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La trasparenza mimetica dei giapponesi | Appunti propedeutici agli articoli di nipponica

Aggiornamento: 3 feb 2021

Haruhi Suzumiya saggia l'effetto della coda di cavallo su Mikuru Asahina e su Kyon (fuori campo), da "La malinconia di Haruhi Suzumiya", episodio 7

È convinzione maturata dai alcuni membri di questo blog che la narrativa giapponese, colta o popolare, dimostri una particolare trasparenza o sensibilità ai fenomeni di desiderio mimetico studiati da Girard. L'eccezionalità rivelativa di alcune di queste narrazioni è tale da meritare una riflessione introduttiva, soprattutto se si considera che, parlando di manga e anime, si tratta di opere di artefici plurali, accomunati solo dalla provenienza geografica e, si suppone, da un certo impianto culturale ed esistentivo di fondo.

Il tentativo di individuare un proprium della cultura giapponese ha precedenti illustri, sia in occidente che in Giappone. Si riconosce un'unicità del giapponese e se ne vuole decifrare il mistero. In passato si è indicata la tendenza a costruire ragionamenti consimili con il termine un po' serio un po' faceto di Nihonjinron (studi sui giapponesi). Il lettore se ne può fare un'idea sulla pagina wikipedia dedicata.

Il nostro lavoro si basa sul presupposto che una specificità giapponese – ibridata, certo; non rigidamente identitaria, certo – esista anche per quanto riguarda i fenomeni mimetici. In questo articolo mi propongo di sciorinare, senza pretesa di sistematicità, quelle caratteristiche del giapponese che a mio giudizio testimoniano, e forse giustificano, la sua maggiore sensibilità al discorso sul mimetismo.


Ineguaglianza e gerarchia

È quasi un luogo comune che la società giapponese sia fortemente gerarchizzata e caratterizzata da uno scarso attaccamento ai valori dell'uguaglianza. Una delle testimonianze più interessanti in questo senso viene dal saggio di Ruth Benedict Il crisantemo e la spada (1), un classico dell'etno-antropologia che sviscera le strutture sociali e relazionali più profonde – e invisibili agli occhi dell'oriundo, che vi è assuefatto dall'infanzia – della società giapponese.

Con riferimento alla celebre analisi di Tocqueville, che nell'egualitarizzazione della società americana vedeva al contempo una prefigurazione del futuro dell'Occidente e un rischio per l'incancrenirsi di sentimenti di frustrazione e invidia sociale, Ruth Benedict contrappone l'impianto gerarchico e artistocratico della società giapponese all'egualitarismo dei propri connazionali americani, «la loro fiducia nell'ordine e nella gerarchia e la nostra fede nella libertà e nell'uguaglianza» (p. 55). «Concezioni antitetiche» dice, e a ragione. Saper stare al proprio posto («Know your place», come in molte sottotitolazioni anglofone di anime negletti in Italia) rappresenta un valore fondamentale del giapponese, nel 1945 come oggi.

Un esempio classico dell'importanza storica della gerarchia in Giappone è costituito dalle rivolte contadine di epoca shogunale. Se un contadino, ribellandosi a un daimyo (feudatario) troppo esoso, osava protestare, presentandosi senza autorizzazione al cospetto di un dignitario maggiore, infrangendo gravemente l'etichetta e la gerarchia, era possibile (la Benedict parla di un buon 50% di casi) che la rimostranza fosse accolta e l'oppressore condannato a beneficio dei contadini. Ciò testimonia una qualche sensibilità del giapponese nei confronti dell’idea occidentale-illuministica di giustizia liberale. Eppure, anche qualora la rimostranza fosse accolta, e la bontà della protesta riconosciuta, i contadini ribelli dovevano essere comunque condannati a morte per aver infranto la gerarchia e osato ribellarsi ai superiori. Questo in osservanza «della legge e dell'ordine», che non potevano soccombere nemmeno alle istanze della giustizia pur assunta a valore (2).

Un esito simile sarebbe giudicato assurdo, e a ragione, nel nostro occidente; non nel Giappone ligio all'Ordine del Mondo, dove il rispetto sordo e rigoroso dell’etichetta tradizionale vige come garanzia di tenuta della struttura sociale.

Girard è stato molto chiaro riguardo alle conseguenze della Rivoluzione francese per il nostro Occidente: egli riconosce nell'egualitarizzazione della società una delle prime cause dell'incancrenirsi dei fenomeni di mediazione interna su scala mondiale. La promessa tripartita dei borghesi di Parigi (liberté etc etc...), diffusa come vangelo di salvezza presso tutti gli angoli del globo, ci ha resi certo più sensibili al pensiero dell’identità fondamentale degli uomini, ma ha comportato in pari grado una generalizzata esasperazione dei fenomeni di mediazione interna, di cui lo snobismo, il torpore esistenziale e la farsizzazione dei nostri tempi sono i mascheramenti ultimi.

Il Giappone, che pure ha conosciuto l'egualitarizzazione, ma dalla bocca del "maestro" occidentale – ha assunto cioè l'egualitarismo a sistema in un'ottica di discepolato culturale – ha evidentemente introiettato il mantra dell'uguaglianza senza venir meno alla propria tradizione aristocratica e gerarchica. Ciò non ha comportato automaticamente una migliore tenuta nei confronti della frustrazione mimetica, né una maggiore sensibilità romanzesca – non è questo che si vuol dimostrare, per ora –, ma la residuale tenuta di un impianto sociale aristocratico e gerarchico, di cui Girard ha dimostrato la natura antidotica alle crisi sacrificali, sembra un'astuzia da vecchia volpe mimetica, una sotterranea sapienza del giapponese che, riconoscendosi desiderante, e desiderante forte, guarda con terrore alla caduta delle strutture gerarchico-catecontiche e quindi alla disinvoltura delle relazioni sociali "democratiche", all'americana, improntate a una totale dissimulazione delle differenze socio-economico-culturali, in una posa di frontalità scevra da differenze che è sistematicamente smentita dall'ordinamento meritocratico e dal liberismo rigoroso degli americani, i quali producono strati di disuguaglianza molto più accentuati, ma dissimulati dal mantra possibilista («you can do it»), che restaura l'ugualianza potenziale – cioè la possibilità della sopraffazione non regolamentata dalla gerarchia. L'uguaglianza, per il giapponese, è «sogno americano» in più di un senso.


Verticalità dei rapporti e tenuta dei gruppi

Anche Chie Nakame, nel suo importante saggio La società giapponese (3), attesta la natura assolutamente gerarchica dell'impianto sociale giapponese. La sociologa parte dall'analisi del mondo del lavoro giapponese per formulare considerazioni di ordine generale sulla società, la cultura e la prassi delle relazioni quotidiane nel Sol Levante, evidenziando in particolare la "verticalità" dei rapporti che vi si instaurano.

In ogni ambito della società giapponese i "superiori" (di norma perché più anziani) condizionano verticalmente i rapporti orizzontali tra gli "inferiori" con una rigidità di cui l'occidentale non finisce di stupirsi. Quando si parla di gruppi di persone – non solo di lavoro – e della loro organizzazione interna, Chie Nakane propone due schemi esemplari (4):

Il diagramma di sinistra (X) rappresenta l'organizzazione dei gruppi strutturati verticalmente, quello di destra (Y) l'assetto dei gruppi cosiddetti orizzontali. In linea di massima, lo schema di sinistra rappresenta l'assetto organizzativo giapponese e quello di destra l'occidentale.

Nel gruppo di destra, orizzontale, ogni membro è perfettamente sostituibile, la sua posizione relativa non costituisce un termine di riferimento per gli altri membri. C'è circolazione e sostituibilità, le differenze tra membro e membro sono estremamente labili. Con un salto concettuale forse rapido ma potenzialmente illuminante: c'è sempre possibilità di crisi mimetica.

Nel gruppo di sinistra, verticale, ogni nuovo ingresso è vincolato alla preesistente relazione tra i membri del gruppo originale – e così ogni nuova relazione. La relazione tra b e c nello schema di sinistra è condizionata – ovvero mediata – dalla presenza di a, senza il quale non esiste semplicemente possibilità di relazione. Nella struttura di sinistra, quindi, “è impossibile per due o più persone affiancarsi in parallelo o in termini di uguaglianza”. Tradotto nei termini a noi convenienti: tale struttura garantisce la tenuta di un'organizzazione assolutamente stabile, nella quale non c'è spazio per crisi differenziali come quelli che hanno condizionato il mondo europeo dal 1789 a oggi – e che condizionano invece i gruppi orizzontali. La struttura sociale giapponese, con la disattivazione di tutti i rapporti orizzontali non mediati da una rigida logica di primato gerarchico, sembra intesa in primo luogo a scongiurare l'incancrenirsi della mediazione interna, imponendo a ciascun membro di un gruppo un ruolo e una collocazione ben definiti all'interno di una gerarchia non rivedibile.


Oyabun e kobun

La solidità della gerarchia giapponese, antimimetica e strutturata per la prevenzione delle crisi sacrificali, è garantita in prima istanza dal dualismo oyabun-kobun. "Oyabun è una persona che occupa la posizione di oya (genitore); kobun indica chi si trova nella posizione di figlio (ko)" (4). Secondo la Nakane i giapponesi, a prescindere dalla posizione sociale e dalla professione, strutturano le proprie relazioni in termini genitoriali e filiali, ovvero mettendosi nella posizione di maestro o discepolo, padre o figlio. Una riflessione analoga è quella proposta da Takeo Doi sull'amae come componente essenziale delle relazioni giapponesi, che lo psicologo riconduce al primato della relazione genitore-figlio – anche se con la differenza importantissima del ruolo materno. Di questa tendenza sono testimoni lucidissimi alcuni importanti romanzi giapponesi del Novecento, come Kokoro di Natsume Soseki, e alcuni anime di cui ci stiamo occupando in altri articoli, come Ping pong – the animation. In questi grandi esempi è evidente come la relazione oyabun-kobun consista in una forma di vassallaggio mimetico, nel quale l'inferiore ambisce ad acquisire la pienezza metafisica del superiore tramite un rapporto di maestria. (5)

È fondamentale comprendere che l'inversione dei ruoli in questi rapporti è percepita, diversamente dall'occidente – dove l'alternanza maestro-allievo è incoraggiata e determina anche, secondo alcuni psicologi, le fondamenta di un rapporto sano – come un pericoloso sovvertimento dell'ordine gerarchico. Di ciò sono testimoni, da un lato, l'etichetta e il formalismo esasperati dei giapponesi e il loro proverbiale conservatorismo. Analogamente – e non è un caso che sia così apprezzata nel Sol Levante – la tragedia shakespeariana muoveva da un sovvertimento dell'ordine catecontico che la prudenza dei secoli aveva contrapposto all'insorgenza incontenibile delle crisi mimetiche, e di cui il nostro Ancièn régime era l'ultimo baluardo storico-istituzionale.

I giapponesi, condizionati nel passaggio all'età contemporanea da un rapporto altrettanto mimetico-gerarchico come quello con gli americani – veri oyabun del Giappone Meiji – non hanno introiettanto quanto gli europei la rottura dell'ordine gerarchico che tale evoluzione ha comportato. La società capitalista, il mondo della competizione deregolata, della sostituibilità individuale, della riproducibilità tecnica – in una parola, il mondo della crisi mimetica assunta a sistema –, tutte queste cose non sono un destino, per il giapponese. Sono un insegnamento, e come tale essi lo hanno fatto proprio – e, potremmo anche dire, hanno saputo tenersene a distanza, senza esserne fagocitati come noi occidentali, che non riusciamo a uscire dalle gabbie ideologiche del libertarismo-liberalismo-liberismo anche quando ne proclamiamo il fallimento.


L'individualismo come mito occidentale

Nel saggio Anatomia della dipendenza (6), lo psicologo giapponese Takeo Doi, con acume tutto europeo, di cui sarebbe contento Max Weber, cita il proverbio "Aiutati che Dio t'aiuta" come manifesto dell'ideologia libertaria e individualista occidentale, e non a caso ne ritrova la prima testimonianza negli Outlandish proverbs di George Herbert, pubblicati nel 1640 – agli albori del grande capitalismo nordeuropeo, presupposto e fondamento di tutta la contemporaneità sociale e culturale dell'occidente.

All'individualismo e all'esaltazione occidentale della libertà del singolo, Takeo Doi contrappone la vocazione del giapponese alla dipendenza dall'altro, riassunta nella parola chiave amae, che indica il rapporto di amore passivo, la domanda d'affetto incondizionato del figlio nei confronti dei genitori, e che lo psicologo giapponese estende alla totalità o quasi dei rapporti umani tra giapponesi.

Ciò che più indispettisce gli occidentali dell'estetica giapponese nella caratterizzazione dei personaggi è l'eccesso emotivo, la drammatica reazione al senso di inadeguatezza che il giapponese percepisce sotto lo sguardo d'altri. Questo è tecnicamente amae, dipendenza dal giudizio – ovvero dal desiderio o meno – degli altri. La possibilità di tale dipendenza dagli altri è ciò che più in assoluto spaventa l'occidentale, perché ne mette in questione l'ideologia individualista e libertaria, il loro – nostro – senso di indipendenza e autodeterminazione, ovvero la menzogna romantica: I me and myself, e degli altri non mi curo. Un esempio calzante: il lessico psicanalitico giapponese, come quello di moltissime altre scienze nelle quali il Sol Levante è stato istruito dal maestro occidentale, è quasi totalmente composto di prestiti linguistici, fatto salvo il termine taijin kyofu, unico tecnicismo psicanalitico oriundo. Vuol dire: «ansia nei rapporti con le altre persone».

Gli occidentali, secondo Takeo Doi, sono vittime di un'amae latente (7), ovvero dell'incapacità di accettare pienamente la logica di dipendenza che lega le persone le une alle altre – e della quale l'individualismo e il mito della libertà non sarebbero che un camuffamento. Al contrario i giapponesi sarebbero semplicemente più onesti nei riguardi di quel sentimento umano fondamentale – chiamalo amae, desiderio mimetico, dipendenza d'altri – che l'occidente, privatosi delle strutture contenitive del passato, sente oggi come la prima e più grande minaccia alla mitologia della libertà con la quale ha deciso di costruirsi un'immagine di adulto saldo e ben fatto. Non si può pretendere di esportare la democrazia senza sembrare almeno un po' adulti!


L'amae e il desiderio mimetico

Il lettore potrebbe sentirsi disorientato dalla lestezza con cui ho equiparato amae, dipendenza da altri, amore passivo e desiderio mimetico. Provo a spiegarmi.

Dopo aver definito amae come il rapporto di dipendenza psicologica del bambino nei confronti della madre, e quindi un desiderio di amore passivo, Takeo Doi precisa ulteriormente il concetto collegandolo al fenomeno dell'identificazione, ovvero il processo di imitazione del comportamento di un modello autorevole e la conseguente costruzione di un'identità nei bambini. Amae è quindi legato essenzialmente al desiderio che dall'altro proviene al soggetto, e che concorre a garantirne l'esistenza come desiderabile – quindi, l'identità, o una sua versione deteriore.

Mi sembra che alcuni plessi concettuali nostrani, propriamente o trasversalmente girardiani, come la nozione di civetteria o meglio ancora il desiderio di riconoscimento hegeliano-kojeviano, abbiano moltissimi punti in comune con questo fenomeno (8). La civetteria, secondo Girard, è il risultato di uno sdoppiamento ad opera del quale la civetta desidera sé stessa in qualità di oggetto del desiderio di un altro – si intende che si tratta di un fenomeno non essenzialmente femminile. La civetteria maschera abilmente il desiderio triangolare perché si struttura tra due sole persone, una delle quali risulta sdoppiata in desiderante e desiderato. Tale fenomeno rientra nei casi di mediazione interna e conduce a impasse e contorcimenti analoghi. Esso ha però l'effetto di garantire la civetta del possesso di una superiore virtù metafisica, ovvero di una "preziosità" della propria persona che costituisce, mi pare, l'analogo della creazione di un'identità cui mira il processo di identificazione – e quindi il desiderio di riconoscimento. L'amae, desiderio di amore passivo, è forse una variante "soft", ovvero lo stadio preparatorio della civetteria, che dell'amae e del desiderio di riconoscimento costituirebbe uno sviluppo morboso? Lo stesso Doi fa notare che la simulazione d'indifferenza – che Girard riconosce come proprium della logica della civetta – si accompagna spesso all'amae identificativo come stadio precedente o successivo alla scelta del modello (9). Personaggio esemplare in questo senso è il Kiyoaki del romanzo Haru no Yuki, di Yukio Mishima.

In sintesi: amae è desiderare altri in quanto altri desiderano me e mi garantiscono della mia pienezza metafisica con lo spettacolo del loro desiderio per me. Costituendosi come il desiderio del desiderio d'altri, esso è a tutti gli effetti un fenomeno mimetico, ovvero mediato.


Conclusioni

Ho elencato in forma abbastanza rapsodica alcuni nodi cruciali della peculiare trasparenza mimetica dei giapponesi. Li riassumo di seguito: 1) la rigidità gerarchica della società e 2) la verticalità delle relazioni di gruppo, concepite per incanalare il mimetismo senza sfociare nella crisi mimetica conseguente all'instabilità dei ruoli e delle differenze; 3) la produttività sociale della relazione maestro-allievo; 4) l'onnipresenza della logica di amae e il conseguente scetticismo nei confronti dell'individualismo occidentale; 5) la prossimità dei concetti di amae e civetteria.

Ho già detto che si tratta di riflessioni episodiche e molto poco esaustive. Mi rendo conto che l'analisi di un tema di questa portata meriterebbe ben altra cura. La speranza è che gli spunti raccolti in questo articolo – e forse in alcuni successivi – servano a ispirare un'analisi più esaustiva o quanto meno a dimostrare per difetto la sua necessità.


(1) R. Benedict, Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, Laterza, Bari 2017.

(2) Ibid., p. 77.

(3) C. Nakane, La società giapponese, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.

(4) Ibid., p. 65

(5) Rimando all’articolo introduttivo alla serie di Ping Pong per un approfondimento sulla relazione di maestria.

(6) T. Doi, Anatomia della dipendenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991.

(7) Ibid., p. 98.

(8) R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965, pp. 92-94.

(9) Per una riflessione più completa e in qualche misura divergente sul fenomeno della civetteria, rimando agli articoli di M. Bisoni su "The Neon Demon".

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