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Lettera prefatoria sulla virtù romanzesca dei giapponesi e sull'adolescenza

Aggiornamento: 28 ott 2018

Con un'incursione nel campo vergine del rapporto tra amae e mimetismo.


Neon Genesis Evangelion, ep. 26 - "Congratulazioni"

Sono nato nel 1989. A dodici anni, il martedì sera, guardavo gli anime su MTV di nascosto dai miei genitori. Non che mi fosse proibito, però c'era qualcosa di sbagliato negli anime giapponesi! Io lo sapevo: per questo mi nascondevo, e non lo dicevo a nessuno – forse solo a qualche amico altrettanto sbagliato.

L'universale fama di cui gode oggi l'animazione giapponese non riesce del tutto a mitigare l'impressione di non decet che ne accompagna la fruizione. È come la percezione di un eccesso, di una menzogna, di una lusinga pelosa. Il fanservice! Tette sballonzolanti, occhi grandi e luminosi, sentimenti purissimi! «Sono un po' esagerati, sti giapponesi!».

Non è solo un'impressione di noi occidentali. La stigmatizzazione della subcultura giovanile giapponese è stata realtà fino a pochi anni fa anche nel paese del Sol Levante. Poi è diventata una moda, e come tutte le mode ha perso quanto di conturbante poteva avere in origine per iscriversi nel registro dell'accettabilità, garantita dalla convergente mediazione dell'opinione pubblica. Eppure c'è qualcosa...

Specificità giapponese secondo una prospettiva "adulta", se ci si consente: percezione di un eccesso, di una sbrigliatezza emotiva a tratti ridicola. Un esempio su tutti: la reattività dei personaggi degli anime, autoparodiata, espressionistica, è ciò che più profondamente turba i profani. Perché questo personaggio arrossisce, si confonde, sbraita, urla, si straccia le vesti in una situazione apparentemente banale? Gli anime sono infantili, perché si attengono a una certa modalità dell'umano che normalmente si abbandona, noi occidentali, noi adulti dell'umanità, con la fine dell'adolescenza: il parossismo emotivo, la finzione distintiva, il capriccio spettacoloso, il condizionamento sotto lo sguardo d'altri, quel sentire indefinito e imbarazzante per l'occidente che lo psicologo Takeo Doi ascrive alla macrocategoria dell'amae, parola giapponese il cui significato potrebbe essere ridotto, a prezzo della perdita di molte sfumature, a quello di "dipendenza dagli altri".

Torniamo al giovane autore di questo articolo, che percepisce la propria sciocchezza di spettatore di fronte all'eccesso omnidirezionale delle serie animate giapponesi. Il mondo degli adulti è altro da questo eccesso, da questa finzionalità drammatica, da questa indecorosa apertura delle cateratte dell'emotività. Eppure qualcosa rintocca sempre, qualcosa che deve essere vero. Come spiego il mio profondo coinvolgimento nella ridicola menzogna?


Crescendo, conosco la narrativa occidentale, in forma cinematografica, seriale, pure animata. Mi accorgo che sì, questa è una narrativa più adulta, più sorvegliata, più rispettabile. Anche laddove esplode l'eccesso sessuale, l'oscenità, la povertà morale, la comicità demenziale, il relativismo: essa è virile, adulta e, sembra quasi, addirittura superiore a quanto racconta. I personaggi sono innanzitutto autonomi: hanno una loro storia e un loro vissuto interiore, ma sembra che abbiano vissuto in un congelatore fino al giorno prima. Tutto si svolge nelle loro menti perfette, gli altri vi rientrano più come discorsi che come fantasmi o demoni. I momenti di apertura e di abbandono di fronte all'altro non mancano, ma sembrano deviazioni episodiche, tributi pagati a una tradizione, pantomime senza virtù sacra. Qui sì, manca qualcosa.

Verso i vent'anni torno come un ladro, forse con un fondo di autoironia, alle mie vecchie amicizie giapponesi: rivedo interamente quel pezzo unico nella narrativa universale, in qualunque forma sia concepita, che è Neon Genesis Evangelion. La storia di un ragazzino di quattordici anni che pilota un robot umanoide per salvare il mondo da una squadra di creature mostruose chiamate "angeli". È tra le esperienze più segnanti della mia vita.

Ancora non capisco, sono confuso. Più o meno nello stesso periodo in cui riscopro Evangelion, incontro autenticamente, per la prima volta con verità e partecipazione, in maniera non scolastica, l'opera di Dostoevskij. Il salto coscienziale è pari, forse un filo superiore – ma un filo –, a quello prodotto da Evangelion. Cosa c'è di sbagliato in me?

È ancora una volta Girard a gettare la sua luce abbagliante su tutto. Ma certo. Anche Dostoevskij è il personaggio di un anime. Come potrebbe non esserlo? Nato sul finire degli anni Novanta in Giappone, lo immagino come il Togashi Yuuta di Chuunibyio demo koi ga shitai (2011), che durante le scuole medie si ammantella e finge di avere superpoteri – più tardi, al ricordo, si contorce per la vergogna. Come si può immaginare che Dostoevskij non abbia vissuto in prima persona l'esperienza del condizionamento romantico da parte di un modello, o il tormento dell'uomo del sottosuolo al cospetto degli ex compagni di classe? E quello è amae (1), è l'eccesso mostruoso del desiderio, il prolassare dell'ossessione per altri oltre le gabbie scarsamente contenitive della nostra compostezza. Ma è anche, nondimeno, mimetismo: l'ossessione per l'altro in quanto desidera qualcosa, in quanto mi può essere maestro o rivale nella definizione della mia immagine e della rete di significati che costituisce il mondo.

I russi desiderano, e desiderano forte, come i giapponesi. Non hanno paura di mostrarlo, provano anzi un certo orgoglio della loro sfrenatezza. Non si acquietano della mezza misura: vogliono il vicoletto di Mitja Karamazov, se non possono avere le altezze celesti di Cristo. Sarà per questo che hanno saputo portare a compimento, e meglio di chiunque altro, insieme ai tedeschi, un totalitarismo?

Russi e giapponesi desiderano forte e lo fanno secondo l'altro – o comunque in relazione all'altro. C'è un anime stupidamente divertente, Nichijou, nel quale una giovane studentessa, Yuuko, vive un'esperienza di delirio panico di fronte alla cameriera di un caffé per non sapere decifrare i nomi dei prodotti in vendita (https://www.youtube.com/watch?v=DcQFBdLNvZU). L'imbarazzo è reale – lo vive anche la cassiera – e non serve essere giapponesi per averlo conosciuto. Diverso e straniante per l'occidentale è il parossismo emotivo, sia pure parodiato, che il giapponese vive in una situazione così innocua. È proprio qui che entra in gioco l'amae, l'ossessione per l'altro che ci guarda – per il suo desiderio per noi –, che è strettamente legato al mimetismo, perché condizionato dalla ricerca di un'immagine di sé legata allo sguardo di altri – la "pienezza metafisica" di Girard. In un'altra scena della stessa serie, Mio-chan, compagna di classe di Yuuko, getta l'amica in una nera disperazione mimetica dimostrando di sapersela cavare egregiamente con le varie combinazioni di caffé (https://www.youtube.com/watch?v=3pj5IoTz_cU). Se chi legge conosce già il mio articolo su Kafka all'Askanischer Hof, forse ha già colto la strana analogia tra la situazione di Kafka e quella di Yuuko (2).

Gli occidentali hanno avuto il romanticismo, e hanno prodotto opere di una tale sfrenatezza da rendere paradossalmente evidente la meccanica del loro desiderio, che Girard ha poi avuto gioco facile a mostrarci, semplicemente leggendoci i testi dell'epoca, nella loro cristallina dichiaratività. Istruiti dalla propria vergogna, gli occidentali hanno quindi pensato bene di rifugiarsi nella dissimulazione intellettuale del desiderio, nella posa nichilistica, nell'abbruttimento narcotico (anch'esso, non di rado, intellettuale), nella speranza di velare definitivamente, far dimenticare al mondo che anche loro erano stati adolescenti, che avevano provato amae e desiderio mimetico una volta liberatisi dei loro dèi-padri. I giapponesi no. Sono diventati adolescenti, loro, incontrando un padre, non liberandosene, come è stato per noi. Quel padre è stato l'occidente con la sua scienza, la sua filosofia e la sua grande narrativa. Un buon mediatore, come loro stessi riconoscono; un esempio da imitare. Anche laddove consiglia la dissimulazione del desiderio! Quanto sembrano cool – cioè freddi, ma soprattutto fighi – questi occidentali...


L'inguaribile adolescenza dei giapponesi! Se siamo disposti a darle corda, ci mantiene in contatto con quella parte di noi che vorremmo non fosse mai esistita, ma che è verosimilmente la cosa più preziosa che abbiamo. È il desiderio che galoppa verso gli altri in tutte le direzioni e sotto tutte le forme; una delle quali, senza dubbio tra le più rilevanti, è quella mimetica. È la coscienza immediata della serietà di alcune questioni e l'indifferenza per certe altre, più seriose, che gli adulti, chissà perché, reputano così importanti. Forse perdendo la bellezza e la giovinezza sono stati costretti a inventarsi quelle altre cose, quelle serie? Forse invece il mondo non può andare avanti, a conti fatti, senza le cose da adulti. Le istituzioni, il politico, il bene comune: ecco il mondo degli adulti, che salva dalla deregulation adolescenziale del desiderio d'altri. Il faccia a faccia, l'eccesso emotivo, la menzogna romantica: ecco l'adolescenza, di cui ci vergogniamo – di cui non di rado si vergognano, istruiti da adulti perfidi e invidiosi, gli stessi adolescenti.

Non è mai questione di destini, dèi e alti fini: è questione di come ci guardano gli altri. Di quanto desiderio possiamo ricevere e suscitare. Questo ci ha insegnato Girard. Questa è la parola guida delle nostre riflessioni sull'animazione giapponese.


Un'ultima cosa. Molto giovane, ma già nostalgico, già esperto del mono no aware, scrissi questo pezzetto di prosa che scioccamente reputo altissimo, e che voglio condividere con il lettore.

<<La mia malinconia di dodicenne quando passava la sigla finale di Karekano. Sere d'inverno. I miei primi incontri con il dolore sordo dei rapporti umani. Comprendere poi la finitezza delle cose buone. Quanta meraviglia, oggi.>>

Lettore giustissimo, perdonami se ho indegnamente messo in piazza le mie frivolezze, contando sulla tua benevolenza con pieno amae, non dissimulando il mio desiderio per il tuo desiderio! Perdonami se ti ho fatto arrossire! Prometto che nei prossimi articoli sarò più serio, più adulto. Volevo proprio dirti questa cosa, perché capissi che la questione per chi scrive è cruciale! Vorrei, sempre un po' infantilmente, che lo fosse anche per te.

* * *


(1) Amae è concetto cruciale nell'opera di Takeo Doi (Anatomia della dipendenza, Raffaello Cortina, Milano 1991), psicoanalista giapponese che tenta di isolare un proprium della psicologia dei giapponesi e lo rinviene appunto nel concetto di amae.


(2) Che Kafka sia vittima di mimetismo è cosa che chi scrive sostiene con fermezza in altri articoli presenti su questo blog. Che egli sia anche vittima della logica di amae è cosa che altri hanno già discusso, a quanto so (Gerhard Schepers, Images of amae in Kafka, "Humanities, Christianity and Culture", ICU Publications IV-B, 15 luglio 1980: non sono riuscito a recuperare l'articolo, purtroppo). Interessante in questo senso la lettura di Bataille, che parla di un Kafka infantile (La letteratura e il male, SE, Milano 1987). L'analogia tra la situazione di Kafka e quella di Yuuko si mostra più chiaramente se si legge anche il primo capitolo del saggio Anatomia della dipendenza di Takeo Doi (Raffaello Cortina, Milano 1991) dove lo psicologo giapponese ricorda il proprio disagio di fronte alle minuziose e variegate opzioni di ristoro che gli americani usano sottoporre con ingenua disinvoltura ai giapponesi, inceppandoli nel loro sempiterno amae.

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