismo religioso” di cui parla La violenza e il sacro di Girard è la cosa più ovvia, un momento dopo è la cosa più scandalosa.
Finché si tratta di unioni sessuali tra dèi considerare i primitivi “empiristi” è talmente ovvio che perlopiù neanche se ne parla perché non c’è nulla da discutere, appena si passa alle uccisioni questo empirismo scompare di botto, i primitivi non sono più “empiristi” ma fanatici dei simboli. Come se potessimo pensare che la violenza loro non l’abbiano mai vissuta, potessero solo immaginarla e solo per rappresentare qualcos’altro.
Atti di generazione e di uccisione si intrecciano nei miti. L’ipotesi di una violenza reale all’inizio era presente, ma come si diceva prima, l’evento deve essere di importanza fondamentale per la comunità e in senso positivo e questo nessuno lo riusciva a spiegare. Da qui l’abitudine a rifugiarsi in altri generi di lettura, senza che – e questo è interessante – il vecchio si abbandonasse del tutto. Nel caso delle unioni tra divinità femminile e maschile non lo si poteva abbandonare senza mostrare in modo palese che ci si stava complicando la vita. Una volta trovata la spiegazione del “miracolo” della fine della crisi è l’abitudine, non la prudenza la fonte del rifiuto della realtà del linciaggio.
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