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Luce scura | La festa secondo Martin Heidegger

di Ludovico Cantisani



Se al netto di ogni strutturalismo e di ogni ansia di decostruzione novecentesca c'è stato un - ultimo? - filosofo che ha cercato con eleganza e diritto di rifondare il campo della filosofia all'interno della salda tradizione del dibattito sull'Essere, questi è stato Heidegger.

Sorprende e non sorprende allo stesso tempo trovare nel suo La poesia di Hölderlin - volume frutto della raccolta di sei diversi testi scritti o pronunciati da Heidegger sul poeta suo connazionale - trovare anche il motivo della Festa analizzato e problematizzato sotto uno sguardo esistenziale e ontologizzante.

Una premessa importante: Heidegger si accosta ad Hölderlin con un chiaro intento restaurativo, e senza lesinare polemiche verso i moderni progressi delle scienze umane. “La parola 'animo' cela ancora qualcos'altro da dirci, qualcosa che un giorno udiremo di nuovo, quando avremo imparato a non pensare più l'uomo seguendo le opinioni delle antropologie”. Potremmo dire che quest'attenzione tributata da Heidegger al più complesso e contraddittorio dei romantici tedeschi – l’unico autore nato nello spaventevole “dopo-Cristo” ad essere oggetto di una sua monografia oltre a Nietzsche - sia il frutto dichiarato di una nostalgia, di un rimpianto che si rivolge innanzitutto a quella semplicità di mores e a quell'elementale che Hölderlin ha ripetutamente cantato, nella sua produzione poetica. È corretto, ma è parziale. Fatto salvo il proverbiale Ormai solo un dio può salvarci, che Heidegger aveva relegato a una pubblicazione volutamente postuma, La poesia di Hölderlin segna il luogo letterario da dove il filosofo del Dasein pronuncia il suo più esplicito richiamo al sacro, in antitesi con tutto il Novecento.


Inevitabilmente e, fino a questo punto, girardianamente, è proprio da questo sacro che sgorga la festa, anche per Heidegger. Ne La poesia di Hölderlin, un intero saggio è dedicato a un'analisi à la Heidegger del componimento hölderliniano intitolato Come quando al dì di festa - eppure, per trovare le tracce di quella che potremmo definire "l'epistemologia della festa" secondo Heidegger, faremmo meglio a rivolgerci al successivo saggio della raccolta, un'approfondita disamina dell’inno di Hölderlin Rammemorazione.

In un primo tempo, l'analisi di Heidegger procede prevedibile e conseguenziale, ma non tarda a rivelare l'usuale, affascinante sonorità paganeggiante che, come un rimbombo, si sente a tratti scorrere sotto i suoi testi. Secondo Heidegger, “'far festa' significa in primo luogo sospendere l'attività di tutti i giorni, smettere il lavoro”, eppure “la festività, presa in senso rigoroso, è altro, non solo il vuoto di un'interruzione”. È, più che altro, una cesura - e qui ritorna una certa sottigliezza alla Essere e Tempo. “Nella mera sospensione del lavoro può già essere determinante il ritirarsi. Ritirandoci, torniamo a noi, non nel senso di un ripiegamento egoistico sul nostro ‘io’, bensì nel senso che quel ritirarci ci trasporta in una dimensione scarsamente esperita a partire dalla quale si determina la nostra essenza”. L'esistenza e una certa nozione di estraneità vanno a braccetto, in Heidegger - e ciò contribuisce a spiegare anche l’interesse non corrisposto che per lui provarono gli esistenzialisti francesi propriamente detti. “Da questa trasposizione” nell'estraneo, nel fuori-dal-quotidiano, infatti “ha inizio la meraviglia oppure lo sgomento oppure il timore”. L'unica certezza è che “ogni volta sorge una meditazione”.

Nella filosofia tedesca del Novecento, Adorno spicca per monadicità, Heidegger per il suo sguardo macrologico. Eppure, proprio la festa è, per Heidegger, il luogo preposto all’emergenza dell’a-normale, la speranza ultima di quella teofania che fa da sfondo a tutta la sua ricerca, almeno dopo la Svolta, con l’incunearsi del suo pensiero nel significato originario del greco Verità. “Ma il reale a cui la vita quotidiana ci ha abituati non può tenere aperto l'aperto”. Sicché, “far festa è un diventare liberi per il non abituale di un giorno che, a differenza della smorta tetraggine di tutti i giorni, è quello luminoso”. È a questa luce che inneggiano i poeti, quelli autentici - fino ad arrivare ad Hölderlin che, come avremmo potuto aspettarci da un lirico greco, arriva a postulare la festa nuziale degli uomini e degli dèi. Una ierogamia, pertanto, e quasi due secoli prima di Calasso. Una ierogamia che non ha nulla di carnevalesco, e tutto di cerimoniale: “la festa, con la sua necessità, predispone a un bisogno nascosto di qualcosa di necessario”. Un bisogno che è, innanzitutto, conoscitivo, e per ciò stesso salvifico, come tutto in Heidegger – qui riecheggia la dimensione gnostica del suo pensare, astutamente rivelata da Hans Jonas.

“La festa, primieramente destinata dal sacro, resta l’origine della storia”. Heidegger e Girard non sono mai stati così vicini come in questo passo, e mai così lontani. Ma prima di approfondire questo crocevia, spostiamo lo sguardo a destra.


***



I motivi di interesse di un confronto tra Heidegger e Girard non si esauriscono nel tema della festa: ulteriori impulsi li possiamo trovare infatti proprio nella comune indagine su Hölderlin, che ha impegnato lo stesso Girard nella parte conclusiva del suo magistrale Portando Clausewitz all'estremo. Il protagonista dell'indagine è il grande generale prussiano, nemico irriducibile di Napoleone e autore di un indimenticato Della Guerra pubblicato postumo e incompleto; ma Girard, partendo dalla coincidenza che vide riuniti nello stesso luogo e nello stesso anno, nella Jena del 1806, i tre massimi rappresentanti di quella temperie, non manca di espandere lo sguardo anche verso il poeta-simbolo del romanticismo tedesco. In quello stesso anno infatti, e in quella stessa città, Hegel vide passare “lo spirito del mondo a cavallo” sotto le sue finestre, incarnatosi in Napoleone, Clausewitz ha il suo confronto con questo umanissimo “dio della guerra” che lo sconfigge senza pietà, mentre Hölderlin, da par suo, sprofonda nella sua cosiddetta follia.

Hölderlin fu al centro dell’attenzione anche di Martin Heidegger, che nel poeta vide un’incarnazione dello “spirito tedesco” particolarmente vicina alle sue corde ellenizzanti. Abbiamo già visto le riflessioni soprariportate di Heidegger sulla festa prendessero spunto proprio dal poetare di Hölderlin, tanto da essere contenute nella raccolta di saggi che accostava tutte le conferenze e gli altri scritti accumulati negli anni, dal filosofo sul poeta. Poeta che ai suoi occhi rappresentava una sorta di imperativo ontologico, quasi morale. “È stata nel frattempo sollevata la questione se Hölderlin appartenga ai filologi o ai filosofi. Egli non appartiene né agli uni né agli altri, e nemmeno a entrambi”, avvertì Heidegger i suoi ascoltatori, prima di iniziare, nell’estate del 1959, a Stoccarda una conferenza intitolata Terra e Cielo in Hölderlin e poi inclusa nel sopraccitato volume. “La questione di cui occorre fare chiarezza non è quella di sapere a chi di noi appartenga Hölderlin, ma invece questa soltanto: siamo noi in grado nell'epoca presente di appartenere alla poesia di Hölderlin?”.

Perché essere primigeni - primi genii? - alla maniera di Heidegger significa già non essere più primitiva? Cos'è mai questa ricerca solo apparente dell'origine che manca sempre il bersaglio, che se lo confonde da solo?

“Non si sfiguri la poesia di Hölderlin con 'il religioso' della 'religione', la quale è e rimane un modo romano di interpretare il rapporto fra gli uomini e gli dèi”. Heidegger, filosofo di etimologie, cerca di delimitare nettamente il campo del lirismo hölderliniano, ma annega rapidamente nel costante ricorso al concetto di sacro. “La parola deve già prima essere in accordo con la luce splendente del sacro che ha fatto dono di sé stessa al poeta”, è la sua convinzione. Ma se il sacro nasconde qualcosa, questo qualcosa è, agli occhi di Heidegger, unicamente "il dio", e certo non la violenza, come si trova a ripetere un paio di volte nel corso della conferenza datata '59.

Senza arrivare a scomodare Derrida, che ad Heidegger mosse un omaggio ma soprattutto una critica nel saggio Violenza e metafisica, riconoscendo nell’opera del tedesco una forma radicale di violenza della luce - basti ricordare proprio le analisi di Girard sui nessi tra violenza e sacro, per problematizzare la limpidezza apollinea che Heidegger legge in Hölderlin. Heidegger accarezza quasi unicamente la componente pagana e pluralistica del pensiero di Hölderlin - Girard poco ci manca che ne faccia un cristiano da smascherare per la maggiore gloria del culto. La verità, prevedibilmente, sta nel mezzo, ed è verosimile congetturare anche un movimento diacronico, nel pensiero sfuggente, eppure così insistente, di Hölderlin sul sacro.

La lettura che di Hölderlin ci viene proposta da Girard ovviamente vuole ribaltare ogni preacquisito equilibrio critico, per mostrare il volto di un poeta dolorosamente cristiano: nel complesso la sua lettura è estremistica, ma fa indubbiamente luce su versi di Hölderlin che, nascosti in piena vista, rimandano apertis verbis alla rivelazione cristiana, o quantomeno monoteistica. “Hölderlin è molto meno ossessionato dalla Grecia di quanto si creda”, afferma Girard, “io al contrario lo vedo spaventato dal ritorno del paganesimo che ossessiona il classicismo della sua epoca”.

Nel capitolo Tristezza di Hölderlin, un tassello fondamentale di Achever Clausewitz, dopo aver evocato abbastanza sorprendentemente un talmudista fuori tempo massimo come Emmanuel Lévinas, Girard affronta i versi del poeta tedesco. Girard affronta Hölderlin partendo inevitabilmente dal celebre “Prossimo/è il Dio e difficile è afferrarlo” - l’esordio del componimento Patmos. “Dove però è il rischio/anche ciò che salva cresce”. Sembra quasi una rassicurazione evangelica.



“Hölderlin comprende da subito che la promiscuità divina non può che essere catastrofica. Il ritiro di Dio è allora il passaggio in Gesù Cristo dalla prossimità alla distanza”. Del resto, “un dio di cui ci si può appropriare è un dio che distrugge”, ragion per cui “mai e poi mai i greci, ancora una volta, hanno cercato di imitare un dio”. Sarà il cristianesimo a osare tanto - ma solo dopo aver sottoposto a un doppio vincolo e a un doppio fondo il concetto stesso di Incarnazione divina. Giunti a questo punto, “imitare Cristo significa rifiutare di imporsi come modello, significa annullarsi sempre di fronte all’altro. Imitare Cristo significa fare di tutto per non essere imitati”. Ipse dixit.

Nelle pagine seguenti, Girard non manca di scagliarsi apertamente contro la lettura heideggeriana di Hölderlin, colpevole a suo dire di aver occultato “il fatto che Hölderlin è profondamente cristiano, o che piuttosto lo diventa sempre più, man mano che si ritira dal mondo”. Proprio in antitesi con Heidegger si era voluto posizionare Girard quando, tre decenni prima di Portando Clausewitz all’estremo, andava trionfalmente definendo i limite e le zone critiche di confine della sua teoria mimetica – in ossequio alla sua idea dei doppi malvagi, Girard è sempre stato assai sferzante con tutti quei pensatori che ha visto avvicinarsi alla rivelazione del capro espiatorio, salvo poi cambiare strada. Un esempio grandioso è Nietzsche – come grandiosa è la lettura che Girard fa di Nietzsche, e della sua pazzia, lungo tutta la sua opera, in modo definitorio ne La voce inascoltata della realtà. E estrema analisi, non è una semplificazione dire che Hölderlin a inizio secolo percorrerà lo stesso itinerario precipitato da Nietzsche negli ultimi scampoli dell’Ottocento. I versi de L’Unico - unico che è anche ultimo, ma che è anche unigenito - parlano chiaro; siamo dalle parti dei Biglietti della follia:

“Ma io lo so, mia è la colpa

Perché troppo ti sono seguace

o Cristo, benché fratello d’Eracle.

E lo riconosco,

temerario: sei fratello

di Dioniso…”


***


“Rinchiudendosi nella filosofia e facendone l’ultimo ed estremo rifugio del sacro, Heidegger non può superare certi limiti, quelli appunto della filosofia. Per capire Heidegger, bisogna rendersi conto che deve essere letto, come i Presocratici prima di lui, nella prospettiva radicalmente antropologica della vittima espiatoria”. In dialogo con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, è a questa conclusione che Girard approda dopo uno dei passaggi più densi di tutto Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo.

L’incontro-scontro con Heidegger era inevitabile, nell’architettura del libro: è attraverso il lungo dialogo che compone Delle cose nascoste che Girard fa definitivamente i conti con una lunga serie di pensatori a lui relativamente vicini da un punto di vista anagrafico e tematico - ma non prospettico -, Freud in primis. Nella lettura girardiana, Heidegger ha il merito di decidere di tenere divisi il Logos greco classico dal Logos annunciato dal Vangelo secondo Giovanni - il riferimento va soprattutto a Introduzione alla metafisica; ma, dall’altro lato, Heidegger agli occhi di Girard ha anche il demerito di vedere nello stesso Logos biblico, e non solo in quello pagano, segni di violenza, o almeno di autorità.



“La sola differenza tra Heidegger e i suoi predecessori è che la relazione di mutua tolleranza finora esistita tra i due Logos è sostituita da una relazione di antagonismo”. A furia di stiracchiare le etimologie, pratica rimproveratagli anche da Umberto Eco, Heidegger “risale al sacro… partendo dal linguaggio filosofico”. Ma “se si esaminasse Heidegger alla luce della vittima espiatoria, si vedrebbe che dietro l’interpretazione delle parole chiave della lingua tedesca e greca, e dietro soprattutto la meditazione sull’essere, si tratta sempre, in ultima analisi, del sacro”. Heidegger letto alla luce dell’antropologia può essere rivelatorio: tanto più l’Heidegger che si avventura in un territorio antropologico, come rilevavamo, poco sopra, a proposito della festa in Hölderlin. Ma Heidegger cela il sacro, o il sacrificio stesso? Su questo Girard è poco chiaro – e da qui riparte un suo discepolo.

“L’indagine acuta e a tratti grandiosa del pensatore tedesco” riassume infatti Giuseppe Fornari nel suo Da Dioniso a Cristo, risalente ai primi anni duemila: il pensatore di Essere e Tempo “esclude meticolosamente qualunque riferimento troppo religioso e antropologico. Heidegger non vuole rendersi conto che il suo Essere ha caratteristiche convergenti col sacro arcaico, come a suo tempo gli aveva ironicamente rimproverato Adorno”. Ora, proprio alla luce de La poesia di Hölderlin, ci viene da dire che questa critica è in parte ingenerosa - ma semplicemente perché Heidegger lo sa, che cerca il sacro, e non ha fatica ad ammettere che il suo sacro parla greco.

“Dominato dalla percezione di un gigantesco occultamento alla base del pensiero occidentale, egli ritiene di poterne recuperare la struttura originaria restando all’interno del pensiero medesimo, e trasformando così quest’ultimo nel succedaneo della struttura sacrificale con reticenza evocata. Operazione amputata e a suo modo geniale, che si è condannata al fallimento in ragione del suo stesso successo”, a causa di tutti quegli imitatori heideggeriani che hanno elevato a oggetto di culto ogni frammento databile a prima di Socrate. Questa è la conclusione di Fornari, tra i più fedeli continuatori dell’impresa di pensiero girardiana al netto di qualche secondaria critica - e questa è la parafrasi per esteso di quel germe di critica girardiana ad Heidegger contenuta in Delle cose nascoste, ancorché troppo severa e troppo interessata a rivelare l’ennesimo caso di occultamento del sacro, per essere equilibrata in toto.

Eppure basterebbe poggiare gli occhi sul più vistoso dei frammenti eraclitei: quello su Polemos padre di tutte le cose, così masticato e ripetuto che è inutile riportarlo per esteso. Polemos, Guerra quindi - rivalità mimetica, per dirla alla girardiana. Dalla prospettiva girardiana, Heidegger non ha saputo riconoscere cosa il Polemos, ed ogni sacro, cela, nella positività sgomitante che tratteggia ogni esistente - ma da una prospettiva heideggeriana, con la sua insistenza radicale sul sacrificio Girard è quasi sul punto di tracciare una cosmologia, un’ontologia sanguinante che postuli il carattere sopraffatorio di ogni Esserci. Ciò non si può dire che sia attinente con la prospettiva heideggeriana sull’esistenza e sull’Essere, ma neanche propriamente in antitesi: basterebbe uno scarto di pochi centimetri a spostare Girard dal piano antropologico al piano esistenziale e quasi teogonico, e con la centralità da lui tributata al sacrificio non ci vorrebbe molto a tracciare una nuova, un’ennesima ontologia, che faccia il verso un po’ ad Eraclito. Ma Girard, quest’errore non lo fa.

Diciamola tutta, e fino in fondo: con il suo costante ontologizzare l’ente, con la sua macrofisica dell’esistenza quotidiana delineata da quell’Essere e Tempo del cui fantasma non si potrà più disfare nonostante i suoi sforzi e le sue svolte, Heidegger si rifugia in un linguaggio oltre i limiti consentiti dell’affascinante, che pure allude molto più di quanto dice. La poesia dell’Esserci che si nasconde nella prosa dell’Ontologia? No, meglio: il barone Münchausen che si solleva col suo stesso bavero. Quella palude è l’Essere, e l’Essere è una palude. Ciò che ne affiora, non resta mai troppo a lungo a galla.


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Se Heidegger e Girard sono potenzialmente i frères ennemis del comune fronte Contro la Secolarizzazione - tra i pochissimi a proporre dei sistemi chiusi e metafondativi nel Novecento, incuranti dell’interdetto hegeliano – è implacabile che nei rispettivi campi di gioco emergano oscure simmetrie. Girard, che non riesce a tracciare un confine netto tra antropologia e apologetica, reinterpreta e a suo dire decifra il Cristianesimo come la rivelazione dell’arbitrarietà della vittima sacra, come la condanna definitiva del concetto stesso di capro espiatorio – confutazione tracciata sul Corpo stesso di Dio, di suo Figlio perlomeno. La rivelazione del Cristianesimo però non è mai stata recepita a fondo – è finito il tempo dei sacrifici, ma non quello delle violenze mimetiche, e inevitabili capri espiatori affollano ogni giorno la vita nella nostra società, anche se incompresi, perché il messaggio evangelico è stato sostanzialmente bypassato. Contro la misinterpretazione del cristianesimo, si erge l’opera girardiana – un’architettura di pensiero paradossale, nella sua ambizione, eppure convincente proprio per la sicurezza con cui si postula, nell’implicito, come la necessaria parafrasi alla Parola di Dio, la sua esplicitazione.

Heidegger è di un’altra parrocchia, e non saranno interviste divulgate postume a mutare il senso complessivo del percorso di una delle figure più interessanti ed emblematiche per chi cerca una prospettiva che non sia né religiosa né materialista. Ma anche Heidegger afferma di scoprire un occultamento durato millenni - di una verità appena sfiorata, alle origini del pensiero greco, e sostanzialmente fraintesa già da Parmenide, il che equivale a dire fraintesa da sempre, in contumacia dei primissimi ionici dell’ἀρχή. Ed è proprio sul concetto di origine che di nuovo Heidegger e Girard cadono assieme - proprio come sul concetto di festa, ma dall’altro lato del piano di analisi. Per Heidegger, originaria è la festa, per Girard, l’origine di tutta la civiltà è un sacrificio camuffato – in una meta-prospettiva girardiana, l’opera di Heidegger perpetua il mito e il lirismo mascheranti, Girard rivelando il nesso tra la violenza e il sacro si situa sulla stessa linea di successione che abbina tragedie e vangeli.

L’origine: gli ultimi tornanti del pensiero occidentale assomigliano così insistentemente ai suoi albori! Fatalità dell’ἀρχή. Nell’impossibilità di una sortita radicale dalla tradizione, Heidegger e Girard prendono di petto la questione fondamentale che, già all’origine, si interrogava sull’Origine. Nessuno è stato così attento al concetto profondo di origine quanto loro, nel Novecento – Carl Schmitt si è lasciato ossessionare dal fondamento, e dalle fondazioni, e gli antropologi propriamente detti hanno giocato più di analogie, che di archeologie. Eppure, origo pudenda – lo sapevano già i latini. Questo continuo interrogarsi da distanze abissali, che accomuna e separa Girard ed Heidegger, dove potrà mai portare?


***

Un fatto curioso, ancorché marginale. Heidegger occhieggia la poesia, Girard i grandi romanzieri. Verrebbe da dire che quasi li invidino, rispettivamente, i poeti e gli scrittori – come se Girard e Heidegger fossero autori mancati, pensatori rigorosi che continuamente guardano al modello di una creatività di pensiero più libera, più galoppante. “Il non abituale si apre e apre l'aperto solo nel poetare”, scrisse Heidegger ne La poesia di Hölderlin, “oppure, in modo abissalmente diversi e a suo tempo, nel ‘pensare’”, quasi a mo’ di consolazione – e la ricerca condotta da Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca, tra Cervantes, Dostoevskij, Stendhal e Proust, si colloca sulla stessa linea di attitudine. Con la differenza, sostanziale, che nel rigore imposto loro da un pensiero prosastico, tanto Heidegger quanto Girard devono collocare anche loro stessi, almeno in quanto pensatori, nel proprio rispettivo sistema – e questo sfocia in un inevitabile gioco di specchi, che rende le loro opere non propriamente sistemi di pensiero, ma metapensieri in senso stretto, tagliente.

Rivelare la rivelazione - è qui che Heidegger e Girard incrociano le spade, anche se uno si soffermerà sulla verità pagana, e l’altro sulla buona novella evangelica. Come Girard crea un posto per sé stesso all’interno della sua teoria, in quanto eco radicale dell’autentica rivelazione evangelica, destinato al pari dei Vangeli stessi ad essere frainteso e respinto dai più – e non c’è ombra di vittimismo in questa posizione, lo stesso Heidegger, e in modo ancora più esplicito, si inserisce nel suo “sistema”; sia denunciando la miscomprensione dell’Essere da Platone in poi, sia, e qui è più sibillino, con il suo ricorrente indugiare sull’etimo dell’ἀλήθεια, su quella svelatezza di suo conio.

Verità classica, verità cristiana. Il discorso conduce pericolosamente verso il fondamento del concetto stesso di verità. Ma, giunti al dunque, la verità è sacrificale? O è festosa? Oppure è apocalittica e, quindi, agghiacciante e trionfale a un tempo? Sono queste le domande che ci fanno sorgere, Heidegger e Girard, nel loro echeggiare strutture comuni - nel loro riflettere le due grandi regioni di pensiero all'origine della nostra cultura, sono queste le domande che ci fanno angustiare.



Indicazioni bibliografiche


Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990

Giuseppe Fornari, Da Dioniso a Cristo. Conoscenza e sacrificio nel mondo greco e nella civiltà occidentale, Marietti 1820, Genova-Milano 2006

Carlo Ginzburg, La lettera uccide, Adelphi, Milano 2021

René Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, Adelphi, Milano 1983

René Girard, La voce inascoltata della realtà, Adelphi, Milano 2006

René Girard, Portando Clausewitz all'estremo, Adelphi, Milano 2008

René Girard, Violenza e religione. Causa o effetto?, Raffaele Cortina Editore, Milano 2011

Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 1989

Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, Adelphi - Biblioteca Filosofica, Milano 1988

Martin Heidegger, L’essenza della verità, Adelphi – Biblioteca Filosofica, Milano 1997

Martin Heidegger, Parmenide, Adelphi – Biblioteca Filosofica, Milano 1999


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