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La cosa che tutti siamo | La marionetta perturbante tra orrore, mostruoso e comicità

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    Gruppo Studi Girard
  • 12 minuti fa
  • Tempo di lettura: 14 min

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«Per diventare risibile, la libertà deve unirsi al determinismo,

o il determinismo sovrapporsi alla libertà.

Ma questa soluzione è soddisfacente? Certamente no,

perché la doppia giustificazione, il meccanismo unito al vivente,

il determinismo dotato di libertà, risulta, anziché risibile, mostruosa.» (1)


Introduzione: l'orrore e la comicità


Dopo aver aperto un percorso attraverso la risata e la comicità per condurne una lettura che ampliasse lo sguardo portatovi da Girard nel suo Un pericoloso equilibrio (2), volgere ora tale sguardo all'orrore e al perturbante non pare in effetti incoerente.

Il cerchio sacrificale che si manifesta dietro la risata che deride e dietro le diverse forme di rappresentazione comica sarebbe già di per sé un elemento sufficiente a suggerire la contiguità tra i due ambiti, come peraltro evidenzia la ricorrenza di maschere legate al mondo della risata che vengono ritematizzate in chiave orrorifica – una su tutte, il pagliaccio Pennywise del romanzo di Stephen King, IT (1986).

Ma di recente è stato proposto in seno al gruppo che cura il blog Delle Cose Nascoste di organizzare un incontro intorno al film The Thing – La Cosa di John Carpenter (1982); indagare allora questi territori attraverso una pellicola come questa risulta particolarmente interessante, perché il tema posto al suo centro è proprio quello dell'imitazione: in questo film la mimesi si pone innanzi ai protagonisti in tutta la sua forza deindividualizzante e al contempo costituente, al punto che la potenza parresiastica di un tale agghiacciante disvelamento non può che evocare un nuovo velamento per nascondere una verità troppo minacciosa.

Ed è proprio questo disvelamento infatti ciò che già Girard ha suggerito essere l'oggetto nascosto della risata.


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Ma l'orrore si lega più strettamente alla comicità, al di là delle suggestioni operate dalle maschere, altamente rivelative di come al fondo della risata che deride vi sia la violenza che sacrifica.

Una pellicola come questa non può certo definirsi comica, e non riteniamo che lo sia; tuttavia ci sono alcuni indicativi inserti comici, di cui ne citiamo giusto uno, poiché prodromo della crisi successiva e poiché è la scena con cui ci viene presentato il protagonista: all'inizio della pellicola, vediamo MacReady mostrarsi spavaldo giocare con un simulatore del gioco degli scacchi, insultarlo e reclamare la propria superiorità un momento prima che questo gli muova lo scacco matto; il pilota reagisce a questo ribaltamento versando il proprio whisky sui circuiti del simulatore e ponendo così fine alla rivalità mimetica in atto.

L'ironia con cui si rivolgeva, umanizzandola, alla macchina non si è rivelata sufficiente a stabilire la propria differenza, a mantenere la distanza, assorbita dall'isolamento antartico e dalla relazione con la macchina per la simulazione del gioco, distanza che è anzi stata a maggior ragione neutralizzata dal modo in cui lui le si rivolgeva: è stato per ciò per lui necessario abbandonare il piano simbolico e venire a metodi meno simbolici.

Ma per comprenderne però meglio il legame tra comicità e orrore, è meglio procedere con ordine.


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La lettura antropologica della violenza mimetica


Partendo dalle analisi di Bergson, Girard accoglie l'idea che quanto accomuna ciò di cui si ride è legato a un comportamento o un atteggiamento che rende macchinico il soggetto, se questo è umano, mentre nel caso di un animale la risata sopraggiunge se questo assume comportamenti umani, ma comportamenti che sembrano imitare l'umano macchinicamente; Girard però presto si allontana dall'autore de Il riso. Saggio sul significato del comico, e intraprende la propria analisi partendo da una riflessione sulla dinamica fisiologica del riso, indicativa dei motivi psicologici e relazionali dietro il gesto della risata.

Fisiologicamente, la risata è infatti una reazione espulsiva, una reazione che consiste in contrazioni che attuano, simulandola, una espulsione di qualcosa dall'interno del corpo, analogamente a come il pianto tenta di espellere un corpuscolo estraneo dagli occhi (Girard stesso nota come il riso possa oltretutto includere anche il pianto).

Collegando questi due aspetti – la macchinicità come oggetto del riso e la risata come reazione espulsiva – ipotizza allora che la risata che deride intervenga per prendere le distanze e, posizionato colui che ride nella posizione di spettatore, espellere la violenza di cui parla ogni imitazione, la violenza che neutralizza le differenze e distrugge, sia simbolicamente che infine fisicamente, l'io.


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Per meglio comprendere il legame con il quadro antropologico generale del pensiero girardiano, occorre fare qualche ulteriore passo indietro. Nell'analisi condotta dallo studioso francese, la mimesi è un tratto antropologico ineludibile dell'agire umano sociale e caratterizza il costituirsi stesso dei soggetti e della società; ma l'imitazione non è solo veicolo di apprendimento, bensì anche strategia attraverso la quale tutti e ciascuno tentiamo di determinare e affermare la propria esistenza, in particolare gli uni rispetto agli altri e cercando di essere quanto ai propri occhi appare di meglio in ciò che si vede nei soggetti che ci circondano.

La tattica più immediata per ottenere questo obbiettivo è tentare di ottenere ciò che caratterizza l'esistenza altrui, sia come tratti della persona/personalità quanto come suoi possedimenti; questo porta il comportamento reciprocamente mimetico fino alla rivalità (rivalità mimetica) per l'ottenimento delle medesime cose, e questa a sua volta conduce al conflitto, il quale, facendosi processo che investe l'intero corpo sociale, può spingersi fino a produrre una crisi nella quale la rivalità diffusa e reciproca dissolve tutti i rapporti – crisi di indifferenziazione – e minaccia di distruggere la società.

La soluzione arcaicamente elaborata per porre fine a tale crisi è quella del sacrificio espiatorio cruento: un meccanismo nel quale un soggetto viene caricato univocamente della responsabilità della violenza reciproca e pertanto della generale situazioni di crisi, mentre la comunità si riunisce coesa attorno a lui per espellerlo, ottenendo così la purificazione (e il ricompattamento). Ma la cultura ha elaborato via via strategie simboliche e cultuali che riproponessero tale risoluzione, che la evocassero simbolicamente appunto, rappresentativamente, senza passare dalla cruenza del sangue: la risata che deride sarebbe una di queste e la comicità una sua rappresentazione, quindi una sua forma rituale simbolica.



La comicità come rivelazione della mimesi


Vediamo quindi a ciò che caratterizza la forma simbolica della comicità: l'eccesso di imitazione. Questo è ciò in cui consisterebbe la cifra comune di ciò che viene fatto oggetto della risata che deride. Quanto lo rende allora oggetto di sanzione derisoria, di sanzione che allontana da sé, sarebbe quindi proprio il suo mettere in mostra la natura mimetica quale tratto imprescindibile dei rapporti sociali, ricordando a tutti che si è reciprocamente invischiati in triangolazioni mimetiche, e che quindi le differenze che si ipostatizzano nella costituzione di identità e ordine sono in realtà di fragile consistenza e fondatezza; questo mostrerebbe quindi a sua volta come al fondo dell'ordine vi sia solo rivalità pronta a distruggere i contendenti in una competizione per l'affermazione illusoria delle differenze, una competizione pronta ad acutizzarsi ed esasperarsi fino al punto di minacciare la stessa società.

La risata che deride, che già Bergson aveva infatti sostenuto essere un gesto sanzionatorio, interverrebbe quindi a espellere proprio tale disvelamento allontanando da sé colui che ne è responsabile, operandone simbolicamente un sacrificio che permetta di ri-velare quanto deve rimanere nascosto.

La risata sorta riunendo la folla che espelle simbolicamente l'oggetto comico, deve rimuovere l'effetto rivelante prodotto dalla macchinicità dei comportamenti con cui il bersaglio comico ha prima tentato di imporsi nelle triangolazioni relazionali: questo suo farsi macchinico infatti, pupazzo meccanico che imita gli esseri umani, avrebbe rivelato come dietro ogni comportamento, intenzione, desiderio e individualità si celi invece la macchinica imitazione l'uno dell'altro, avrebbe rivelato l'imitazione reciproca come motore di ogni dinamica sociale e di ogni presunto punto di riferimento definito e posto a costituzione di una differenza cui appellarsi: in questo disvelamento le differenze mostrano tutta la loro fragilità e l'inconsistenza della loro unicità.

L'effetto di una tale agnizione è quindi tale da riportare in maniera aperta la violenza mimetica al centro delle relazioni che costituiscono la società: quella violenza non è mai scomparsa ma è la base costituente del vivere comune.



Nei nostri video (qui e qui quelli in cui riassumiamo i caratteri generali della tesi) abbiamo poi approfondito la tesi girardiana, cercando di mettere in luce come i comportamenti oggetto della risata che deride non svelerebbero soltanto la dinamica stessa dell'imitazione come cifra antropologica comune, ma svelerebbero al contempo l'ingiunzione all'imitazione stessa come dispositivo centrale che tesse la trama della società: l'imitazione è per questa infatti necessaria affinché i suoi componenti si conformino all'installazione dei vari dispositivi, confermando e consolidando così l'intreccio sapere-potere.

La natura mimetica regola e prescrive cioè l'installazione dei dispositivi, modellando i soggetti attraverso i loro desideri, assoggettandoli al sistema sapere-potere.

Giungendo quindi a disvelare la natura mimetico-dipositiva di ciò che ci caratterizza strutturalmente, vengono svuotate le rappresentazioni attraverso le quali ci viviamo invece come persone singolari e che riteniamo essere la cifra tanto della nostra individualità come della nostra stessa libertà.

Come infatti già d'altra parte illustrava Girard in Un pericoloso equilibrio, l'oggetto della comicità e della risata è proprio la perdita di autonomia e di padronanza, lo spettacolo di un soggetto che sembra una marionetta. Ma se quanto rivelato da ciò che si deride è allora un tratto comune che si vuole nascondere, l'immagine della marionetta si palesa come unica rappresentazione coerente di ciò che siamo: essa si mostra nel comportamento dell'altro, ma questo fa da specchio per ciò che siamo, e tale spettacolo è talmente inaccettabile da dover essere rimosso dalla coscienza, allontanato da sé.

Ecco sorgere la risata.

Ecco ridere della marionetta-dispositivo che tutti siamo.


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Noi, marionette. Ipotesi sull'orrore


Abbiamo già incrociato la figura della marionetta in occasione delle riflessioni condotte intorno a Polar Express. Ma se in quella pellicola essa rappresentava sì in maniera precisa e didascalica come l'orgoglio del desiderio e il mimetismo inconsapevole rendano la persona un manichino mosso da fili che non vede, essa vi compariva pur sempre in una scena circoscritta.

Nella pellicola di Carpenter l'imitazione è al contrario messa in scena non come pretesto per una narrazione orrorifica, ma come cuore di una riflessione in immagini e dialoghi sulla natura stessa dei soggetti da entrambe le parti dello schermo e sulla natura del dispositivo stesso dello spettacolo, ed è messa in scena al punto da rendere l'immagine della marionetta, del pupazzo svuotato della persona, non solo un'ombra che compare nello sguardo dello spettatore, ma un dubbio che i protagonisti vivono tanto rispetto a chiunque li circondi, quanto rispetto a loro stessi.

Il punto che rende tutto questo la leva che solleva la botola su di un vertiginoso orrore, è che quel dubbio, facendosi manifesto ma talmente prossimo da diventare carne del proprio corpo, apre sotto i piedi della tracotanza del soggetto l'abisso della propria celata natura, in cui echeggia la nota di un pessimismo cosmico (si potrebbe allora parlare di un passaggio dal pessimismo comico al pessimismo cosmico).

A quel punto non è più possibile la risata che deride, come quella iniziale alla scena degli scacchi, quella risata che nella comicità interveniva a esorcizzare l'ombra espellendo coloro che se ne facevano latori, perché ora lo spettacolo dell'imitazione porta invece il dubbio sulla propria autonomia nel cuore stesso dello spettatore, dei suoi stessi pensieri e delle sue stesse reazioni, compresa quella della risata quale gesto di purificazione e presa di distanza; allo stesso modo e per lo stesso motivo non è più possibile che la violenza rimanga solo simbolica e si attui attraverso la forma del cerchio comico sacrificale.

Certo, resta simbolica per lo spettatore, giacché la violenza resta sulla pellicola, ma la rappresentazione deve mettere in scena la violenza stessa: lo spettacolo della violenza orrorifica sorge allora con la funzione di rimuovere la presa di coscienza della profonda somiglianza tra i soggetti che guardano e l'agente che nello spettacolo muove la violenza e suscita l'orrore. L'orrore che ci abita deve essere ri-velato e ciò viene fatto disponendo lo spettacolo stesso di un orrore che non può che produrre la pulsione a prenderne la distanza, ad allontanarlo da sé attraverso la polarizzazione rappresentata – salvo casi da criminologia, riguardo i quali sarebbe infatti interessante leggere quanto la follia provenga dal delirio mimetico.

Ma abbiamo già sottolineato la potenza parresiastica di una pellicola come questa, ed è su questo automatismo della purificazione che La Cosa si sofferma e si arresta, innanzitutto mettendo criticamente in scena le dinamiche di un processo di polarizzazione a fini catartici, in secondo luogo interrogandosi e interrogando lo spettatore su quale alternativa ci sia (sempre che ci sia) all'imitazione, alla sua (eventuale) spirale mimetica dissolutiva, lasciando aperte le possibili risposte.


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L'ipotesi è quindi che, così come la comicità, anche l'orrore sia un dispositivo di rappresentazione che mette in scena sia l'indistinzione, la perdita di riferimenti che avviene a seguito di un'escalation mimetica, quanto il meccanismo sacrificale attraverso il quale viene ristabilita una differenza, e non solo a beneficio delle relazioni diegetiche, ma soprattutto anche a beneficio dei sacrificanti extradiegetici. Come la comicità, così l'orrore si pone quale dispositivo farmacologico, come pharmakon.

Così come detto per la comicità in occasione dell'analisi di Fantozzi e già accennato poco sopra in riferimento a La Cosa, anche per l'orrore vale però quanto allora affermato: tale dispositivo di rappresentazione può disporsi tanto in maniera occultante, ri-velante, operando cioè come vero e proprio rito in funzione della rimozione collettiva necessaria che permetta di ristabilire le differenze, quanto può invece disporsi in maniera parresiastica, in una maniera cioè critica, che riflette sul proprio stesso meccanismo, mettendolo in scena attraverso un gioco di specchi che lo rendono non più solo fruibile ma anche osservabile, analizzabile, così da sollevare il velo non solo sull'origine della crisi ma anche sul meccanismo rappresentativo che interviene a risolverla – là con lo spettacolo della risata che deride, qui direttamente con lo spettacolo della violenza fisica.

Come già sostenuto in precedenza, la forza di un film come La Cosa è proprio nel fatto di mostrare per tutto il film come l'imitazione sia la cifra stessa dell'esistenza, tanto della Cosa quanto degli umani, che cercano (e a tratti posso) uscire dalla crisi solo grazie a una imitazione di modelli differenti e senza cedere alla facile volontà di scegliere capri espiatori da rimuovere.

La forza risiede anche nel fatto che, dopo aver così portato il dubbio sulla propria natura a un punto di tale radicale orrorifica insolubilità, il suo finale non risolve la crisi, poiché il dubbio resta impigliato nella coscienza dei soggetti, ai quali non rimane che abbandonarsi al tempo che risolverà tale crisi con la morte impersonale e comune (sempre che nessuno dei due sia in realtà diventato La Cosa: a quel punto essa entrerà nuovamente in stato dormiente, si congelerà, così come la crisi di indistinzione si ritira tra un riacutizzarsi e l'altro), ma, intanto, non resta che scegliere, ultimi uomini sulla terra, come vivere la relazione, l'ultima, nel tempo rimasto.


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Cosa ci dice l'orrore – il perturbante


Per far meglio emergere quanto affermato sull'orrorifico, è forse opportuno offrire alcuni riferimenti teorici e chiarire quale visione dell'orrore accompagni queste riflessioni.

Un'ipotesi generale da cui queste muovono è che l'orrore possa essere ritenuto quanto meno filiazione diretta di un'altra categoria: il perturbante. Quanto meno, perché il dubbio è che si tratti in realtà di categorie attribuibili allo stesso gruppo di elementi, e che il termine orrore sia risultato più congeniale e abbia avuto maggior successo anche nel classificare le opere a partire dalla fruizione proprio perché ri-vela ciò che di perturbante viene mostrato, allontanandolo da chi vi assiste.

L'efficacia della categoria orrore sarebbe quindi legata alla capacità di sopire quella familiarità che invece emerge in controluce nel termine perturbante e che sembra caratterizzare in maniera centrale l'esperienza latrice; una familiarità che talvolta si mostra sconfinare nella complicità e nella compiacenza, facendo perfino trascolorare il perturbante nel conturbante.

Se si vorrà obbiettare che il termine orrore, a differenza di quello di perturbante, viene però applicato a rappresentazioni nelle quali compaiono violenza sanguinaria, esposizione di membra e corpi – in un ribaltamento interno-esterno rispetto al quale la categoria di perturbante comincia a mostrare la sua pertinenza –, si voglia d'altra parte tener presente che la categoria di orrore non viene però usata esclusivamente per queste rappresentazioni, ma per molte altre nelle quali non necessariamente compaiono gli elementi sopra citati.

Si pensi ad esempio a tutto quel campo dell'orrore in cui l'elemento orrorifico è lasciato dietro le quinte, non è mai visto, o a quell'orrore che proviene dall'improvviso cambio di scala della percezione e del piano del significato, così come quell'orrore che mostra senza violenza la dissoluzione delle strutture razionali poste a velo sul mondo e sulla mente umana.

Non sarà difficile ricordare esempi che vanno in questa direzione, rinvenendoli anche soltanto tra le opere di Poe e di Lovecraft, e suggellare questa impressione ricordando il termine horror pronunciato dal Colonnelo Kurtz, assorbito dall'oscurità interna-esterna, in Apocalypse Now.


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Per una prima indicazione di quanto caratterizza il perturbante, non possiamo che cominciare dal riferirsi al saggio di Freud, consapevoli che quegli ne facesse categoria afferente a casi più circoscritti rispetto all'uso che qui se ne propone, mentre quanto invece abbiamo scritto in precedenza fa del perturbante una categoria molto più ampia. Ma è proprio ciò che egli afferma su tale categoria a renderne possibile un suo uso molto più esteso e tale da comprendere anche l'orrore al suo interno, soprattutto una volta portata entro un'analisi dell'esistenza come installazione dei dispositivi.

Al di là di come lo studioso della psiche inquadrasse questa categoria entro il suo sistema di rappresentazione della mente umana, l'indagine che conduce nel saggio intitolato proprio Das Unheimeliche – Il perturbante (3), e la definizione che ne offre hanno il merito indiscutibile di offrire appigli evidenti per quanto si va qui sostenendo. Ecco infatti una prima citazione emblematica: «Voglio anticipare subito che entrambe le strade portano allo stesso risultato: il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.». (4).

Possiamo innanzitutto quindi cogliere che il perturbante fa parte a sua volta di un insieme più ampio: lo spaventoso, quindi ciò che reca minaccia, ma questo attributo si declina poi nella categoria presa in esame in maniera precipua, giacché ciò che rende perturbante, più che essere attributo della cosa in sé, è proprio della relazione che intercorre tra ciò che suscita spavento perturbante e chi prova questa emozione.

Più avanti leggiamo: «Io credo che esso [il perturbante, n.d.r.] si adatti senza fallo al nostro tentativo di soluzione, che possa cioè essere fatto risalire ogni volta a un elemento rimosso ma che ci era familiare da sempre [corsivo nostro]». (5) A beneficio di chi non avesse letto il saggio di Freud, egli desume il carattere della familiarità del rimosso che ritorna anche da un'analisi linguistica del termine stesso: il prefisso un- nega il concetto espresso dal termine, come la particella in- in italiano in termini come in-sicuro o in-fedele, e il concetto espresso dal termine heimlich è proprio quello di “confortevole, tranquillo”, da heim che vuol dire “casa”.


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Ecco allora che dovrebbe già intuirsi in che modo questa definizione di perturbante ci sembra possa venir opportunamente giocata entro il paradigma di analisi che andiamo componendo nella ricerca attorno al tema del comicità (ma non solo): ciò che ritorna a manifestarsi nelle esperienze perturbanti ci è familiare perché ci parla della nostra stessa appartenenza, di ciò da cui sorgiamo, di quella che è la nostra stessa natura. È la nostra stessa natura dispositiva, il nostro essere installazioni di dispositivi, i quali intrecciano tanto la trama del nostro corpo articolato quanto quella della nostra mente e del campo cui attribuiamo diffusamente la nostra individualità: il campo del desiderio.

Il ritorno del rimosso (o del superato, dice Freud – aggiungiamo: superato per la coscienza) che lo studioso austriaco individua nell'esperienza del perturbante sarebbe allora il presentarsi di qualcosa che non sappiamo (più) di sapere: è infatti senza coscienza che sappiamo di quanto ivi si manifesta, perché è ciò che regge la nostra stessa fattura, il nostro stesso pensiero e i nostri stessi desideri. È questo familiare che si manifesta tanto nelle esperienze comiche come in quelle perturbanti, e che, tanto nella forma rappresentativa comica come in quella orrorifica, viene messo in scena ripresentarsi, ritornare alla soglia della visibilità per essere sempre rappresentativamente polarizzato e allontanato da noi, là con una risata che deride, qui con una propulsione differenziante che si articola talvolta come repulsione, ma che comunque spinge sempre lo spettatore tanto più lontano da ciò che osserva quanto più ciò che osserva assume i caratteri del mostruoso, dell'orrorifico o del ridicolo.

Che poi in taluni soggetti l'orrore possa attrarre o addirittura spingere a identificazione, non sorprende, e non ci sembra possa confutare quanto affermato: difficile infatti non pensare che dietro quelle reazioni si celi in realtà proprio un desiderio romantico di differenziazione, di sentirsi più vicini a ciò che generalmente repelle per sentirsi diversi dalla generale umanità, e per rivendicare quindi così la posizione di modelli del desiderio.


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Come ultima nota riguardo il saggio di Freud, aggiungiamo che troviamo particolarmente interessante come tra gli ultimi passaggi del testo egli commenti come non sia l'oggetto in sé a suscitare necessariamente il senso del perturbante, ma le sue modalità di rappresentazione, e che per illustrare ciò esponga due esempi, uno dei quali riguarda lo spettro de Il fantasma di Canterville, «che è costretto ad abbandonare tutte le sue pretese di suscitare almeno un senso di orrore, quando lo scrittore, per celia, ironizza su di lui e consente che sia schernito [corsivi nostri]» (6).

Ecco, difficile pensare a un esempio migliore di questo nell'illustrare la continuità tra perturbante e comico: questo mostra come, laddove lo spazio per la comicità sia possibile poiché rimane garantita una permanenza di autonomia, l'effetto catartico, l'allontanamento da sé, il sacrificio può compiersi simbolicamente attraverso il cerchio comico sacrificale, senza che intervenga l'espulsione orrorifica.



***


Note


(1) Girard, R.: Il miracolo del ridere (1953-55), in Il miracolo del ridere, a cura di Benoît Chantre, tr.e it. di Elena Muceni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2025.

(2) Girard, R.: Un pericoloso equilibrio. Ipotesi sulla comicità (1972), in La voce inascoltata della realtà (2002), a cura d Giuseppe Fornari, Adelphi Edizioni, Milano 2006.

(3) Freud, S.: Das Unheimeliche (1919), in Opere Scelte. Volume secondo, a cura di Antonio Alberto Semi, tr. it. di Silvano Daniele, Bollati Boringhieri Editore s.r.l., Torino, 1999.

(4) Cfr. Ivi, p. 1016.

(5) Cfr. Ivi, p. 1045.

(6) Cfr. Ivi, p. 1051.


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