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Le strategie fatali | Discorso e responsabilità in "Paranoia Agent"

Aggiornamento: 26 gen 2021

Una risata, dicevamo, vi seppellirà

Disclaimer: questo articolo è un perfetto spoiler dell’anime cui è dedicato. Ma davvero si può spoilerare – rovinare – un’opera di Satoshi Kon?


Il primo episodio di Paranoia Agent apre su una Tokyo assolata dove si intrecciano le vite di personaggi anonimi appesi ai propri telefoni che rimandano impegni, accampano scuse e cercano insomma una via di fuga dalle responsabilità. Poche scene dopo, la designer Tsukiko Sagi, non riuscendo a rispettare le scadenze di lavoro, simula un’aggressione da parte di un immaginario ragazzo armato di mazza da baseball, Shonen Bat, il cui spettro in qualche modo prende vita e comincia ad aggredire tutti i personaggi che per vari motivi sono stati messi spalle al muro alla vita e “non ce la fanno più”. Il vice-ispettore Ikari e il suo giovane assistente Maniwa indagano sulle incredibili aggressioni di Shonen Bat e precipitano sempre più a fondo in un gorgo narrativo nel quale realtà e immaginazione sono intrecciate indissolubilmente.


Nulla di quello che vediamo succedere in Paranoia Agent è reale – eppure tutto, in qualche modo, è vero. Il merito intellettuale di Satoshi Kon, che potrebbe sembrare un limite dal punto di vista narrativo, è di aver abbandonato definitivamente la petizione di principio del causalismo in una forma tanto radicale da abolire persino la consolazione di una spiegazione basata su una soggettività psicotica e allucinata. I delitti di Shonen Bat non sono il sogno di Tsukiko Sagi, dalla quale pure tutto nasce. I personaggi partecipano allo sviluppo della narrazione tanto quanto gli oggetti – il pupazzo Maromi, i fantasmi delle statuine sexy che guidano l’ex ispettore, improvvisato supereroe, verso la soluzione del caso. Spettri di plastica partoriti dall’immaginario otaku e persone in carne e ossa si colpiscono e si feriscono, il sangue sgorga realmente dalle ferite aperte dalla mazza di Shonen Bat. Paranoia Agent non è un sogno dal quale i personaggi dovrebbero svegliarsi, come potrebbe far pensare la sequenza finale di ogni episodio. Paranoia Agent è l’incubo di un mondo postmoderno nel quale la realtà e l’immaginario si sono fusi fino a costituire una trama inconsutile, dietro la quale non c’è nulla, non c’è mondo della veglia verso il quale tendere come alla redenzione. Il mostro, l’ibrido malsano di persone e cose, di realtà e immaginazione, è la Cosa Stessa. Ad essa i personaggi oppongono, subendole, le strategie fatali della paranoia, lanciano – e sono lanciati – dai segni arbitrari che sventano il dispositivo causale e insieme reinnescano il suo concatenarsi fatale (1).

Shonen Bat è reale, anzi più reale della realtà, come il pupazzo Maromi, i cui effetti narcotici e assolutori – nel duplice senso di “dissolutori” e “dispensatori di assoluzione” – sono in effetti la stessa cosa del fantasma con la mazza da baseball. Egli – il mostro ShonenBat/Maromi – è la Fuga: divinità post-umana che chiama fuori dall’Aperto delle responsabilità i personaggi straziati da una falsa promessa di Grembo – la società dei consumi – che tenta nevrastenicamente di abolire il negativo dall’esistenza. Mi scuso per il gergo oracolare, ma certe cose non si sanno proprio dire in termini più semplici. Ovvero: esistono infiniti modi di dire la nostra condizione, nessuno dei quali può coglierne la sostanza in maniera esaustiva. Forse solo certe narrazioni ce la fanno, come Paranoia Agent, di cui quest’articolo può ambire solo ad essere un balbettante invito alla visione.

Non c’è, a riguardo di questa serie, difetto tecnico che in qualche modo ne pregiudichi la grande e compiuta idea, che tratteggia l’essenza della nostra civiltà in maniera tanto netta da non lasciare ombre, nonostante l’incompiutezza narrativa solo apparente. Tutto è in nuce, in quest’opera – e alla somma capacità di sintesi di Satoshi Kon vorrei prestare zoppicante omaggio, rendendo questo articolo più breve certo dello spazio che un’analisi di questo tipo meriterebbe. La opening – forse la più bella e compiuta che si sia mai realizzata – dice precisamente tutto, al netto dell’involuzione cui indulge la storia: una ridda di personaggi immobili in mezzo al disastro ridono di un riso nevrotico e forzato, gli occhi spiritati o spenti, mentre una gloriosa sinfonia sembra celebrare e assolvere la loro tragicomica esistenza.


Il vero perno morale della serie – il personaggio in assoluto più sublime, “un uomo immenso”, come dice la moglie Misae – è l’ispettore Ikari, che intrattiene con il suo omonimo di Evangelion, Shinji Ikari, un rapporto di perfetta opposizione speculare. Non so se la scelta del nome sia intenzionale – ma nell’universo paranoide poco importa. Come Shinji rappresentava, per la generazione degli otaku, il consuntivo di una pratica di vita incentrata sulla fuga dalle responsabilità della vita adulta, al contrario l’ispettore Ikari è colui che fino all’ultimo cerca di affrontare le tremende chiamate dell’esistenza senza cedere alle lusinghe di un escapismo illusorio. È un uomo il cui mondo è tramontato, che non capisce bene cosa stia succedendo – e lo vediamo ribadire con snervante ripetitività la semplicistica distinzione di realtà e immaginazione, mentre gli altri personaggi – e gli spettatori con loro – accolgono le sue uscite con un sorriso di sufficienza. Eppure, anche l’incorruttibile ispettore, a un certo punto, è sedotto dal richiamo di Maromi, dalla voce che nega fortemente lo Schuld, la colpa/responsabilità universale a cui ogni singolo è chiamato. E infatti Ikari rientra sempre più di rado a casa dalla moglie malata, ne evita la compagnia, e alla fine si lascia trascinare in un illusorio sobborgo giapponese degli anni Sessanta che riproduce il suo mondo ormai tramontato, dove la donna che con il suo terribile amore l’aveva incatenato non esiste più. Nonostante questo cedimento, è con un sorriso che, alla fine, commenta i fatti incredibili cui ha assistito, forte del suo magnifico, sublime riduzionismo: “Tutto per colpa di uno sgorbio di cane! In che razza di mondo assurdo viviamo!” – e quello è il sorriso di chi ha accettato nuovamente di stare dentro la tempesta, fuori dalla colla zuccherosa del Lustprinzip, fuori dal grembo della madre, in quel tremendo Aperto dove nulla ha sembianza di casa e dove l’uomo è chiamato immancabilmente a stare.


Maniwa, il giovane assistente dell’ispettore Ikari, cedendo alla seduzione della logica di questo mondo – alla perfetta compenetrazione di realtà e immaginario, ingrediente segreto della cultura otaku – mette insieme tutti i pezzi del mosaico, riscostruendo una specie di spiegone causalistico che come tutti i discorsi paranoidi lascia fuori dal suo sistema i dettagli scomodi, e come un templare del semplicismo freudiano affronta il mostro nero dell’angoscia collettiva con la spada del Logos, pensando di sconfiggere ShonenBat/Maromi con la semplice ricostruzione discorsiva del trauma originario. Ma è scaraventato via come una cimice. Povero Maniwa: epigono del ventesimo, neofita del ventunesimo secolo, inevitabilmente destinato al fallimento – per chi scrive, è il personaggio più teneramente amato. Il discorso non può mai far le veci della responsabilità, né con la sua luminosa chiarezza può essere eguagliato, quanto alla gloria, al ghigno dolente di Ikari, che non capisce niente ma sta comunque là fuori al freddo, e non cerca nell’edificazione di un sistema-paranoia – con i suoi infiniti gangli di senso e la sua vocazione totalitaria – un ultimo succedaneo del grembo materno, un sostituto discorsivo del principio di piacere che riconduca la realtà post-umana di plastica e sangue al regime del proprio.


Alla radice di tutto l’immenso cataclisma nero e rosa che travolge realmente la città di Tokyo c’è quello “sgorbio di cane” che Tsukiko Sagi, a dodici anni, ha lasciato che fosse investito da un’auto in un momento di distrazione. Quando la melma nera dell’angoscia escapista, ormai commista al rosa consolatorio del pupazzo Maromi – che dell’angoscia è una sublimazione, e quindi le è consustanziale – la investe e la sommerge, Tsukiko rivive la morte del suo cagnolino Maromi in compagnia di sé stessa dodicenne, nei termini esatti in cui ne parlò Maniwa. A questo punto però la catarsi si compie, e la marea nera si dissolve. Non perché la verità sia stata scoperta, come credeva il freudiano Maniwa – ma perché, inginocchiandosi accanto al corpo del cane e prendendolo tra le sue braccia, Tsukiko chiede scusa. La catarsi avviene perché, fuori dal discorso, nell’abisso della disperazione, inginocchiata, è nata una preghiera: l’ammissione del debito, della colpa, dello stato di difetto assoluto e insanabile di cui ciascuno è investito. Poco importa che il destinatario e l’attivatore di questa resurrezione religiosa fosse uno “sgorbio di cane”: il coraggio di Kon è anche quello di ricondurre alla sua miserabile pochezza l’enormità della condizione umana, al netto di tutte le grandi narrazioni che ormai hanno perso ogni virtù rigenerativa.


La catarsi, comunque, non dà luogo a un’apocatastasi, a un brave new world rigenerato all’insegna della responsabilità universale: nelle ultimissime scene l’escapismo e la paranoia tornano a regnare nella città assolata, con una chiusura circolare sulla Cosa Stessa, eternamente ritornante. Tutto quello che è successo è responsabilità di Tsukiko Sagi, ma ciò che succede dopo la rivelazione non è merito suo. Il passaggio che Hideaki Anno aveva lasciato in sospeso, quando Shinji torna all’Aperto in compagnia di Asuka e ancora vorrebbe strozzarla e precipitare nell’oblio, si riconferma in termini ancor più chiari nel finale della serie di Kon. Ma anche chi ha letto questo articolo, come chi l’ha scritto, domani tornerà a sognare Maromi con perfetta innocenza, e a sperare nella mazzata assolutoria di Shonen Bat. Non l’ha forse detto a suo tempo, Cristo, che il suo regno non è di questo mondo?


Il pupazzo di Maromi, immagine scema di Cristo, veglia sui dormienti in silenzio

* * *

(1) Una citazione di Jean Baudrillard, al quale devo il titolo dell’articolo.

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